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Intervista a mons. Schneider di padre Olivera Ravasi

Intervista-Mons-Schneider-Argentina
Pubblichiamo l’intervista del padre Olivera Ravasi a Mons. Athanasius Schneider, cogliendo l’occasione della sua visita in Argentina, nell’ambito del XX Incontro di Formazione Cattolica  organizzato dal Círculo de Formación San Bernardo de Claraval. Non si parla solo di Amoris laetitia. ma dell’ immigrazione, della questione della teoria del ‘genere’ e degli altri errori dottrinali e ideologici nonché della Liturgia e della situazione della Chiesa.
L’intervista è stata originariamente pubblicata da Adelante la Fe, e tradotta in italiano da Chiesa e Postconcilio.

Umile, sereno e gioioso, Mons. Schneider ci riceve durante una visita di appena tre o quattro giorni a Buenos Aires. Ci offre il suo prezioso tempo e, come tutte le grandi anime, non ha fretta alcuna.

P. Javier Olivera Ravasi: C’è qualche tema di cui vuole evitare di parlare? – gli chiedo prima di cominciare l’intervista.

Mons. Schneider: “Non vi è niente di occulto che non sarà rivelato”; mi chieda ciò che desidera – risponde in buon italiano.

P. Javier Olivera Ravasi: Bene – rispondo –, ma prima una domanda un po’ scomoda: Lei è vescovo ausiliare di Astana, in Kazakhstan… “ma non fa altro che viaggiare”, si mormora… 

Mons. Schneider: È vero: ma è proprio quel che mi ha chiesto il mio arcivescovo, Mons. Tomasz Peta, da cui dipendo. Quel che succede è che – specialmente in quest’epoca di confusione – è importante che noi vescovi parliamo, soprattutto visto che la diocesi di cui sono ausiliare è così piccola ed è così ben accudita (appena lo 0,5 % della sua diocesi si dichiara cattolico).

P. Javier Olivera Ravasi: Bene, allora cominciamo. Lei viene da un Paese in cui risiede una gran quantità di popolazione musulmana. Quali crede che siano i criteri per l’accettazione di immigrati non cristiani in un continente come quello europeo? 

Mons. Schneider: Il primo elemento che dobbiamo prendere in considerazione è il fenomeno della cosiddetta “immigrazione” (che in realtà è un’immigrazione inventata), poiché i fatti dimostrano che i cosiddetti immigrati sono il prodotto di una politica orchestrata dai grandi poteri mondiali, un’immigrazione artificiale architettata per trasportare una gran quantità di persone, soprattutto di musulmani, nei paesi cristiani d’Europa.

A quanti fanno ancora uso della loro intelligenza e osservano questo fenomeno con realismo risulta evidente che si tratta di un atto politico regionale e mondiale architettato dai grandi poteri mondiali per scristianizzare l’Europa in una fase successiva. Si cerca di mischiare i popoli tra loro affinché l’Europa perda la sua identità, che non è altro che l’identità cristiana. Questa guerra in Medio Oriente, per esempio, è stata scatenata dal cosiddetto Stato Islamico, finanziato e appoggiato dagli USA e dall’Unione Europea tramite certi Paesi arabi. Una volta creato questo fenomeno migratorio la cosa più naturale sarebbe stata che questi immigrati venissero accolti dai Paesi musulmani vicini, che sono ricchi: l’Arabia Saudita e altri, per esempio. Ciò sarebbe quanto di più logico e umano, perché da un punto di vista morale, in ogni processo migratorio, si deve evitare di allontanare le persone dal loro ambiente naturale, dalla loro mentalità, dalla loro storia, etc., e questo è un grave errore in cui i politici stanno cadendo, evidentemente seguendo un programma.

