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Meditazione del Card. Robert Sarah sulla vita del Servo di Dio Jérôme Lejeune

Jerome_Lejeune

Meditazione del Card. Robert Sarah sulla vita del Prof. Jérôme Lejeune, Servo di Dio

Pubblicato il 25 marzo 2017 da Evangile de la Vie

Il card. Sarah si è recato il 24 marzo 2017 a Parigi in occasione della messa annuale della Fondazione Lejeune, celebrata nell’anniversario della chiamata a Dio del Professore.

Prima di presiedere a questa bella celebrazione il cardinale ha tenuto una conferenza dal titolo: “Scegli la vita affinché tu viva” (Dt 30,19)

Ecco il testo della sua allocuzione nella nostra traduzione:

Cari amici,

Non ho avuto nè il privilegio ne la gioia di conoscere il Professor Jérôme Lejeune. Tuttavia, alcuni anni fa, in occasione di un congresso organizzato dall’Associazione francese Raoul Follerau sono stato lieto di conoscere la signora Lejeune, sua moglie, che è qui presente; ella ha avuto la bontà di donarmi una fotografia del Professore che riporta, sul retro, la “Preghiera per ottenere grazie per intercessione del servo di Dio Jérôme Lejeune”.

Permettetemi di iniziare questa breve conferenza con le parole del Professor Jérôme Lejeune:

Se qualcuno vuole veramente attaccare il Figlio dell’uomo Gesù Cristo, non ha che un mezzo, ed è attaccare i figli degli uomini. Il cristianesimo è la sola religione che dice: “il vostro modello è un bambino”, il bambino di Betlemme. Quando avremo imparato a disprezzare i bambini, non ci sarà più cristianesimo in questo paese.

Si può affermare che la lotta del Professor Jérôme Lejeune, con le sole armi della verità e della carità, una lotta condotta a mani nude, si inscrive nella battaglia finale, evocata nell’apocalisse di san Giovanni, tra Dio e Satana. Di fronte all’arroganza del Golia delle potenze finanziarie e mediatiche, pesantemente armato e protetto dalla corazza delle sue false certezze, e dalle nuove leggi contro la vita, la chiesa Cattolica del XXI secolo, almeno in Occidente, sembra il “piccolo resto” del quale parlano le Sacre Scritture.

Infatti, la chiesa Cattolica, come Davide, dispone solamente del piccolo ciottolo del Vangelo della Vita e della Verità, eppure colpisce il gigante in piena testa e lo abbatte. Infatti, noi lo sappiamo bene – e l’intera vita del Professor Lejeune ce ne fornisce una testimonianza luminosa – si tratta di una battaglia, a volte molto aspra e decisiva, che sarà lunga e simile a quella degli ultimi tempi descritti nell’ultimo libro della Bibbia. Così, ne va della sopravvivenza della stessa umanità. Il “l’enorme drago rosso a sette teste”, prototipo di questa cultura della morte denunciata da S. Giovanni Paolo II nel suo magistero, si mette davanti alla donna incinta, pronto a divorare il bambino al momento della sua nascita e a divorare “noi” allo stesso tempo (cfr. Ap 12, 4). Occorre essere coscienti che, ancora una volta, come è spesso accaduto nella sua lunga storia bimillenaria, la Chiesa costituisce l’ultimo baluardo contro la barbarie: non si tratta più di Attila e dei suoi Unni che S. Genoveffa arrestò alle porte di Parigi nel 451, nè della lotta dei papi del XX secolo – da Pio XI a S. Giovanni Paolo II – contro i diversi totalitarismi che hanno insanguinato l’Europa e il resto del mondo. Si tratta di una barbarie sterilizzata in laboratorio, terribilmente efficace, che l’opinione pubblica praticamente non percepisce, perché è anestetizzata dai Golia delle potenze finanziarie e mediatiche. Sì, si tratta proprio di un combattimento… all’ultimo sangue: se non fosse così, i poteri pubblici, in Francia, tenterebbero in questo momento di far tacere i siti internet detti “pro vita” e inventerebbero un reato di intralcio informatico all’aborto? Nel corso della discussione di questo progetto di legge aberrante al Parlamento francese, i difensori della vita sono stati linciati verbalmente per aver osato ricordare che l’aborto non è un diritto, ma un crimine e di conseguenza il più grande dramma dei nostri tempi…

