Pubblico qui la mia risposta all’articolo “Ancora sulla pretesa invalidità della Declaratio di Benedetto XVI. Et de hoc satis” di Geraldina Boni e Manuel Ganarin pubblicato da La Nuova Bussola Quotidiana in data 31 ottobre 2024.
Qui il link all’articolo pubblicato dalla Nuova Bussola Quotidiana: Vai all’articolo >
Qui la mia risposta, scaricabile in formato PDF: Vai alla risposta >
Una premessa sul metodo generale
La prof.ssa Boni è un’affermata docente presso l’Alma Mater Studiorum. Da lei mi aspettavo una tale forza argomentativa, una tale padronanza dell’argomento, da polverizzare le mie tesi a suon di citazioni, rigorose e del tutto neutrali.
Invece osservo che la Prof.ssa Boni, nel suo scritto, adotta un approccio critico che sembra puntare, in prima battuta, a mettere in discussione la mia credibilità.
È noto che, in una discussione, si ricorre al discredito quando gli argomenti a proprio favore scarseggiano. Lo dice la stessa prof.ssa Boni a pagina 2 del suo scritto: “secondo deprecabili etichette che sovente e con leggerezza alcuni attribuiscono, al fine di non controbattere le idee ma di denigrare le persone, rivelando così una sconcertante carenza di argomenti”.
Quindi vorrei innanzi tutto evidenziare alcuni di questi elementi disseminati nel testo della Boni. Ce ne sono davvero molti, quindi per non tediarvi considererò solo i principali.
Iniziamo dal titolo: “Ancora sulla pretesa invalidità della Declaratio di Benedetto XVI. Et de hoc satis”.
“Et de hoc satis”, in italiano potremmo tradurre: “E di questo ne abbiamo abbastanza”. La prof. Boni ha decretato che sull’argomento si sia già detto tutto quello che c’era da dire, e, sostanzialmente, che sia ora di smetterla di infastidire la gente seria con queste sciocchezze.
La Prof.ssa Boni esordisce definendo il mio testo un “Pamphlet”, appellativo non lusinghiero. Più avanti lo chiama “libello”. Avrebbe potuto definirlo, in maniera più neutrale, “testo”, “scritto”, oppure “omelia” (quello che è veramente), ma definirlo “Pamphlet” e “libello” vuol dire bollarlo già come scritto di scarsa serietà.
Prosegue affermando che non ho scritto nulla di nuovo e che ho seguito “pedissequamente” le tesi di altri. In effetti, non era mia pretesa scrivere qualcosa di nuovo. Lo scopo del mio testo non era dare un contributo innovativo e originale alla ricerca scientifica. Non si tratta di una tesi di dottorato o di un saggio da pubblicare su una rivista specializzata, ma di una semplice omelia.
E con questo rispondo anche all’accusa di non aver contemplato e smentito tutte le tesi contrarie alle mie, ma solo quelle a mio favore. Il lavoro non ha quel taglio e non voleva averlo. Era un’omelia, già fin troppo lunga per i canoni di un’omelia, con la quale intendevo illustrare la mia posizione. Per farlo in modo serio ho voluto corredare il testo scritto di fonti a supporto delle mie affermazioni.
Eppure, per la Boni anche le fonti che ho citato, o non sono abbastanza autorevoli, oppure, se lo sono oggettivamente, allora le avrei interpretate male o “strumentalizzate”.
A proposito di fonti, a pagina 2, la prof.ssa Boni afferma che cito “la pubblicazione di un sacerdote argentino che si dichiara specializzato in teologia”. Le parole hanno un peso, e questa frase ha tutta l’aria di voler dire che il tale sacerdote millanta competenze che non ha. La persona in questione è Don Fernando Maria Cornet, italo argentino, licenziato in Teologia e Scienze Patristiche all’istituto patristico Augustinianum della Pontificia Università Lateranense.
Un’altra operazione che fa la prof.ssa Boni è menzionare — senza specificarne l’autore — opinioni o espressioni dette da altri, che io non ho mai pronunciato né sostenuto. Così facendo, induce in errore i lettori, lasciando intendere che la paternità di certe idee, che lei stessa smentisce, sia mia.
A pagina 2, ad esempio, l’autrice, nel difendere i canonisti favorevoli a Papa Francesco, critica coloro che li denigrano con espressioni quali: «confundisti», «legittimisti di Bergoglio», «nemici della Chiesa e del Papa», «seguaci della Chiesa dell’Anticristo», «cortigiani» e «iscritti al libro paga del pontefice regnante». Tali citazioni vengono riportate per mettere in evidenza i pregiudizi di chi le utilizza, espressioni che personalmente non ho mai pronunciato.
A pagina 4, cita la traduzione di «vacet» come «vuota», traduzione della quale non ho mai parlato.
Analogamente, a pagina 5 sottolinea l’infondatezza della teoria del «piano anti-usurpazione», che io non ho mai sostenuto. Pertanto, è fuori luogo da parte sua sottolineare che né Giovanni Paolo II né il Card. Ratzinger abbiano partecipato direttamente alla stesura del can. 332 §2. Conosco la storia del CIC del 1983 e ne sono consapevole.
