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Il perdono dei peccati

Gesù e il paralitico

Omelia

Pubblichiamo l’audio di un’omelia nella quale, a partire dal commento al Vangelo di venerdì 15 gennaio 2016, vengono trattati alcuni aspetti circa il sacramento della Penitenza.

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

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Approfondimenti

Sul sacramento della Penitenza

“La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all’integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell’intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l’esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c’è», ma «io ho peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l’atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un’ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.
Ma l’atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l’amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l’anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l’uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae», 6c).
Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.
Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l’accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell’infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell’incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L’accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E’ il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l’accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall’ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.
L’altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l’assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell’antico e nel nuovo «Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo…», l’imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. E’ il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l’innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia più forte della colpa e dell’offesa», come ebbi a definirla nell’enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale offeso dal peccato – «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può perdonare. Perciò, l’assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell’intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.
La soddisfazione è l’atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l’assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione – che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano – vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell’impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un’esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l’idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l’assoluzione rimane nel cristiano una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell’umile, ma sincera soddisfazione.”

(S. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post-Sinodale “Reconciliatio et Paenitentia”, n. 31 parte III)

Omelie di S. Giovanni Maria Vianney sul giudizio particolare e universale

Testo della meditazione

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Il perdono dei peccati

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia lodato!

In questo capitolo II del Vangelo di San Marco ci troviamo di fronte ad un passo evangelico molto importante perché Gesù qui compie un miracolo spettacolare, un miracolo che è una provocazione: il tetto scoperchiato, il malato calato con le corde nel centro della sala e la guarigione pubblica istantanea di questo paralitico.

Gesù ci tiene ad evidenziare il Suo potere.

Cristo manifesta un potere infinito, divino appunto, che è quello di perdonare i peccati e sta aprendo gli occhi ai Suoi Dodici, perché, a breve, consegnerà anche a loro questo potere di sciogliere i peccati, di rimettere i peccati.

Gesù, quattro volte, nel Vangelo testimonia questo potere: questa è una; poi abbiamo Luca 7,48, dove c’è la testimonianza in casa di Simone il fariseo, nella quale il Signore perdona la peccatrice; poi abbiamo Giovanni 8,11, dove c’è la testimonianza dell’adultera, anche lì il Signore perdona i peccati; poi abbiamo Luca 23,43, che è il testo nel quale Gesù perdona il buon ladrone e lo fa salire in Paradiso subito.

Poi abbiamo il grande capitolo di Giovanni 20, 19-23, testo che Giovanni Paolo II definisce “Una delle più formidabili novità evangeliche”, perché è il testo nel quale Gesù istituisce il Sacramento della Penitenza, della Confessione.

È un testo molto bello, che meriterebbe un’attenzione tutta particolare, nel quale vediamo che il Signore fa il dono del Sacramento della Confessione, in un momento in cui la Chiesa ha tanta paura, perché i Dodici erano a porte chiuse, erano lì spaventati.

Gesù arriva, dà la pace e dona questo Sacramento, per dire che il Sacramento della Penitenza è un Sacramento che libera dalla paura, dal ripiegamento su sé stessi, è un Sacramento di pace, porta la pace nell’anima.

È un Sacramento che nasce dalla Passione e dalla morte di Cristo, Gesù ha pagato questo dono del perdono con il Suo martirio, con la Sua morte in croce, vi ricordate infatti che Gesù mostra loro le mani e il costato. Poi, alita su di loro, che è il momento nel quale il Signore fa una nuova creazione, nel senso che dà un compito, una investitura nuova ai Suoi Dodici e questo gesto dell’alitare è il gesto proprio di Dio che crea.

Se tutto questo è vero e se questo potere di rimettere i peccati è così importante e fondamentale, tanto che abbiamo queste tinte così forti in questo Vangelo di oggi, innanzitutto, dobbiamo dirci che al Sacramento della Confessione ci si prepara, bisogna prepararsi bene, con un esame di coscienza vero e profondo.