A mo’ di introduzione, ho voluto ricordarvi il quadro fattuale e mistico della lotta per la vita condotta dal Professor Lejeune per meglio farne risaltare ora il senso profondo alla luce del Vangelo. Esaminiamo insieme la sua vita: si può affermare, senza rischio di errore, che piuttosto che cadere tra i vigliacchi votati al compromesso, il Professor Lejeune ha rinunciato agli onori e alla ricchezza, accettando l’umiliazione e l’esilio stesso, se non altro un esilio interiore. Infatti, Jérôme Lejeune, superando ogni ostacolo, è restato fedele a Cristo e al Vangelo; ecco perché rappresenta per ciascuno di noi un esempio ammirevole di forza nella fede e di abnegazione nella carità. Infatti, come sapete, la morte “in odium fidei”, in odio alla fede, non è appannaggio di “questa moltitudine immensa di uomini e donne che sono passati attraverso la grande e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello, che stanno in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, e servono giorno e notte nel suo Tempio” secondo la visione dell’Apocalisse (cfr. Ap 7, 9). Una tale morte, nella quale il sangue viene versato dal testimone di Cristo non è la sola modalità di martirio, dato che un’autentica modalità di martirio cristiano è anche una quella di chi si offre interamente a Dio, compresa la propria vita, la propria famiglia, la propria reputazione e il proprio onore, se questi vengono ad essere calpestati dai pagani; una vita nella quale la persona rinuncia a tutto per Amore di Dio. Nel corso della lunga malattia del Prof. Lejeune, che l’ha tolto prematuramente all’affetto dei suoi cari, si è visto come muore un cristiano all’alba di Pasqua e il papa S. Giovanni Paolo secondo, grande amico del Professore, non si è sbagliato quando ha dichiarato, nella lettera che allora indirizzò al Card. Lustiger, il lunedì di Pasqua 1994, all’indomani del ritorno del Professor Lejeune alla Casa del Padre: “La Resurrezione di Cristo costituisce una grande testimonianza resa alla Vita che è più forte della morte. Una tale morte, quella di Jérôme Lejeune, rende una testimonianza ancora più forte alla Vita alla quale l’uomo è chiamato in Gesù Cristo. Infatti, lungo tutta la vita del nostro fratello Jérôme, questo richiamo ha rappresentato una linea continua… Ci troviamo davanti alla morte un grande cristiano del XX secolo, di un uomo per il quale la difesa della vita è divenuta un apostolato, e desideriamo ringraziare Dio oggi, Lui, L’autore della vita, di tutto ciò che è stato per noi il Prof. Lejeune, di tutto ciò che ha fatto per difendere e promuovere la dignità della vita umana.”

Nel contesto della sua professione di medico e ricercatore, che è stata una vera e propria vocazione, la vita del Professor Lejeune si è divisa tra due ambiti che conviene distinguere per meglio unirli: da una parte la sua attività di ricercatore, e quindi la sua appartenenza a quello che viene chiamata “la comunità scientifica”, che, tuttavia, se non l’ha rifiutato, l’ha messo ai margini a causa delle sue posizioni ritenute troppo rigide, da estremista, sull’argomento cruciale del rispetto per la vita. Dall’altra parte il suo servizio presso i malati e le loro famiglie, a capo di un’equipe che si può definire fraterna, che è stata animata solo dal desiderio di guarire, o almeno di dare sollievo alle sofferenze fisiche e morali provocate dalla malattia e dall’handicap. La carità che animava il Professor Lejeune univa quindi i due aspetti della sua vocazione al servizio del malato e questa virtù teologale della carità fu veramente la via maestra che Jérôme Lejeune percorse con coraggio e determinazione per aprirsi un varco tra le spine di questo mondo verso la contemplazione del Dio vivente, la Santa Trinità d’Amore. Sì, col suo servizio quotidiano, umile e fiducioso nella Provvidenza, il Professor Lejeune ha dato un volto alla carità di Cristo venuto in mezzo a noi, ed è vero che nessuno ha scordato il suo sorriso luminoso e raggiante, e il suo sguardo celeste, impronta di quell’amore del prossimo che emana da un’anima della quale Gesù, ricevuto nella santa Comunione eucaristica, ha fatto la sua dimora : «Se uno mi ama,» ha detto Gesù « osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ». (Gv 14,23)

Poiché mi è dato di parlare della vita spirituale del Professor Lejeune, oso affermare, in riferimento all’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla vocazione universale alla santità (cfr. Lumen Gentium, n. 5), e in particolare al carattere peculiare della santità del fedele laico (cfr. Decreto Apostolicam Actuositatem, n. 4), che tutta l’esistenza di questo grande amico dei bambini malati rispecchia mirabilmente la presenza del Signore Gesù nel nostro mondo; essa è dunque come un prolungamento dell’Incarnazione e della vita del Figlio di Dio quaggiù. Mi spiego: cosa c’è di più tangibile delle cure dispensate ai malati da un medico, un chirurgo, un infermiere, un paramedico, una suora infermiera o badante, o un Fratello di San Giovanni di Dio – questo è ciò che ha fatto il Professor Lejeune per lunghi anni – cosa di più concreto della presenza quotidiana vicino alle famiglie di questi malati e il lavoro arduo di ricercatore che combatte strenuamente la malattia, come un cavaliere intrepido coi fianchi cinti dalla verità, che brandisce la spada fiammeggiante della Parola di Dio e dell’insegnamento della Santa Chiesa, con un rispetto infinito per le leggi della vita inscritte dal Creatore nelle fibre di ogni essere umano… ? Rendendo presente il Cristo che guarisce i corpi e i cuori, che rende la vista ai ciechi, che sana gli storpi, così che possano poi saltare di gioia, Gesù, che purifica i lebbrosi, apre le orecchie ai sordi e scioglie la lingua dei muti (cfr. Mt 11, 5), lui che è vero Dio e vero uomo, lui che è anche il Buon Samaritano che unge con l’olio dell’Amore di Dio le piaghe dell’uomo ferito (cfr. Lc 10, 34), possiamo dunque considerare che la vita del Professore Lejeune sia stata in qualche modo, nei tempi della Chiesa nei quali viviamo, a partire dall’Ascensione e dalla Pentecoste, un prolungamento dell’incarnazione del Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, venuto in mezzo a noi per guarirci e salvarci.