A pagina 9, la dott.ssa Boni cita l’espressione «porsi in sede impedita», che non ho mai usato.
Dopo aver dato uno sguardo alla cornice nella quale si muove la Prof.ssa Boni, veniamo ora agli argomenti veri e propri.
Una smentita punto per punto risulterebbe particolarmente pesante e noiosa, soprattutto poiché il testo della Boni manca di sistematicità, enfatizza dettagli o esempi secondari presenti nel mio scritto e introduce elementi del tutto estranei. Mi limiterò quindi ad affrontare i temi principali, evitando di perdermi nei dettagli.
Per inquadrare le cose con ordine, devo qui riepilogare brevemente l’ossatura delle mie argomentazioni.
La mia tesi principale è che Benedetto XVI non si sia mai dimesso e, a supporto, porto diverse ragioni, indipendenti l’una dall’altra:
- L’atto giuridico non esiste perché è una mera dichiarazione
- L’atto giuridico non esiste per la presenza di un termine temporale
- L’atto giuridico non esiste per mancanza di oggetto, dal momento che Benedetto XVI ha dichiarato di rinunciare al ministerium e non al munus
- A corollario, nel mio testo, aggiungevo anche altre considerazioni, non determinanti per l’argomentazione ma solo rafforzative.
La seconda tesi, subordinata alla prima, è che il Card. Bergoglio non è stato eletto Papa perché al momento dell’elezione la sede non era vacante.
Aggiungevo poi altre considerazioni circa la nullità dell’elezione del Card. Bergoglio, valide anche a prescindere dalla prima tesi.
- L’invalidità dell’elezione a causa di trasgressione delle norme di UDG.
- La considerazione che «un Papa dubbio non è Papa».
Aggiungevo poi una breve nota per prevenire chi avesse invocato il principio dell’adesione pacifica e universale come dimostrazione o sanazione che Francesco è Papa.
Benedetto XVI non si è mai dimesso
La Declaratio è una mera dichiarazione
“A giudizio di Faré, si ricaverebbe la mancanza della voluntas renuntiandi dall’intitolazione del documento (Declaratio) e dalla formula adoperata da Benedetto XVI («declaro me ministerio […] renuntiare»)”
La dott.ssa Boni inizia partendo… dal fondo, cioè contestando un elemento del tutto accessorio (il titolo «Declaratio» dato da Benedetto XVI), che avevo menzionato come rafforzativo di quanto avevo appena argomentato.
È vero che l’intestazione dell’atto non qualifica giuridicamente il suo contenuto, è vero altresì che costituisce un indice del suo contenuto. L’intestazione conferma infatti, nella fattispecie, il contenuto meramente declaratorio, non dispositivo della Declaratio di Benedetto XVI. Va puntualizzato che quell’intestazione è stata scelta personalmente dal suo estensore. L’argomento usato dalla Boni, pertanto, è un sofisma.
La Boni, poi, finalmente passa alla res e dichiara che il canone 332 §2 non impone alcun vincolo di forma per la rinuncia del Pontefice. In effetti, non ho mai asserito che vi fosse una precisa forma da usare, come se si trattasse di una formula sacramentale. Tuttavia, evidenziavo l’assoluta incoerenza della formula usata da Benedetto XVI rispetto all’unico canone del Codice di Diritto Canonico che affronta il tema della rinuncia al papato.
A prescindere dall’uso di una precisa formula, il canone 332 §2 impone la manifestazione inequivoca della volontà di rinunciare al munus di Romano Pontefice. Nella Declaratio di papa Benedetto, questo non c’è. Nel diritto, una mera dichiarazione di intenti non modifica nulla, non dispone, non obbliga.
Nel mio documento scrivevo:
“Così come è stata pronunciata, la dichiarazione di Benedetto XVI è, appunto, solo una dichiarazione, non un atto giuridicamente valido, né alla dichiarazione è succeduta alcuna ratifica”[1].
La Boni qui mi attribuisce un “macroscopico scivolone canonistico” e, purtroppo, scivola lei stessa. Infatti, intende che mi riferissi a una ratifica da parte di altri e spende un paragrafo per dare una lezione sul retroterra canonistico e teologico della non necessità di accettazione della rinuncia papale.
Ma leggendo il mio testo è chiaro che non intendevo che la rinuncia di un Papa debba essere in qualche modo accettata o ratificata dai cardinali. Infatti, il can. 332 §2 da me più volte citato dice:
“Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”[2].
Nel mio discorso mi riferivo alla mancanza di un atto dispositivo di Benedetto XVI che desse efficacia giuridica a quella che era stata solo una dichiarazione di intenti.
Sempre a causa di questo suo errore interpretativo, la prof.sa Boni mi attribuisce, quindi, un “cortocircuito palese nel ragionamento”.
In ogni caso, nel prosieguo, la Boni contempla anche questa interpretazione (quella giusta) del mio testo e argomenta invocando il potere supremo del Papa per escludere la necessità di un tale atto. Ritornerò dopo sull’abusato argomento del potere primaziale.