Io consiglio sempre un testo, che è l’omelia del Santo Curato d’Ars sul Giudizio particolare e sul Giudizio universale.  Lui ha scritto diverse omelie, due di queste sono fondamentali: il Giudizio particolare e il Giudizio universale.

Uno legge, e ci vorrà magari una settimana per preparare questa confessione, o anche di più, perché sono parole forti, non perché sono eccessive, non perché sono severe, ma perché sono le parole che fanno emergere il marciume che ci portiamo dentro.

Allora, attraverso la meditazione delle parole del Santo Curato d’Ars, vediamo nel nostro cuore tutto ciò che è in dissonanza con la croce di Cristo.

Poi, ad esempio, anche i testi delle Beatitudini, il testo della Passione di Gesù.

La confessione va preparata con un esame di coscienza serio, che Giovanni Paolo II dice che è non è una ansiosa introspezione psicologica, ma un confronto sincero e sereno con la legge morale e con la Legge di Cristo presente nel Vangelo.

Ci vuole una accusa dei peccati vera, non generica, non qualunquista, non banale, ma vera!

Bisogna accusarsi in modo concreto, preciso dei propri peccati, fondamentale è l’accusa dei peccati mortali, questi vanno detti bene, bisogna dire la loro differenza specifica.

Se ho rubato… che cosa ho rubato? Una mela, una pera, cento milioni, la pensione ad una persona anziana…?

Quante volte ho rubato? Una volta nella vita o cento volte in un giorno?

Capite che è fondamentale, altrimenti il sacerdote, che in quel momento è giudice e medico, non può darci la terapia giusta, la penitenza giusta per uscire dal peccato.

Dobbiamo stare molto attenti a dei rischi fondamentali, il primo di questi è l’infantilismo sacramentale.

Nell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et Paenitentia, San Giovanni Paolo II parla contro la confessione-magia e mette in guardia sui focolai di infezione (questa riflessione è presente al numero 31 della parte III). Cito: “ Dopo l’assoluzione resta nel Cristiano una zona di ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dellamore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere”.

Il Papa, di fatto, si schiera contro il pentitismo ingenuo e facilone, contro l’angelismo sacramentale (questa è una delle pagine più belle sul Sacramento della Confessione).

L’infantilismo sacramentale è molto diffuso. È il ritenere la confessione come il toccasana per tutte le guarigioni. Non basta”, dice il Papa, “confessarsi per essere tranquilli sulle proprie debolezze, per liquidare il male in noi”.

Non basta andarsi a confessare per dire: «Ah, ecco, io sono guarito».

Anzi, il Papa va più avanti nel realismo e dice che non basta neppure confessarsi bene.

Cito: “Le nostre colpe lasciano in noi un deposito di pesantezza su cui bisogna essere sempre ben vigilanti”.

Il Papa analizza questo residuato di miseria, che, anche il peccato rimesso, una volta perdonato, lascia nella persona.

Cito: “Dopo il perdono bisogna tenere d’occhio tre realtà devastanti molto gravi”.

Vediamo quello che riusciamo a vedere:

1 “La debolezza del peccato lascia in noi il suo strascico, le sue suppurazioni, le sue ferite non si cicatrizzano subito, ci vuole tempo e pazienza, occorre arginare le ferite, prendere abitudini buone, ci vuole una buona volontà. Le abitudini al bene non nascono come funghi da una sola assoluzione, ma esigono una forza di volontà, costanza, tenacia, pazienza, perché è facile distruggere, ma è difficile ricostruire, e ancora di più immunizzarsi dalla propria debolezza”.

È fondamentale stare attenti ed avere pazienza e volontà, perché rimaniamo deboli.

2 “L’imperfezione del nostro pentimento. Certo, un pentimento radicale, come è stato quello di San Paolo, brucia in lui tutte le debolezze in un colpo, ma i nostri pentimenti non sono così radicali. Ci si può pentire per molte ragioni, non ultimo per interesse e per convenienza o per paura dell’Inferno. Se il mio pentimento è debole, anche gli effetti saranno deboli sulla mia purificazione dal male, mentre se il mio pentimento è forte, gli effetti saranno forti su questa purificazione”.