Questo è ciò che espresse l’amico di Jérôme Lejeune, Papa S. Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, Redemptor hominis, riprendendo le parole del Concilio Vaticano II. Egli affermò che, tramite la sua Incarnazione, Cristo “si è unito in certo modo ad ogni uomo”.

Parlando del Professor Lejeune, si può dunque veramente parlare di una spiritualità dell’Incarnazione, che costituisce, insieme alla difesa della verità sulla vita umana e la compassione, uno dei tratti essenziali di questa santità che mi auguro venga riconosciuta dalla Chiesa, affinché possiamo beneficiare della sua intercessione e essere sostenuti nella nostra lotta contro il degrado attuale della nostra società tramite il suo esempio e la sua lotta per la vita.

Spingiamoci oltre e vediamo ora come quest’uomo d’azione, allo stesso tempo scienziato e poeta, così intelligente e di una grande sensibilità e finezza, è riuscito a non soccombere all’auto compiacimento, o all’orgoglio. Infatti, poiché, come lui, noi siamo interamente dentro l’azione, rischiamo di soccombere alla seguente tentazione, che è ben nota agli ardenti missionari del Vangelo: che la nostra persona, il nostro “io”, stabilisca la sua supremazia fino all’assoluto, lasciando furtivamente Dio ai margini. Penso che il Professor Lejeune sia stato preservato da questo scoglio, dopo aver combattuto senza dubbio un combattimento spirituale a volte molto aspro, ma la parola mariana dell’Annunciazione risuonava costantemente nel suo cuore di credente, di umile servitore del Vangelo e della Chiesa: “Fiat”!, sì, “fiat”, era la parola, o meglio, la risposta così pura, perfetta e senza riserve della Vergine Maria, che egli stesso rivolgeva a Dio ogni giorno della sua vita, in particolare quando aveva la grazia di ricevere il suo Signore nella Santa Comunione. Da allora, come la Santissima Vergine Maria e come tanti santi e sante, dei quali conosciamo la risposta improntata all’abbandono filiale – come ad esempio Santa Teresa di Lisieux, santa Giovanna d’Arco o il Beato Charles de Focalut – Jérôme Lejeune ha acconsentito a lasciare agire Dio. Infatti, per un battezzato, la decisione di rimettere a Cristo la condotta della propria vita è un atto fondamentale, che permette di eludere le trappole del desiderio di apparire, dello scoraggiamento e della tristezza.

Tuttavia, per questo, occorre rafforzarsi in ciò che chiamerò la «discrezione», vale a dire nel silenzio che è appannaggio dei grandi contemplativi e dei veri adoratori di Dio. E questo silenzio non è solamente una porta preferenziale attraverso la quale la Santissima Trinità penetra nella nostra anima e viene a prendere la sua dimora in noi (cfr. Gv 14, 23) per trasfigurare i nostri compiti quotidiani in atti di carità. Il silenzio è anche una «forza», e da qui il titolo di questa opera che molti di voi avranno certamente già letto, o che hanno in mano stasera. Quando M. Jean-Marie Le Méné, presidente della Fondation Jérôme Lejeune, e genero del Professore dichiara: «Alla fine della sua vita aveva perduto tutto, aveva difficoltà a lavorare, non veniva più invitato ai congressi e, designato per il premo Nobel, non lo ricevette mai», che cosa ci evoca se non il silenzio che si era abbattuto come una cappa di piombo sul Professor Lejeune, frutto amaro dell’accecamento e della malvagità degli uomini…? Sì, l’hanno ridotto al silenzio ma, lungi dallo schiacciarlo, questo silenzio è divenuta un’autentica vicinanza a Dio, una forza, la forza della testimonianza, del martirio, la forza della santità.

Perché il silenzio del Professor Lejeune è stato lo stesso di Gesù durante la propria Passione davanti ai suoi accusatori.