La Declaratio contiene un termine temporale (differimento al 28 febbraio)
Nel mio testo, consideravo che la rinuncia al papato si configura come un “atto giuridico puro” che non tollera l’apposizione di condizioni.
Secondo il can. 145 §1 del Codice di Diritto Canonico (CIC), “per ufficio ecclesiastico si intende un incarico costituito stabilmente per il conseguimento di un fine spirituale”. Il papato soddisfa questa definizione, in quanto è un incarico stabile, istituito per il governo della Chiesa universale e per il conseguimento del fine spirituale supremo: guidare i fedeli verso la salvezza. Il papato è dunque un ufficio ecclesiastico, pur nella sua unicità come ufficio supremo e di istituzione divina, che supera per autorità e responsabilità qualsiasi altro ufficio nella Chiesa.
La rinuncia al papato è un atto giuridico[3] e vi si applica il can. 189 § 3, che riguarda la rinuncia a un ufficio ecclesiastico:
«La rinuncia che necessita di accettazione, se non sia accettata entro tre mesi, manca di ogni valore; quella che non ha bisogno di accettazione sortisce l’effetto con la comunicazione del rinunciante fatta a norma del diritto»
Abbiamo visto al can. 332 che la rinuncia all’ufficio petrino non ha bisogno di accettazione; dunque, l’effetto della rinuncia al papato è immediato.
Ma la Boni, innanzi tutto, contesta che “la presenza di un elemento accidentale possa di per sé determinare l’inesistenza di un atto giuridico, travolgendone così gli elementi essenziali”, poi per l’ennesima volta, invoca “l’inapplicabilità di alcune disposizioni codiciali agli atti del Papa” (su questo ritornerò dopo) e si produce in una sequenza di argomentazioni che paiono piuttosto fumose.
Non si comprende come la Boni possa affermare:
“Solo attraverso un’indagine approssimativa, infatti, si può desumere dal testo del can. 189 § 3 CIC che la rinuncia dovrebbe produrre un «effetto immediato»”[4].
In realtà questa è la lettera del canone, non serve alcuna indagine o interpretazione: “La rinuncia […] sortisce l’effetto con la comunicazione del rinunciante”.
Quindi, la Boni aggiunge questa considerazione, della quale non si comprende la necessità:
“l’efficacia, al contrario, poteva legittimamente essere differita nel tempo, dato che la rinuncia è un atto di governo con il quale si determina la sola cessazione della titolarità dell’ufficio apicale di giurisdizione nella Chiesa, non rilevando in alcun modo l’investitura divina della carica e fermo restando che il papato non rappresenta il quarto grado del sacramento dell’ordine”[5].
Non appare chiaro come questi argomenti siano pertinenti rispetto alla questione trattata. Non ho mai sostenuto che il papato abbia qualche tipo di carattere sacramentale (si tratta di un’idea di Karl Rahner, alla quale non ho mai aderito). Peraltro, se il papato avesse un carattere sacramentale sarebbe impossibile rinunciare al papato tout court, non solo differire l’efficacia della rinuncia. Francamente, la logica di questa argomentazione sfugge, e sembra essere, piuttosto, fumo negli occhi.
La Boni passa poi a un esempio, la differibilità della rinuncia del vescovo 75enne, a sostegno di un asserito potere generalizzato del Papa di differire i propri atti.
L’argomento è un altro sofisma: la Lettera Apostolica Imparare a congedarsi del 12/02/2018, all’art. 5 testualmente recita:
“Una volta presentata la rinuncia, l’ufficio di cui agli articoli 1-3 è considerato prorogato fino a quando non sia comunicata all’interessato l’accettazione della rinuncia o la proroga, per un tempo determinato o indeterminato, contrariamente a quanto in termini generali stabiliscono i canoni 189 § 3 CIC e 970 § 1 CCEO.”
Si tratta, con tutta evidenza, di un’esplicita deroga normativa alla regola generale del can. 189 § 3. Deroga prevista per legge. Tutt’altro che una conferma del potere generale del Papa di differire a propria discrezione i propri atti!
La canonistica in più luoghi insiste sulla necessità che la rinuncia al papato sia scevra da condizioni. Il prof. polacco Piotr Majer scrive:
“Non è valida una rinuncia del papa sottoposta a condizione, ad esempio fatta a favore di un altro o riservandosi alcune competenze da parte di chi rinuncia[6]”
Per onestà intellettuale va detto che gli esempi qui citati da Majer non riguardano esplicitamente il differimento temporale.
Il Prof. Fernando Puig così commenta la rinuncia di Benedetto, ritenendola valida:
«Siamo davanti al caso della efficacia di un atto valido sottoposta ad un termine iniziale. Non è una condizione, né la sottomissione ad un evento che accade o il cui avvenimento deve essere verificato da qualcuno: è un puro e semplice differimento dell’efficacia di un atto ormai perfetto, non bisognoso di ulteriori atti, ad un momento preciso e certo»[7].