3 “L’indebolimento delle facoltà spirituali, che sono Fede, Speranza e Carità, le tre Virtù teologali. Ogni peccato è una ferita inferta a tutte e tre le Virtù teologali, che sono le strutture portanti della nostra vita spirituale. Ogni peccato indebolisce queste strutture portanti e la difesa dell’organismo è minacciata, gli anticorpi sono indeboliti, basta molto poco per ricadere in quei peccati che abbiamo appena confessati, come quando esci da una operazione e bisogna stare molto attenti”.

Cosa serve per difenderci dal focolaio infettivo?

Il Papa risponde: “Il rafforzamento della volontà attraverso la mortificazione e la penitenza. Una volontà floscia è il tranello aperto a tutte le ricadute, una volontà forte è la nostra difesa. Una delle mortificazioni più efficaci è la nostra umile preghiera, costante, sulla nostra debolezza. Pregare e pregare sodo, tanta preghiera di qualità, ecco la più bella penitenza e il più bel rafforzamento della volontà. È in ginocchio che viene la forza di Dio per superare le lotte, è in ginocchio che l’uomo diventa potente, e per questo è necessaria una forte riparazione”.

Non si è veramente usciti dal male, fino a quando non si è riparato quel male, ci vuole una riparazione seria, non tre Ave Maria! Ho fatto un male? Devo riparare in quel male lì, così dice l’Ordo Paenitentiae.

Quindi, dobbiamo chiedere al Signore la grazia di vivere sul serio questo Sacramento!

Oggi è venerdì, il giorno della Passione, ci stiamo avvicinando alla domenica, che è il giorno del Signore, perché non usare questi giorni per fare una santa confessione? Ma fatta bene, non “frim frum fram”, una confessione che non sia polemica, che non sia un’analisi psicologica e psicanalitica di chissà quale cosa, o il trovare scuse e ragioni. Vai lì e dici chiaramente chi sei, i tuoi peccati, produci in te un vero pentimento, una vera riparazione. Ci vuole un programma di vita!

Come faccio a capire che la mia confessione è stata buona, vera?

Perché cambia la vita!

Se dopo la confessione cambia la vita, vuol dire che tu hai fatto un vero patto con Dio nella confessione. Bisogna fare una regola di vita, dei propositi di vita veri, primo fra tutto una preghiera vera.

Inutile andarsi a confessare e dire: «Sono pentito, sono pentito…» e poi non pregare mai o pregare in modo incostante, e poi dire: «Io non ce la faccio, io non ci riesco…»

Certo, perché non preghi!

Ci vogliono ore, ore ed ore di preghiera, di stare davanti al Santissimo Sacramento, ore, ore, ore di meditazione!

Vuoi convertirti?

Questa è la strada, altrimenti è tutta una presa in giro!

Che il Signore ci conceda la grazia di essere come questo paralitico, e sentirci davvero dentro nell’anima, e vedere nella vita, che siamo stati perdonati e ci siamo convertiti.

Non sprechiamo il Sangue di Cristo!

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia Lodato!

 

Letture del giorno

Prima lettura

1Sam 8,4-7.10-22 – Griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà.

In quei giorni, si radunarono tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuèle a Rama. Gli dissero: «Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli».
Agli occhi di Samuèle la proposta dispiacque, perché avevano detto: «Dacci un re che sia nostro giudice». Perciò Samuèle pregò il Signore. Il Signore disse a Samuèle: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro».
Samuèle riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. Disse: «Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà».
Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuèle e disse: «No! Ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie».
Samuèle ascoltò tutti i discorsi del popolo e li riferì all’orecchio del Signore. Il Signore disse a Samuèle: «Ascoltali: lascia regnare un re su di loro».

Salmo responsoriale

Sal 88

Canterò in eterno l’amore del Signore.

Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua giustizia.

Perché tu sei lo splendore della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.
Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d’Israele.

Canto al Vangelo

Lc 7,16

Alleluia, alleluia.
Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo.
Alleluia.

Vangelo

Mc 2,1-12 – Il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra.

Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

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