Sicuramente tra questi immigrati ci saranno anche persone innocenti che soffrono e sono utilizzate come strumento, ma la maggior parte di essi è composta da giovani uomini che hanno abbandonato le loro famiglie. Ora, che razza di rifugiato fugge dal suo Paese lasciando sua moglie e i suoi figli? Nessun uomo lo farebbe. L’uomo deve rimanere dove si trova la sua famiglia per difenderla. Questa è un’ulteriore prova del fatto che la cosiddetta “immigrazione” è un atto politico programmato.

P. Javier Olivera Ravasi: Ci troviamo di fronte al centenario delle apparizioni della Vergine di Fátima. Nostra Signora disse all’epoca che se la Russia, con tutti i suoi errori dottrinali, ideologici, etc., non si fosse convertita, li avrebbe disseminati per tutto il mondo: Lei crede che l’ideologia di genere, avallata dal marxismo culturale e persino dall’ala progressista della Chiesa, sia una conseguenza di quanto la Vergine profetizzò nel 1917?

Mons. Schneider: Come sappiamo, la Vergine ha affermato che la Russia avrebbe diffuso i suoi errori in tutto il mondo e che tra i primi errori vi era il tentativo di rendere atea la società. È un fatto unico nella storia dell’umanità. Nella storia non sono mai esistiti un popolo o una cultura atei, nemmeno in quelli più primitivi.

Il secondo errore – dopo quello di voler fondare una società senza religione, atea – è il materialismo, vale a dire il ritenere che tutta la vita della società si riduca all’elemento temporale. Si tratta di un’esclusione radicale della trascendenza, del sovrannaturale.

Il terzo errore che l’Unione Sovietica ha introdotto è stato l’aborto. Come sappiamo, l’URSS è stato il primo Paese al mondo a imporre, nel 1920, l’aborto, ossia la distruzione della vita.

Questi errori si sono diffusi anche nei Paesi di tradizione cristiana: l’aborto, il materialismo radicale, l’esclusione della trascendenza, l’immersione in un mondo meramente materiale e, come Lei ha detto, il marxismo culturale, che è stato forgiato in Europa all’epoca della Guerra Fredda; anche qui in America Latina, la teologia della liberazione è stata una creazione e un errore dell’URSS, che si è diffuso qui con conseguenze disastrose che hanno implicato la distruzione di una vita spirituale realmente cattolica nei Paesi latinoamericani.

Lo stesso vale per la cosiddetta “teoria del genere”, che è l’ultima conseguenza del marxismo culturale.

Gli errori della Russia, del comunismo, del marxismo, sono entrati in modo sempre più evidente e con forza sempre maggiore anche nella vita della Chiesa. A partire dal Concilio Vaticano II, e soprattutto dopo di esso, mano a mano che diminuiva l’aspetto soprannaturale della vita della Chiesa e che si diffondevano i concetti di avvicinamento e di pastorale, si è arrivati in fondo a una concentrazione sugli aspetti puramente temporali e materiali. Oggi osserviamo quasi il culmine e una gran diffusione di questo atteggiamento naturalista e materialista nella pastorale e nelle attività della Chiesa, nella cui vita sono penetrati.

P. Javier Olivera Ravasi: Alcune settimane fa è stato pubblicato il Motu proprio “Magnum Principium”, che concede alle Conferenze episcopali nazionali la facoltà di realizzare le traduzioni dei libri liturgici nelle lingue vernacolari. Nel caso in cui le traduzioni non fossero ben fatte, questa concessione non potrebbe minare l’unità della Chiesa? Quale crede che possa essere la soluzione al caos che si è creato dopo l’ultima riforma liturgica? 