Tuttavia, ammette appena dopo:
«Un tale differimento potrebbe suscitare qualche perplessità».
E quindi minimizza l’obiezione, senza però produrre una reale argomentazione:
«Però non sembra conveniente farne una questione di principio se la posposizione dell’efficacia dell’atto al termine iniziale è ritenuta un tempo a servizio della preparazione della situazione di sede vacante e dell’ultimazione delle misure di governo in corso.”
Trattando della rinuncia del papa il canonista di inizio ‘900 Felice Maria Cappello scrive:
«In sé nulla impedisce che la rinuncia possa avvenire anche sotto condizione. Infatti, né il diritto divino né quello naturale lo vietano minimamente. Tuttavia, dalla rinuncia condizionata potrebbero facilmente derivare diversi inconvenienti; per questo motivo, il bene della Chiesa richiede assolutamente che il Papa non esprima la rinuncia alla dignità papale in modo condizionato»[8]
Questo per dire che la mia obiezione non è così peregrina come vorrebbe lasciare intendere la Boni.
L’argomentazione della prof.ssa Boni sorprende, a maggior ragione, perché nella sua proposta di legge canonica (cfr. «Una proposta di legge, frutto della collaborazione della scienza canonistica, sulla sede romana totalmente impedita e la rinuncia del papa») scriveva:
«La rinuncia valida ed efficace non può essere revocata. Non dovrebbe essere sottoposta a condiciones (riferite al passato, al presente o al futuro), per la perigliosa insicurezza che ciò insinuerebbe. Andrebbe regolata l’efficacia temporale della rinuncia, con la previsione del possibile differimento degli effetti». (p. 54)
Nel suo articolo la professoressa contemplava la possibilità di inserire nelle procedure successive all’elezione di un nuovo Pontefice, la firma di una rinuncia in previsione di un impedimento futuro del Papa. Colpisce il fatto che la Boni si premurasse di precisare che il “possibile differimento degli effetti” andasse normato esplicitamente.
Di nuovo, si conferma che l’apposizione di un termine dies a quo non è questione così pacifica per una rinuncia al pontificato, e questo proprio per il suo carattere di atto giuridico puro, che esige certezza e chiarezza[9], come del resto più volte ribadito dalla stessa Boni nel saggio appena citato sulla proposta di legge.
Aggiungo, infine, che mentre ci sono poche disposizioni giuridiche sulla rinuncia, vi sono molte conferme sull’efficacia immediata dell’accettazione. Sull’esame di queste si concentra l’avv. Patruno in un articolo del 6 novembre 2024 comparso sul blog di Aldo Maria Valli a confutazione della sbrigativa affermazione della prof. Boni (la presenza di un elemento accidentale non determina l’inesistenza dell’atto). Non ripeto qui tutta la sua argomentazione ma ad essa rimando. L’avvocato si basa su considerazioni teologiche e canonistiche e mette in luce che, per quello specialissimo atto giuridico che è la rinuncia al papato, la presenza di un termine temporale è impossibile:
«Se, dunque, l’effetto è immediato, è ipso facto, rispetto all’atto compiuto, ne deriva che esso, per sua natura, non possa soffrire l’apposizione di termini o di condizioni o di modi»[10].
L’avv. Patruno insiste sul parallelo tra accettazione e rinuncia (trattandosi di due actus contrarii):
«Se l’accettazione del papato non può essere condizionata o limitata nel tempo, perché dovrebbe esserlo la rinuncia?»[11]
Tra le altre obiezioni che mi muove, la Boni dice che ciò che non è espressamente menzionato nel diritto, non implica che esso sia necessariamente proibito. Nell’articolo già citato l’Avv. Patruno, tuttavia, osserva che anche nel caso del matrimonio il legislatore non proibisce esplicitamente l’apposizione di un termine. Eppure, non si può concludere che allora sarebbe possibile apporre un termine iniziale o finale all’efficacia del matrimonio stesso.
Sulla potestà primaziale
Già l’ho accennato: la prof. Boni più volte nel suo scritto usa per confutarmi l’argomento della Potestà primaziale del Papa. Si tratta di un argomento usato come “deus ex machina” capace di risolvere qualsiasi impasse.
Il canone di riferimento è il 1404 del Codice di Diritto Canonico, il celebre: “Prima Sedes a nemine iudicatur”, vale a dire: “La Prima Sede non è giudicata da nessuno”.
In senso stretto, questo codice sancisce l’assoluta immunità del Pontefice.
In senso più largo, significa che il Papa è il supremo Legislatore e può quindi creare, modificare, abrogare norme giuridiche. Tuttavia, come la stessa Boni chiarisce in altri luoghi (cfr. ad esempio due articoli da lei stessa scritti sul tema della potestà del Papa per La Nuova Bussola Quotidiana i giorni 5 e 6 dicembre 2023),
«l’affermazione che il Papa è legibus solutus [sciolto dalle leggi] si può intendere esclusivamente nel senso che egli è al di sopra del solo diritto positivo – al quale resta comunque ordinariamente soggetto, sebbene, quale suprema autorità, possa ragionevolmente modificarlo»[12].