Vediamo dai Vangeli quale fu l’atteggiamento del Signore Gesù: innanzi tutto, ci dice San Matteo, Gesù è comparso davanti ai grandi sacerdoti e tutto il Sinedrio, che cercavano una falsa testimonianza per metterlo a morte. Ora, dice l’evangelista: “ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: «Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni». Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». « Jesus autem tacebat », prosegue il Vangelo : « Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l’hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: «Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E quelli risposero: «E’ reo di morte!».” (Mt 26, 59-66). Poi, secondo l’evangelista San Luca, Gesù comparve davanti ad Erode che lo interrogò a lungo ma egli non gli rispose una parola. Infine, Erode lo trattò con disprezzo, lo rivestì di una splendida veste e lo rinviò a Pilato. (cfr. Lc 23, 8-11). San Giovanni ci informa che quando il procuratore l’interrogò circa la sua identità Gesù dichiarò «Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità.» (Gv 18, 37). Poi, tacque.

Come ho scritto ne La forza del silenzio, nel mondo oggi sappiamo che “l’uomo che parla è celebrato e l’uomo silenzioso è un povero mendicante che non viene nemmeno degnato di uno sguardo” (n. 30, p. 54 dell’edizione francese). Come Gesù, che è divenuto mendicante dell’Amore di questa umanità peccatrice, sorda e cieca – e il signore ha dovuto gridare “Ho sete” qualche ora più tardi sulla Croce gloriosa – così il Professor Lejeune, tramite il suo silenzio, elemosinava la compassione dei suoi contemporanei per i più deboli, i suoi bambini ammalati, dei quali si era fatto voce, proprio lui che era stato ridotto al silenzio. Si ricordava specialmente di quel bambino trisomico di dieci anni che, durante un consulto, si era gettato tra le sue braccia esclamando: “Ci vogliono uccidere; devi proteggerci perché noi siamo troppo deboli, non sapremo mai difenderci!”. E il cuore del Professore, ridotto egli stesso al silenzio, sanguinava… Ne La forza del silenzio mi permetto di affermare che “nel momento più cruciale della sua vita, quando le urla piovevano da ogni dove, lo coprivano con ogni sorta di menzogna e calunnia, quando il sommo sacerdote gli domandò: “Non rispondi niente?” Gesù preferì il silenzio. (n.141, p.120) Allo stesso modo, “Gesù, tacendo, vuole mostrare il suo disprezzo per le menzogne, lui la verità, la luce e l’unica via che porta alla Vita. La sua causa non ha bisogno di essere difesa. Non si difendono la verità e la luce: il loro splendore è la loro stessa difesa.” (n. 197, p. 155). Da parte sua, Pilato, “non comprendeva la causa di un silenzio così fuori dal comune. Stava davanti al silenzio di Dio, in mezzo alle urla degli uomini, ebbri di odio irragionevole” (n. 197, p. 156). Sì, che poteva ancora rispondere il Professor Lejeune a queste invettive che si sono ancora recentemente udite nella bocca di un ministro: «Una donna che abortisce non interrompe una vita», e ancora : «L’aborto è un diritto della donna»?

A questo punto della nostra riflessione, permettetemi questa analogia: quando i nostri fratelli cristiani orientali, che subiscono in questo momento la persecuzione, vengono arrestati e imprigionati dai loro aguzzini, possono presentare loro, inscritta nella loro carne la confessione della loro fede di battezzati nel caso in cui, dicono, sotto tortura, soccombessimo alla tentazione di rinnegare Cristo. Infatti, allorché tanti dei nostri contemporanei, qui, nell’Occidente decadente, si dedicano, sotto l’effetto di una moda passeggera e costosa all’esotica pratica del tatuaggio, questi cristiani sono sempre pronti ad esibire davanti ai Caifa e Pilato dei nostri tempi, la Croce che è tatuata in modo indelebile sul loro polso, testimonianza silenziosa della loro unione a Gesù fino alla morte.

Almeno”, dicono, “questo segno vincerà la mia eventuale debolezza davanti alla paura di morire”.

È stato lo stesso per il Professor Lejeune: la sua croce tatuata sul polso è stata la sua affermazione serena che: “la dignità di una civiltà si misura dal rispetto che essa porta ai più deboli dei suoi membri” ed egli ha siglato questa affermazione prodigiosa e vera con il suo comportamento quotidiano: infatti pazientemente, umilmente, con amore e con un rispetto infinito, riceveva tutti i pazienti che si presentavano alle visite in ospedale, specialmente i più poveri, perché sapeva che il suo dovere, la sua missione, era di cercare di guarire il malato e amarlo, una forma di carità che per lui era divenuta eroica. Martire della vita e della verità, egli lo è dunque stato pienamente, compreso nel suo silenzio che, lungi dall’essere confessione di una debolezza, ha costituito una forza capace di smuovere le montagne dell’egoismo e dell’indifferenza.