Mons. Schneider: Lei ha parlato giustamente di caos liturgico. È ormai da più di cinquant’anni che viviamo in un’epoca di anarchia liturgica della Chiesa. Ciò contraddice proprio l’unità della Chiesa, la quale non deve osservare solo l’unità nella Fede – obbedendo alla lex credendi – ma anche l’unità nella lex orandi, nella liturgia. È vero che esistono – come sono sempre esistiti nella Chiesa – vari riti liturgici: ciò è bello e fa parte della ricchezza della Chiesa, ma il pericolo di fronte al quale ci troviamo oggi e che già abbiamo sperimentato è che le traduzioni nelle lingue vernacolari, in alcune aree linguistiche, hanno provocato danni che hanno toccato anche la Fede. Per esempio, in alcuni Paesi le traduzioni erano così erronee che Papa Giovanni Paolo II dovette intervenire pubblicando il documento Liturgiam authenticam [vedi, nel blog], nel quale la Santa Sede precisava con estrema chiarezza come si devono tradurre certi concetti teologico-dogmatici nella liturgia. Poiché nella liturgia proclamiamo la nostra Fede con formule dogmatiche. In questo senso, la traduzione inglese del Messale romano – realizzata qualche anno fa –   rappresenta un gran lavoro, effettuato seguendo le indicazioni di Papa Giovanni Paolo II, e un eccellente esempio di traduzione fedele. Ma adesso, secondo me, questo nuovo documento sembra essere un passo indietro, di nuovo verso la confusione, il che rappresenta un pericolo reale contro l’unità negli elementi che abbiamo nella liturgia, nel momento in cui ogni Conferenza episcopale deciderà come tradurre i suoi libri, specialmente per quanto riguarda le espressioni dogmatiche.

Penso che la Santa Sede dovrebbe piuttosto essere più vigile e dare alle Conferenze episcopali norme concrete come nel caso della Liturgiam authenticam di Giovanni Paolo II. Pertanto, dal mio punto di vista non vedo alcuna necessità di promulgare questo nuovo documento, perché quello di Giovanni Paolo II era sufficiente.

P. Javier Olivera Ravasi: Il Sinodo per la famiglia ha generato difficoltà e divisioni tra gli stessi vescovi partecipanti. D’altra parte l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia, con l’interpretazione dello stesso Papa Francesco (secondo la Lettera inviata ai vescovi di Buenos Aires) sembrerebbe rappresentare un cambiamento nella dottrina della Chiesa per quanto riguarda l’accesso alla comunione delle persone e che si trovano in una situazione oggettiva di peccato. Alcuni cardinali hanno presentato dei dubbi (dubia) al Papa su questo tema; vari teologi, vescovi ed eminenti studiosi hanno persino realizzato una correzione filiale (Correctio filialis). A molti laici costa credere che la Chiesa stia operando cambiamenti in modo così brusco e allo stesso tempo si chiedono se sia lecito e legittimo che un vescovo, un cardinale o un semplice laico chieda ragioni o corregga addirittura il Santo Padre su questi temi. Qual è la Sua opinione in proposito? [Non dimentichiamo che mons.Schneider è stato il primo a intervenire autorevolmente e pubblicamente: quiqui – qui]

Mons. Schneider: La prima cosa da dire è che è evidente e innegabile che il documento Amoris laetitia abbia causato una gran confusione. Difatti, alcune Conferenze episcopali permettono l’accesso alla comunione ai divorziati non pentiti, vale a dire che vogliono continuare a vivere in stato di adulterio. Perché di adulterio si tratta! Dobbiamo chiamare le cose col loro nome. Altre Conferenze non lo permettono. Alcuni vescovi diocesani lo fanno e altri no. Ci troviamo quindi di fronte a un’evidente contraddizione diametrale, frontale, tra una Conferenza episcopale e l’altra, tra un vescovo e l’altro, e questa non è la Chiesa cattolica, perché su questi temi, che si riferiscono alla sacralità e all’indissolubilità del matrimonio, la Chiesa deve parlare con una sola voce e agire in coerenza con la Fede. Se si crede nel dogma divino dell’indissolubilità del matrimonio, la Chiesa deve agire in conformità e in coerenza con questa Fede; tutto ciò che va in direzione contraria va contro lo stesso spirito del Vangelo.