“Vi resta ordinariamente soggetto” per non polverizzare il principio della certezza del diritto, facendo piombare tutti in balia del mare fluttuante delle interpretazioni.
La possibilità di collocarsi sopra al diritto positivo non può esulare dal criterio principe dell’esercizio della potestas suprema che è il bene della Chiesa, in particolare la difesa della sua unità.
Non ho mai inteso giudicare la Prima Sede (vale a dire Benedetto XVI) ma valutare, norme alla mano, l’intrinseca efficacia o validità di un asserito atto di rinuncia.
La stessa presenza di un canone relativo alla rinuncia del Papa (il can. 332 §2) indica che debba esserci un minimo di “confini” per la validità, non per limitare la libertà del Papa, ma per fornire adeguate garanzie a tutti i fedeli.
L’asserita rinuncia di Benedetto XVI e tutto ciò che ne è seguito hanno dimostrato pienamente la confusione di una situazione nuova e la stessa Boni si è fatta promotrice di un progetto di legge (poi non portato a termine perché “Papa Francesco” lo ha ritenuto superfluo) per colmare le lacune legislative che si sono palesate intorno al tema della rinuncia del Papa.
Data la delicatezza di una rinuncia papale, non sembra possibile che Benedetto XVI si sia avventatamente affidato a una formula che avrebbe potuto anche solo sollevare un dubbio di liceità o validità.
Osservo infine che, nel testo della Declaratio, Benedetto XVI non ha in alcun modo manifestato la volontà di esercitare il potere legislativo né di modificare il canone 332 §2. Tale intenzione non emerge nemmeno in modo induttivo. Data la gravità dell’evento, il Papa avrebbe dovuto esprimere esplicitamente una simile volontà; non avrebbe potuto lasciarla implicita.
La distinzione tra munus e ministerium
La Dott.ssa Boni parte a spada tratta tacciando come “fumoso e abborracciato” l’argomento della distinzione tra munus e ministerium. Un argomento tutt’altro che nuovo, che mi sono solo limitato a riprendere. Si tratterebbe di “elucubrazioni”, di “stravaganti ricostruzioni”, di una “distinzione concettuale maldestramente inventata”. Sentenzia così la Boni:
“sorge insopprimibile il sospetto che il non semplice scritto (in latino) del cardinale non sia stato neppure sfogliato”
La Professoressa avanza il sospetto che io non abbia neppure sfogliato lo scritto del Cardinale Erdö, definendolo ‘non semplice’ per il fatto che è redatto in latino. Mi permetto di precisare che non solo conosco il latino, ma ho effettivamente letto il saggio del Cardinale.
Ciò che sorprende è che proprio la prof.ssa Boni non si renda conto che Erdö dice esattamente il contrario di quanto sostiene lei, ed è sufficiente dargli una sfogliata per confutarla.
La Prof.ssa Boni cita l’incipit dell’articolo:
“Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonyma”.
“Ministerium, munus e officium sono vocaboli che, in buona parte, si possono considerare sinonimi.”
Peccato che a questa frase di apertura seguano venticinque pagine di trattazione, nelle quali il Cardinale scandaglia tutte le sfumature dei due termini e giunge alla seguente conclusione, riportata anche nel sommario (sulla stessa pagina, appena una riga sopra all’incipit citato dalla Boni):
“Sebbene in diverse accezioni questi tre termini [munus, ministerium e officium] possano indicare la stessa cosa, come termini tecnici non si possono confondere”[13].
E qui riporto altri brani tratti dalle conclusioni del saggio di Erdö, che leggo tradotti in italiano, a beneficio della platea dei non-canonisti:
«il termine munus, con poche eccezioni, indica quasi sempre un’opera da compiere in generale (a volte con una particolare connotazione teologica) o l’insieme dei diritti e dei doveri attribuiti a qualcuno» (ibidem, pag. 433).
«Il termine ministerium, nel suo significato predominante, indica l’azione del servire (sebbene questo senso non sia sempre facilmente distinguibile da un’opera da compiere) e, pertanto, si riferisce maggiormente a una funzione o a un’azione rispetto al munus» (ibidem, pag. 434)
La cosa interessante è che in tutti gli scritti della Boni che ho letto, nei quali la prof.ssa tratta il tema della rinuncia del Papa, lei stessa scrive in maniera uniforme “Ufficio petrino” e mai “ministero petrino” o “ministero del vescovo di Roma”. Come mai questa estrema coerenza di termini, se munus e ministerium sono sinonimi?
Pertanto, la sottile insinuazione alla mia “disonestà intellettuale” si ritorce contro la stessa scrivente.
Prosegue la Boni, sentenziando:
“Il papa, del resto, poteva usare indifferentemente una parola piuttosto che l’altra, purché fosse manifestata chiaramente la sua volontà di abbandonare il soglio petrino: cosa che effettivamente è accaduta”.