La sua vita mostra bene che, come ho scritto ne La forza del silenzio, “Oggigiorno, il silenzio dei martiri cristiani che vengono massacrati dai nemici di Cristo imita e prolunga quello del Figlio di Dio. I martiri dei primi secoli, come quelli della nostra triste epoca, hanno tutti mostrato la stessa dignità silenziosa. Il silenzio diviene allora l’unica parola, la sola testimonianza, l’ultimo testamento. Il sangue dei martiri è un seme, un grido e una preghiera silenziosa che sale verso Dio” (n. 198, pp. 156-157 dell’edizione francese).

Cari amici, oggi nessuno si può mostrare insensibile ed indifferente davanti all’obbligo imperioso di difendere i nascituri. Al di là dell’aspetto morale che ci impedisce di attentare a qualsiasi vita umana, soprattutto quando è innocente e indifesa, la protezione dell’embrione è la condizione sine qua non per far uscire l’intera civiltà dalla barbarie e assicurare il futuro della nostra umanità.

Il segno clinico più impressionante che indica che andiamo verso l’abisso e una rovina senza fondo è la potenza drammatica del rifiuto della vita. L’uomo della società dei consumi diviene sempre più insensibile al rispetto sacro della vita umana, non comprende più che l’essere umano è un assoluto che non abbiamo il diritto di manipolare a nostro piacimento.

Se il Professor Lejeune fosse ancora qui non farebbe che seguire quella linea intoccabile della difesa della dignità dell’essere umano, che fu sua in maniera costante.

Si opporrebbe, quindi, al falso e scandaloso “matrimonio” omosessuale, a quelle aberrazioni che sono la procreazione medicalmente assistita e la maternità surrogata, e combatterebbe con energia senza pari la teoria veramente delirante e mortifera detta di genere, o “gender”.

Del resto, il Professor Lejeune aveva visto e compreso nel 1975  le conseguenze della legalizzazione dell’aborto, che è divenuto col tempo uno pseudo “diritto della donna” e così tremava già per la sorte dei “suoi” bambini trisomici, che di fatto oggi sono in via di sterminio perché, come sapete, i pubblici poteri stessi riconoscono, come una vittoria funesta, che il 96% di loro viene messo a morte con l’aborto. Questo è veramente orribile, criminale e sacrilego!

Jérôme Lejeune aveva altresì compreso, lui, il grande genetista, a quali derive prometeiche ci avrebbero condotto le manipolazioni genetiche di tutti i tipi, a cominciare dalla ricerca sugli embrioni, che sono minacciati “a priori” di essere distrutti, poiché la nuova legge, votata recentemente il 6 maggio 2013 nell’indifferenza quasi generale, autorizza espressamente la ricerca sull’embrione e non mette praticamente più limite alla distruzione degli embrioni detti sovrannumerari, quando la legge precedente del 6 agosto 2004 prevedeva ancora un regime di divieto, con deroghe accordate dall’Agenzia di biomedicina…e non parliamo del transumanesimo che è terrificante in senso stretto: fin dove ci spingeremo in questa corsa verso l’inferno? Infatti, con il transumanesimo, significa che “l’umanità aumentata” sarà il trionfo dell’eugenetica e della selezione del miglior capitale genetico tra tutti gli altri al fine di creare il superuomo ideale.

Il transumanesimo va a realizzare, grazie alle tecnoscienze il sogno prometeico del nazismo. Come nel nazismo, ci sarà una razza ariana? E se sì, selezionata in base a quali criteri? E in questo caso, che cosa ne faremo dei “sub-umani”, secondo la terminologia nazista, il cui lavoro sarà ormai rimpiazzato dai robot? Queste domande sono terrificanti e ci gelano il sangue.

Il rifiuto di accogliere e di lasciar vivere coloro che sono di peso, vale a dire non solo il bambino concepito e “non desiderato”, come incalzano i partigiani dell’aborto, ma anche la persona handicappata, il malato terminale, la persona anziana non più autosufficiente, questo rifiuto manifesta una profonda misconoscenza del valore di tutte le vite umane create e quindi volute da Dio. Nell’enciclica Evangelium Vitae, Papa S. Giovanni Paolo II dichiara che «siamo di fronte a una realtà … che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera “cultura di morte”. […] Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di «congiura contro la vita».

E Papa Francesco, con il suo modo di parlare diretto che ben conosciamo qualifica senza giri di parole questa “cultura dello scarto”. “Purtroppo, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani, che vengono “scartati” come fossero “cose non necessarie”. E aggiunge: “desta orrore il solo pensiero che vi siano bambini che non potranno mai vedere la luce, vittime dell’aborto”.

Il Santo Padre precisa, nella sua Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium (La gioia del Vangelo) del 24 novembre 2013 che “Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo.