Non è mai stato un atteggiamento proprio della Chiesa quello di affermare una cosa e farne un’altra, come sta succedendo oggi in modo evidente; non possiamo continuare in questo modo, perché la pastorale – la disciplina in questo caso – tocca le cose più sante della Chiesa, a partire dall’Eucarestia, ovviamente, e dal sacramento, dalla sacralità e dall’indissolubilità del matrimonio. Così, con queste norme già introdotte come applicazione dell’Amoris laetitia, con un linguaggio a volte sofistico, si permette di fatto di vivere in stato di adulterio e si riconosce, non in teoria ma di fatto, il divorzio. Ciò costituisce un pericolo e un grave danno e di fronte a ciò nessun vescovo che sia ancora cosciente della sua responsabilità non solo nei confronti della sua diocesi bensì di tutta la Chiesa (perché come dice il Vaticano II la formula di consacrazione ordina i vescovi non solo per la loro diocesi) deve smettere di vigilare per il bene di tutta la Chiesa, come membro del Collegio Episcopale. Anche gli stessi fedeli, che sono membri della Chiesa, come membri di uno stesso Corpo, come in una famiglia (perché vescovi, papi, la gerarchia e i fedeli fanno parte di una sola famiglia), se osservano cose pericolose o danni sostanziali alla vita di tale famiglia o di tale Corpo, devono dirlo, esteriorizzarlo e sono autorizzati anche a chiedere ragioni: è una cosa assolutamente legittima e anche conforme allo spirito del Concilio Vaticano II, il quale ha incoraggiato i vescovi a operare insieme al papa, ispirati da uno spirito collegiale. Ma questa non è collegialità: se i vescovi vedono che si è di fronte a un pericolo e che alcune espressioni dell’Amoris laetitiae sono obiettivamente ambigue e sono state causa di interpretazioni e applicazioni contrarie alla Fede, in conformità con lo stesso principio di collegialità devono alzare la voce e dirlo al Santo Padre. Questo per quanto riguarda i dubia.

Ma lo stesso vale per ciò che hanno fatto i laici. Se i figli adulti di una famiglia vedono un rischio per quest’ultima mentre il loro stesso padre non lo vede, devono indicare con reverenza e rispetto quello che è un pericolo per tutti. Pertanto, espressioni come i dubia o la Correctio filialis­ devono essere formulate sempre con rispetto per l’officio del Papa, che è il capo visibile della Chiesa: in entrambi i casi questo rispetto c’è stato e pertanto questi atti non solo sono legittimi ma, a mio modo di vedere, meritevoli e lodevoli. Gli storici della Chiesa dopo di noi applaudiranno sicuramente quest’azione dei laici. Dirò di più: secondo me i fedeli hanno agito in conformità con lo spirito del Concilio Vaticano II che li incoraggia a partecipare attivamente, col loro contributo, alla vita della Chiesa; e questo è un bell’esempio di come si stia applicando lo spirito del Concilio Vaticano II a proposito della coscienza dei laici: anche questi ultimi hanno una certa responsabilità per il bene della Chiesa.

P. Javier Olivera Ravasi: Il cardinal Ratzinger, nell’anno 2005, prima della sua elezione al pontificato come Benedetto XVI, affermò che la Chiesa sembrava una barca che faceva “acqua da tutte le parti”. Da parte sua Papa Francesco appena eletto disse che il suo pontificato non sarebbe stato molto lungo. Con una divisione così forte come quella che sembra esistere oggi nella sfera gerarchica della Chiesa, cosa ci si può aspettare che accada a quest’ultima nei prossimi anni? 

Mons. Schneider: Una cosa è certa: la Chiesa si trova sempre nelle mani sicure di Cristo, Che è il vero capo, il vero capitano di questa nave in cui è già entrata tanta acqua, non il papa. Il papa è un capitano vicario, vicarius Christi, ma il vero capitano, il capitano ufficiale e autentico di questo esercito, di questa nave, è Nostro Signore Gesù Cristo, il Quale accudirà e difenderà sempre la sua Chiesa. E Cristo permette a volte – come in effetti ha già fatto in altre occasioni – che si verifichino gravi crisi nella Chiesa, gravi pericoli, per poi intervenire: così si incaricherà anche del nostro tempo in balìa a questa gran confusione e oscurità. Ciò è sicuro. Inoltre, la Vergine, nostra Madre del Cielo, è la Madre della Chiesa e se ne preoccupa.