Insisto nel dire che, per l’importanza dell’atto di rinuncia, questa “chiara manifestazione”, richiesta dal can. 332 §2 “rite manifestetur”, come requisito di validità, non può proprio essere data per scontata perché Benedetto XVI non rinuncia al munus petrino (cioè all’ufficio petrino, come dice bene e univocamente la Boni nel suo scritto « Una proposta…»), Benedetto XVI rinuncia al ministerium, e si badi bene, al ministerium di Vescovo di Roma. Non pago di questo aggiunge perfino: «Conferitomi per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005». Ma l’ufficio petrino è conferito dai cardinali?
«il Romano Pontefice non deve comunicare a nessuno la sua rinuncia, in quanto nessuna autorità umana gli ha conferito l’ufficio» (Gianfranco Ghirlanda, Cessazione dall’ufficio di Romano Pontefice, p. 447).
«al Romano Pontefice non conferisce la sua suprema potestà personale nessuna autorità umana, né civile né ecclesiastica, come potrebbe essere il Collegio Cardinalizio o un Concilio Ecumenico o un Sinodo dei Vescovi, in quanto il Romano Pontefice è sottoposto solo a Cristo» (Gianfranco Ghirlanda, ibidem).
Chiaramente, Benedetto XVI non avrebbe potuto rinunciare al munus di Vescovo di Roma, perché non si può cancellare l’ordinazione episcopale. Avrebbe potuto però rinunciare al munus petrino, che non è un sacramento, appunto. Eppure non l’ha fatto.
Rinunciare al ministerium di Vescovo di Roma equivale a rinunciare al munus petrino? In questo contesto si colloca il lavoro da me citato del prof. Violi.
«L’11 febbraio del 2013, in piena sintonia con la tradizione della Chiesa, Benedetto XVI dichiarava la sua rinuncia al ministero petrino. Rispetto al dettato del canone però dichiarava di rinunciare non già all’ufficio ma alla sua amministrazione. La rinuncia limitata all’esercizio attivo del munus costituisce la novità assoluta della rinuncia di Benedetto XVI. A fondamento giuridico della sua scelta non c’è allora il can. 332 § 2 che disciplina una fattispecie differente di rinuncia rispetto a quella pronunciata da Benedetto XVI»
Abbiamo detto che la prof. Boni insiste sull’irrilevanza della formula della rinuncia, purché il Papa compia il suo atto liberamente e lo “manifesti debitamente” (cfr. can. 332 §2).
Vale la pena di chiedersi cosa voglia dire “manifestarlo debitamente”. Certamente un primo criterio sarebbe quello di farlo in modo che non vi siano dubbi di sorta. E quale miglior modo che non attenersi a formule già usate? In questo senso si collocava il mio esempio su Celestino V, che la Boni liquida come irrilevante. Certo, non costituisce precedente circa le circostanze, ma io mi riferivo alla formula di rinuncia, non alla situazione.
En passant, cito anche una evidente contraddizione della prof. Boni, così caparbia nel volermi screditare a tutti i costi da scrivere:
«È pertanto inutile e fuorviante richiamare il precedente della rinuncia di papa Celestino V del 1294»
Eppure, lei stessa aveva scritto:
«rammentiamo ancora come generalmente si convenga che il gesto di Ratzinger possa essere comparato unicamente con quello di Celestino V che depose la tiara il 13 dicembre 1294» (Boni, «Due papi a Roma?» in Stato, Chiese e pluralismo confessionale n. 33/2015, 2 novembre 2015).
e ancora:
«le scelte di Ratzinger di risiedere entro i confini della Città del Vaticano […] e di indossare l’abito bianco […]. Si tratta di decisioni che presentano incontestabilmente qualche anomalia: è risaputo infatti come il pontefice resignante che più frequentemente e plausibilmente viene assimilato a Benedetto XVI, ovvero Celestino V, una volta notificata al concistoro la sua rinuncia, deponesse i paramenti e le insegne del potere papale con una plastica e paradigmatica ‘retrocessione’» (Boni, «Sopra una rinuncia», pag 157).
Ma allora il precedente di Papa Celestino V è inutile e fuorviante oppure è l’unico metro di paragone? Stupisce questo cambio di parere da parte della prof. Boni.
Ritorniamo alla necessità di manifestare “debitamente” la rinuncia. Se non ci si vuole attenere a una formula già usata, l’altra idea potrebbe essere quella di richiamare l’unico canone che regolamenta la rinuncia e che configura la fattispecie con: Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet — “Se accade che il Romano Pontefice rinunzi al suo ufficio (munus)”.
Facciamo un paragone per illustrare semplicemente la questione. Supponiamo che ci sia una norma che reciti: “Se accade che un ladro scassini un’abitazione privata, sia punito con due anni di reclusione”.
A nessuno salterebbe in mente di applicare la pena dei due anni di reclusione a un ladro che assaltasse una banca, perché questa norma parla di un’abitazione privata. E nemmeno si potrebbe applicare al caso di un furto d’auto.