Così Papa Francesco ci chiama ad una mobilitazione generale per la Vita: quando evoca la Chiesa che, come dice lui, è un lazzaretto o “un ospedale da campo” dopo la battaglia, egli pensa in primo luogo a questa battaglia per la sopravvivenza dell’umanità terribilmente ferita nella sua carne e nella sua anima, al cui capezzale sta la Madre Chiesa. Il Professor Lejeune, in quanto medico, soprattutto ha accolto nel suo “ospedale da campo” che è l’ospedale pediatrico Necker, questi feriti della vita che, come quel bambino di dieci anni che ho poc’anzi citato, venivano con i loro genitori a cercare il conforto e il coraggio di andare avanti e sperare ancora; l’ospedale Necker, questo moderno “lazzaretto” è veramente un’opera ammirevole di carità e compassione che continua ai nostri giorni. Il Professor Lejeune ha saputo versare l’olio della misericordia e il vino della verità che libera (Cfr. Lc 10, 34) sulle ferite di questa parte dell’umanità senza difese e ignorata dai potenti di questo mondo, in questo ospedale, in questo “Ostello di Dio”, che è anche l’“albergo” della parabola del Buon Samaritano ; e noi sappiamo che l’albergo è colà l’allegoria della Chiesa, nostra Madre.

Approfitto di questa opportunità per salutare e ringraziare tutte le associazioni che operano pazientemente, superando ogni ostacolo affinché la vita sia promossa e protetta, così come la famiglia che ne è il santuario. La vita è un dono di Dio, un dono che Dio ha affidato alla famiglia. È dunque nella famiglia che la vita trova la sua sorgente, che trova il contesto adatto alla sua dignità e al suo destino. Da qui il carattere sacro della vita e il rispetto che essa merita, due imperativi che tutta la legislazione degna di tale nome deve riconoscere e promuovere, anche qui, in Francia, la figlia maggiore della Chiesa. Infatti, nella vita di ogni essere umano, anche il più debole e ferito, l’immagine di Dio risplende e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta e l’incarnazione di Gesù, figlio di Dio Salvatore. Dal canto suo, ogni uomo è chiamato ad una pienezza di vita che va ben oltre la dimensione della sua esistenza terrena, perché essa è la partecipazione alla vita stessa di Dio. Tale era la convinzione del Professor Lejeune, e tale resta oggi la convinzione incrollabile della Fondazione che porta il suo nome.

Vorrei concludere sottoponendo alla vostra meditazione questa riflessione illuminata del Professor Lejeune, questo modello di medico, genetista e professionista, che non ha avuto paura di dire la verità a tempo opportuno e inopportuno:

«Non esiste affatto un Uomo con la U maiuscola. Ci sono degli uomini, delle persone, e ciascuna di esse è rispettabile. Se tutti sono ben disposti a versare una lacrima sulla condizione dell’Uomo, se le grandi coscienze s’inorgogliscono di grandi slanci parlando dei diritti dell’Uomo, ben pochi si preoccupano di ciascun uomo, eccetto la legge elementare della carità, una parola forte denigrata di questi tempi, e pertanto insostituibile, che si estende a tutti e ciascuno, e soprattuto al primo venuto, colui che è proprio al nostro fianco, il “prossimo”, come dicono i nostri catechismi ».

Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Cardinal Robert Sarah

Profilo del Servo di Dio Jérôme Lejeune

(Montrouge, 13 giugno 1926 – Parigi, 3 aprile 1994)

Da ragazzo si è lasciato talmente “prendere” dal “Medico di campagna” di  Honoré de Balzac, da voler diventare pure lui medico condotto, a qualunque costo. Per questo si iscrive a Medicina, anche se nel 1951, il giorno stesso della laurea, le difficoltà economiche lo costringono ad accettare la proposta di un suo insegnante, il prof. Turpin, a collaborare ad una ricerca in grande stile che questi sta conducendo sul «mongolismo». Da quel preciso istante il suo futuro è segnato: la Francia avrà un medico condotto in meno, ma il mondo un grande genetista in più. 

Nato nel 1926, Jérôme Lejeune, inizia la sua ricerca scientifica partendo dalle conclusioni cui era arrivato circa 90 anni prima il professor Down: una teoria che lui reputa scientificamente improvvisata e fondamentalmente razzista. Fino a quel periodo, infatti, il «mongolismo» è ancora considerato una tara razziale, oppure da addebitare a genitori alcolisti o sifilitici. A Lejeune bastano appena otto anni per arrivare ad affermare che la causa di una malattia genetica non è determinata dal cambiamento della qualità del messaggio ereditario, bensì ad una mutazione di ordine quantitativo, cioè da un eccesso o  da un difetto di alcune proporzioni del codice genetico. In particolare, nel caso del «mongolismo», scopre l’esistenza di un quarantasettesimo cromosoma, morfologicamente identico agli elementi del ventunesimo paio: ecco perché chiamerà la sindrome di Down “trisomia 21”. Nulla di disdicevole, dunque, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità come si credeva.