Questa è la prima cosa.

L’altra cosa è che, nei momenti più difficili e confusi della Chiesa, bisogna cercare di avere una visione sovrannaturale. Perché la Chiesa è una realtà sovrannaturale.

Dobbiamo mantenerci sempre saldi e forti nella Fede immutabile della Chiesa. E questa Fede la conosciamo: è la Fede e la pratica immutabile della Chiesa (in questo caso specifico, per esempio, per quanto riguarda i divorziati). E sappiamo di essere sicuri nella Fede, leggendo i testi dei papi, dei concili, etc., che sono stati ispirati sempre dallo stesso spirito. Prima non esisteva una rottura nella pratica sostanziale della Chiesa a proposito dei sacramenti. E tutto ciò è stato sintetizzato nel Catechismo, tanto in quelli anteriori al Concilio Vaticano II come in quello ad esso posteriore, per quanto riguarda queste cose più sostanziali. Tutte queste cose le sappiamo e dobbiamo attenerci ad esse; se a un dato momento sacerdoti, vescovi o cardinali contraddicono queste cose che la Chiesa ha sempre insegnato e praticato, non dobbiamo ascoltarli. Dobbiamo ascoltare la voce della Chiesa, perché la Chiesa non è il papa.

Infatti, il papa non può dire: “Io sono la Chiesa”, come il re di Francia Luigi XIV che disse: “L’état c’est moi”, “lo Stato sono io”. Anche il papa è un membro della Chiesa; anche se ne è il capo visibile, ne è un membro, ed è il primo a dover rispettare le dottrine trasmesse fino al suo papato. Il suo obbligo è quello di essere un amministratore fedele, non un inventore di novità. Questo è l’officio suo e di tutti i vescovi: amministratori fedeli, come disse Nostro Signore nel Vangelo: “Chi è l’amministratore fedele?” (Lc 12,41). I vescovi, il Papa e, in modo subordinato, i sacerdoti.

Se in un certo momento, disgraziatamente, rappresentanti della gerarchia contraddicono ciò che la Chiesa ha sempre affermato e applicato in modo costante, noi, come sacerdoti, vescovi o laici, dobbiamo dire con rispetto e riverenza: “Eminenza o Eccellenza, questa cosa che Lei sta dicendo o facendo contraddice la voce della Chiesa di sempre”.

E questo è il peso maggiore: la voce e la pratica della Chiesa nel corso di duemila anni hanno più peso di una voce nuova, improvvisa e di rottura, o di una pratica effimera come tante di quelle che possiamo osservare oggi. Dobbiamo quindi dire con estrema umiltà e assoluta sicurezza interiore: “So a Chi ho creduto”, “Scio cui credidi” (2 Tim 1,12); ciò dà pace interiore e fermezza in mezzo alla confusione.

Come ultima cosa – anche se in quanto a valore è la prima – voglio aggiungere che in questi tempi di crisi dobbiamo cercare il nostro rifugio nella preghiera e nel sacrificio. Questa è la nostra forza più grande. La Chiesa si rinnova, in fondo, con la preghiera e i sacrifici di tanti suoi membri, specialmente di quelli più piccoli. Ciò è quel che succede oggi e che ci consola: che la Provvidenza divina usa, in mezzo a questa confusione, i piccoli, le anime vittime e sacrificate che rinnovano la Chiesa per mezzo dell’opera dello Spirito Santo.

Per questo dobbiamo aver fiducia nel futuro della Chiesa.

 

* Intervista realizzata dal P. Javier Olivera Ravasi per Que no te la cuenten

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