Quindi, come ha rilevato il prof. Violi, si potrebbe dire che al caso di Benedetto XVI il canone 332 §2 non si può neppure applicare, giacché egli non ha rinunciato al munus di Romano Pontefice, bensì al ministerium di Vescovo di Roma…
La prof.ssa Boni asserisce che io strumentalizzi a mio vantaggio la citazione di Violi e adduce a prova il fatto che non abbia sposato la tesi espressa da Violi in un successivo articolo, circa il papato emerito. Quello che invece mi pare davvero notevole è questo: il prof. Violi è una fonte particolarmente interessante perché, pur ritenendo valida la rinuncia, rileva come Benedetto abbia rinunciato al ministerium e non al munus.
Anziché cercare strenuamente di smontare la distinzione tra munus e ministerium si dovrebbe, piuttosto, investigare la formula anomala di Benedetto XVI.
Sempre in questo paragrafo di pagina 6 la Boni, citando la questione dell’errore sostanziale, parla di “processo alle intenzioni” ma non capisco a cosa si riferisca. Questo è un paragrafo particolarmente convulso e involuto dello scritto della Boni. Suppongo possa riferirsi a una teoria, che io non ho mai espresso, secondo al quale la rinuncia di Benedetto XVI sarebbe invalida perché questi avrebbe commesso un errore sostanziale sposando la tesi rahneriana del “doppio papato”. Ma, ripeto, non ho mai sostenuto questa teoria.
Prima di passare al prossimo punto faccio un breve inciso chiarificatore: quando un Vescovo va in pensione prende il titolo di “Vescovo emerito”. Vale a dire che non esercita più il governo della sua diocesi (il ministerium) ma rimane vescovo, perché l’episcopato è un carattere
episcopale.
Nel mio lavoro citavo l’avv. Estefania Acosta per spiegare il motivo per il quale la condizione del vescovo emerito non è affatto paragonabile a quella del papa emerito.
La Boni invece definisce “incomprensibile” la tesi dell’avv. Acosta perché non capisce che il “munus” al quale si riferisce la Acosta non è quello indelebile derivante dall’ordinazione episcopale, bensì il “munus petrino”.
Su un punto la Boni e io siamo d’accordo, e cioè che il papato non è il quarto grado del sacramento dell’ordine e che quindi è possibile rinunciare al papato. Partendo da questa premessa, la Acosta argomentava che, però, non è possibile per il Romano Pontefice, rinunciare al servizio attivo (al ministerium) senza rinunciare anche al munus petrino (non a quello episcopale!) perché “la titolarità integra delle medesime da parte di una sola persona è essenziale per garantire l’unità della Chiesa”.
L’argomentazione della Acosta è coerente con ciò che scrive Fernando Puig:
«mentre in tutti gli altri uffici le funzioni sono eventualmente trasferibili attraverso un atto di autorità a un altro ufficio o – per via di delega – a un altro soggetto, nel caso delle funzioni primaziali tali funzioni nel loro contenuto essenziale solo possono essere esercitate dal titolare, perché la condizione di unitarietà della persona funge da condizione di possibilità dell’esercizio delle funzioni stesse»[14].
In questo senso l’avv. Acosta dice che un Papa non può scindere il munus (petrino) dal ministerium, a differenza di un vescovo emerito, che non esercita più il ministerium ma, ovviamente, non perde il carattere sacramentale dell’ordinazione episcopale.
Per inciso faccio notare che l’espressione “papa emerito” è tutt’altro che pacifica. Lo stesso gruppo di studio guidato dalla Boni lo ha contestato. Si veda in proposito Beatrice Serra “La proposta di legge sulla rinuncia del Papa: prime note per un inquadramento sistematico” ove la problematicità del “titolo” da dare a colui che ha rinunciato al papato viene percepito in tutta la sua portata. La stessa prof. Boni ha scritto « ‘papa emerito’ è infatti espressione che ci
lascia assai titubanti e alla quale non riusciamo ad ‘arrenderci» (Boni, «Sopra una rinuncia», p 109).
Un’altra contestazione della Boni riguarda la mia citazione del Cardinale Fagiolo. Tengo a precisare che non ho affatto affermato che la motivazione della “ingravescente aetate” invalidasse l’elezione, questo nel mio scritto non si trova. Ho aggiunto questo parere solo per segnalare un ulteriore elemento “anomalo” all’interno della Declaratio. E faccio notare, tra l’altro, che il parere del Card. Fagiolo non è propriamente il parere personale di “uno studioso, seppur autorevole”, come dice la prof. Boni, perché è stato dato al termine di uno studio fatto dal Cardinale su espresso mandato di Giovanni Paolo II, quindi un parere ufficiale e non un semplice parere personale.
Papa Francesco non è Papa
Riprendiamo le tesi da me esposte sull’argomento:
- La prima e principale è che il Card. Bergoglio non sia mai stato eletto papa perché Papa Benedetto non ha abdicato.
- La seconda si fonda sulle norme di UDG.
- La terza sul principio “papa dubbio papa nullo”.
La prof.ssa Boni respinge in toto la prima, come abbiamo visto finora.
Sulla seconda la prof. Boni sostiene che le norme di UDG che potrebbero essere state trasgredite dal Conclave (ammesso che fosse un Conclave validamente convocato) non sono norme “irritanti”, vale a dire che non rendono nulla e invalida l’elezione.