Per la prima volta nella storia della genetica medica è stabilito un legame tra un ritardo mentale e un’anomalia cromosomica, descritto in questi termini:

« Le malattie dell’intelligenza sono legate all’intasamento delle sinapsi che diminuisce la velocità, il rendimento, e fa sì che alcuni circuiti non terminino il lavoro prima che altri si mettano in moto trasmettendo così un’informazione incompleta; questa viene trasmessa ad un altro circuito dove viene elaborata in modo ancora più incompleto e così, di incompletezza in incompletezza, si arriva alla scomparsa totale del messaggio nervoso. In fondo i disabili mentali sono un po’ come dei drogati. Soffrono di un’intossicazione, leggera ma continua, dovuta ad una sostanza accumulata per il blocco o l’eccesso di attività degli enzimi, a seconda dell’associazione con una malattia di difetto o di eccesso di cromosomi. »

Divenuto capo dell’unità di citogenetica all’ “Hôpital Necker Enfants-Malades” di Parigi, prosegue le sue ricerche. La rilevazione della trisomia, permette a Lejeune di descrivere dal punto di vista scientifico la Sindrome del grido di gatto, anche chiamata “Sindrome di Lejeune” e di rilevare la monosemia, nel 1963.

L’anno successivo, diventa professore di genetica alla facoltà di medicina di Parigi, cattedra creata appositamente per lui.

Nel 1978, papa Giovanni Paolo II, gli chiede di far parte della Pontificia accademia delle scienze e del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari .

Nel 1981 è eletto all’Accademia di Scienze morali e politiche e due anni più tardi, nel 1983, all’Accademia nazionale di medicina .

Diventa infine, nel 1994, il primo presidente della Pontificia accademia per la vita, creata da Papa Giovanni Paolo II lo stesso anno.

Mentre sta tentando di individuare anche la terapia per una possibile prevenzione della sindrome, si accorge che i risultati dei suoi studi sono utilizzati dagli abortisti, con la proposta di legge “Peyret”, per promuovere la soppressione in utero dei feti diagnosticati come “malformati”. Convinto antiabortista, comincia a sostenere senza mezzi termini che “da sempre la medicina si batte per la salute e per la vita, contro la malattia e contro la morte, e non può cambiare schieramento!” Lo fa in ogni occasione, anche in una conferenza pubblica dell’ONU, addirittura definendo quest’ultima “una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”. “Oggi mi sono giocato il Nobel”, scrive alla moglie: da quel giorno, infatti, la scienza ufficiale non lo chiama più; i finanziamenti per le sue ricerche vengono ritirati; in qualche modo è costretto a mendicare per continuare i suoi studi; talvolta, anche con minacce, gli viene impedito di prendere la parola; sul muro della facoltà di medicina compaiono scritte come ‘Lejeune trema… Lejeune assassino. A morte Lejeune’ e anche ‘A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli’…. E’ convinto che “la genetica moderna si riassume in questo credo elementare: all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio è la vita”: dunque, non una battaglia su basi teologiche, ma scientifiche, fino ad affermare che “se, Dio non voglia, la Chiesa arrivasse ad ammettere l’aborto, allora io non sarei più cattolico”.

«La compassione per i genitori è un sentimento che ogni medico dovrebbe avere. L’uomo che riesce ad annunciare a dei genitori che il loro bambino è gravemente malato senza sentire il cuore schiantarsi al pensiero del dolore che li assalirà, non è degno del suo mestiere. Non è commettendo un crimine che si protegge qualcuno da una disgrazia. E uccidere un bambino è semplicemente omicidio. Non si dà sollievo al dolore di un essere umano uccidendone un altro. Quando la medicina perde tale consapevolezza, non è più medicina.»

Marito premuroso, padre di cinque figli, cristiano dalla fede adamantina, continua ad opporsi ad una cultura di morte, chiamando l’aborto dei bambini down una “selezione della specie”, la Ru486 “il primo pesticida umano”, “la contraccezione, che è fare l’amore senza fare il figlio, la fecondazione extracorporea, che è fare il figlio senza fare l’amore, la pornografia, che è distruggere l’amore, l’aborto, che è distruggere il figlio, tutte cose contrarie alla dignità dell’amore umano”.

Il 5 giugno 1973, alla Domus Medica di Parigi, Jérôme, affiancato da filosofi e giuristi, rende pubblica la “Dichiarazione dei Medici di Parigi”, che riceve l’adesione di diciottomila medici. Con Emmanuel Sapin e Lucien Israel, stila una dichiarazione intitolata “Manifesto dei difensori della vita”, pubblicata successivamente sul quotidiano “Le Monde”, che come evince dal titolo, vuole rappresentare una chiara opposizione alla fecondazione in vitro e alla legalizzazione dell’aborto.

Nel 1990 pubblica il libro “L’enfant concentrationnaire”, simbolo della lotta contro ciò che lui definisce i tre mali del tempo: la divisione delle menti, la confusione della parola, la perversione dell’azione.