Su questo cito solo un parere contrario, quello del Card. Reymond Leo Burke, ex Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, il massimo organo giudiziario della Chiesa Cattolica. In un’intervista rilasciata nel 2019 all’analista e conduttore mediatico statunitense Patrick Coffin, affermava:
«L’unico motivo che potrebbe essere sollevato per mettere in dubbio la validità dell’elezione sarebbe se questa fosse stata organizzata da una campagna preventiva, cosa che è strettamente vietata». (Patrick Coffin, 141: Dubia Cardinal Goes On the Record—Raymond Cardinal Burke, 13 agosto 2019)
Da questo comprendiamo che secondo il Card. Burke quei punti di UDG sono irritanti. Salvo il punto sulla simonia, per il quale il CIC dice chiaramente che non invalida l’elezione, il silenzio dei successivi articoli lascia intendere, e il card. Burke conferma, che si tratti di norme irritanti.
La Boni poi si dilunga sull’anticipazione del Conclave del 2013, resa possibile dalle modifiche introdotte da Benedetto XVI con Normas Nonnullas, tema che io non ho trattato e quindi, ancora una volta, la prof. Boni sfrutta un testo che dichiara di voler prendere in esame il mio scritto “Non consegnerò il Leone” per inserire confutazioni di tesi non mie. Questo non mi pare corretto, dato che induce i lettori a credere che anche queste tesi siano mie.
Infine la prof.ssa Boni passa brevemente a contestare il mio punto sul Papa dubbio Papa nullo e sulla Pacifica Adesione Universale. Ma poiché ho già trattato diffusamente questi temi, ritengo superfluo ritornarci.
Note
[1] P. Giorgio Maria Faré, «Non consegnerò il Leone», p. 5.
[2] “Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.”(CIC, can. 332 §2).
[3] «La rinuncia è un atto giuridico e, in quanto tale, è regolata dai canoni 124-128. È, allo stesso tempo, una delle modalità di perdita dell’ufficio ecclesiastico, e di questo istituto giuridico si occupano i canoni 187-189» («La renuncia es un acto jurídico y en cuanto tal se rige por los cánones 124-128. Es al mismo tiempo una de las formas de perder el oficio eclesiástico, y de este instituto jurídico se ocupan los cánones 187-189»). (Capello, H. H. (2016). La renuncia del Romano Pontífice a su oficio [in linea]. Anuario Argentino de Derecho Canónico, 22. Disponibile in:
http://bibliotecadigital.uca.edu.ar/repositorio/revistas/renuncia-romano-pontifice-oficio-capello.pdf [Data di consultazione: 23 novembre 2024])
[4] Boni – Ganarin, “Ancora sulla pretesa invalidità…”, p. 3.
[5] Boni – Ganarin, “Ancora sulla pretesa invalidità…”, p. 3.
[6] “No vale una renuncia del papa bajo condición, por ejemplo hecha en favor a otro o reservándose algunas competencias por el que dimite” (MAJER, «Renuncia del Romano Pontifice», in A. Viana, J. Otaduy, J. Sedano (a cura di), Diccionario general de derecho canónico, vol. vi, Aranzadi; Universidad de Navarra, Cizur Menor, Pamplona 2012, 932).
[7] Fernando Puig, «Atti di Benedetto XVI» in Ius ecclesiae XXV (2013), p. 806.
[8] «Per se nihil prohibet quominus resignatio fieri queat etiam conditionate. Etenim ias divinum et naturale id minime vetant. Attamen plura incommoda ex resignatione conditionata facile oriri possent; quapropter bonum Ecclesiae omnino exigit ut Pontifex conditionate nuncium minime mittat papali dignitati» (De Curia Romana etc., vol. II, De Curia Romana “Sede Vacante”, Romae, 1912, p. 7, Quaest. IV).
[9] Viceversa, l’apposizione di un termine (dies a quo) è del tutto coerente con un documento di carattere meramente dichiarativo (la Declaratio) che, in quanto tale, può ammettere elementi accidentali. Si tratta di una mera manifestazione di un’intenzione proiettata nel futuro che necessitava, quindi, di un atto dispositivo vero e proprio che non c’è mai stato.
[10] Francesco Patruno, «Sulla rinuncia di Benedetto XVI» in Il blog di Aldo Maria Valli, 6 novembre 2024.
[11] Francesco Patruno, ibidem.
[12] Geraldina Boni, «Il potere del Papa: servizio alla trasmissione della fede», La Nuova Bussola Quotidiana, 6 dicembre 2023.
[13] «Etsi in variis significationibus haec tria vocabula idem declarant, ut termini technici minime confunduntur» (Péter Erdő, «Ministerium, munus et officium in Codice Iuris canonici» in Periodica de re canonica, 78 (1989), Pag. 414).
[14] Ferdinando Puig, «La rinuncia di Benedetto XVI all’ufficio primaziale come atto giuridico», in Ius Ecclesiae, XXV (2013), p. 804.