Nell’ottobre 1993 gli diagnosticano un cancro polmonare in stadio ormai avanzato. “Non dovete preoccuparvi fino a Pasqua: vivrò almeno fino ad allora”, dice alla moglie ed ai figli, aggiungendo: “E a Pasqua, non può avvenire nulla che non sia meraviglioso!”.

Muore il 3 aprile 1994, mattino di Pasqua, come aveva preannunciato.

Nel 1997 il papa va a pregare sulla sua tomba e nel 2007 si apre il processo per la sua beatificazione, terminato ad aprile 2012 nella fase diocesana. Jérôme Lejeune sembra ripetere anche oggi: “Voi che siete a favore della famiglia sarete presi in giro, si dirà che siete fuori moda, si dirà che impedite il progresso scientifico, si dirà che cercate di mettere il bavaglio alla scienza attraverso una morale superata. Ebbene, vorrei dire proprio a voi di non aver paura: voi trasmettete le parole della vita”.

La missione in Unione Sovietica

Nel 1964, il medico ricercatore, notando l’esistenza di anomalie cromosomiche indotte da minime quantità di radiazioni, conferma sperimentalmente la pericolosità dell’uso delle armi nucleari. Tali scoperte gli valgono la nomina alla Commissione Internazionale di Radioprotezione e al Comitato Scientifico delle Nazioni Unite.

L’8 ottobre 1981, in Vaticano, Lejeune partecipa ai lavori degli scienziati specialisti della Pontificia Accademia delle Scienze, riunitisi per esaminare il problema delle conseguenze dell’uso delle armi nucleari per la sopravvivenza e la salute dell’umanità. A tal proposito, in quello stesso anno, Jérôme e gli altri rappresentanti della Pontificia Accademia delle Scienze incontrano Leonid Il’ič Brežnev. Durante il colloquio lo scienziato spiega:

« Le radiazioni, agirebbero su numerosi feti, comportando lesioni cerebrali e deficienze mentali irriversibili. Aumenterebbe l’incidenza di numerosi tipi di cancro e molti deterioramenti genetici potrebbero essere trasmessi alle generazioni future, ammesso che ve ne siano. Non parlarne è rischiare di tradire noi stessi, rischiare di tradire la nostra civilizzazione. »

I riconoscimenti

Lejeune viene nominato dottore honoris causa e membro di numerose accademie e università straniere. Riceve onorificenze per i suoi studi sulle patologie cromosomiche, fra le quali: il premio Kennedy nel 1962, il premio William Allan nel 1969 ed il premio Griffuel nel 1993.

L’approccio alle teorie evoluzionistiche

Lejeune riflette anche sulle teorie evoluzionistiche: egli sostiene che nonostante le leggi della genetica spieghino il rapido differenziarsi delle razze, esse non possano dare una risposta plausibile alla nascita delle nuove specie. Secondo lo scienziato non bisogna confondere l’adattamento locale con la modificazione evolutiva.[14] Come riassumibile dalle sue parole bisogna tener conto che la variazione della razza inciampa sull’invarcabile confine della specie:

« Ogni specie vera, che presenta una barriera genetica, possiede un cariotipo originale. Una specie, un cariotipo; e poiché i cromosomi contengono migliaia di geni, si evidenzia chiaramente che ciò che separa la specie è qualcosa di ordine di grandezza assai diverso da una mutazione genetica. »

Posizioni sulla Sindone

A Torino, il 13 ottobre 1988, si diffonde la notizia di studi scientifici che datano la Sindone a molti secoli dopo la morte di Gesù. Non appena la notizia giunge a Parigi, Lejeune si sente costretto ad intervenire:

« Propongo di riflettere su un nuovo protocollo. Certo gli scienziati hanno pubblicato i loro risultati in una rivista molto diffusa, ma questo fatto non rende automaticamente accettabili i procedimenti impiegati. Inoltre nella scienza esistono possibilità di errore e non è il livello della pubblicazione che li nasconde. »

Scegliendo di ripercorrere a ritroso tutta la storia, decide di recarsi in Belgio, a Lier, per esaminare in dettaglio la Sindone attribuita a Dürer, che riproduce ad un terzo la Sindone di Torino. Lejeune constata che la riproduzione, contrariamente a quanto vuole la tradizione, non è stata eseguita da Dürer. Per Lejeune si tratta della copia di una raffigurazione della Sindone di Torino, e non della Sindone stessa poiché, sostiene, la Sindone di Lier presenta degli elementi aggiuntivi rispetto a quella di Torino, ed inoltre, essendo essa datata nel 1516, non può presentare le bruciature causate dall’incendio del 1532.

A Roma, il 10 giugno 1993, viene pubblicato sul settimanale “Le point” quanto scoperto. Cinque anni dopo, la notizia viene ripresa anche nel “Corriere della Sera”.

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