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Il miracolo eucaristico di Moncada – la validità dei sacramenti durante il Grande Scisma d’Occidente

Miracolo_Moncada



Il miracolo eucaristico di Moncada – la validità dei sacramenti durante il Grande Scisma d’Occidente

RACCONTO DEL MIRACOLO[1]

Il 25 giugno del 1388, don Guillermo de Pedrós e donna Ángela de Alpicant, appartenenti a una famiglia di antichissimo lignaggio e di grande prestigio, ebbero la loro primogenita, Inés. Fin dalla più tenera età, la piccola Inés si mostrò diversa dagli altri bambini.

Il giorno di Natale del 1392, quando Inés non aveva ancora 5 anni, si recò con sua madre in chiesa, dove si celebrava la Messa dell’Alba. La bambina stava ascoltando attentamente le parole del sacerdote quando, all’improvviso, rimase attonita e, indicando con il dito verso l’altare, disse alla madre:

— Guarda, mamma…!

Sua madre la zittì, ma la bambina insistette:

— Mamma! Guarda quel bambino!

— Quale bambino, figlia? Di cosa parli?

— Il bambino di donna Febrera!

— Taci Inés, taci, te lo comando!

Alla fine della Messa, Inés non smetteva di piangere. Le tremavano le mani e aveva un aspetto febbricitante. Per calmarla, la madre decise di portarla a vedere il figlio di donna Febrera, una vicina della via Mayòr. Quando vide il piccolo, Inés affermò che lo stesso volto si era manifestato nelle mani di Mosén Jaime, nella particola da lui utilizzata durante la celebrazione.

Inés rivide il “bambino di donna Febrera” anche nelle altre due messe che si celebrarono quel giorno. […]. Mosén Jaime si rese conto che stava accadendo qualcosa di straordinario e meraviglioso. Qualche ora dopo la terza messa e la terza visione di Inés, il rettore varcò il portone della casa degli Alpicant. Fece sedere Inés sulle sue ginocchia e le chiese:

— Dimmi, piccola, cosa hai visto?

La bambina raccontò, con gioia tutto ciò che era avvenuto durante le celebrazioni. Spiegò che il bambino che aveva visto non era il figlio della vicina, poiché quello che lei aveva visto era “più bello, più bianco”. Raccontò ai presenti, con linguaggio infantile, che quel bambino sprigionava bagliori sull’altare. Il terzo giorno di Natale, il “bambino” si manifestò nuovamente davanti a Inés. Il nome della bambina si diffuse di bocca in bocca in tutta Moncada, e una folla di curiosi accorse alla casa degli Alpicant per ascoltare i dettagli narrati dalla piccola.

Mosén Jaime era certo che quella creatura non poteva mentire, e solo lui sembrava in grado di comprendere perché Dio si degnasse di manifestarsi in quel modo. Decise dunque di incontrare i genitori di Inés e li convocò il giorno seguente, dopo la Santa Messa, alla presenza di una trentina di fedeli, di altri sacerdoti e di membri della famiglia Alpicant.

Il parroco aveva consacrato due ostie. Nella mano destra teneva l’unica particola consacrata che gli rimaneva, che mostrò ai fedeli; nella sinistra una particola identica, ma non consacrata – cosa che solo lui sapeva. Si avvicinò a Inés e le mostrò entrambe.

— Dimmi, Inés. Vedi il bambino?

— Sì, è lì!

Inés indicò la mano destra. Il padre Jaime invertì le ostie tra le mani e gliele mostrò di nuovo. Inés indicò di nuovo quella realmente consacrata, che ora era nella mano sinistra. P. Jaime voleva ulteriori prove. Spezzò l’ostia consacrata e la mostrò ancora a Inés, che affermò di vedere ora due bambini.

— Benedetto sia il Signore! esclamò il sacerdote in lacrime.

Inés visse fino ai 19 anni una vita intensa e mistica, con una vocazione chiara: consacrarsi al Signore ed entrare in convento. Voleva essere sposa di Cristo, ma suo padre aveva altri progetti per lei. La giovane Inés era in età da marito, e poiché gli Alpicant non avevano figli maschi a cui lasciare l’eredità, decisero di darla in sposa al miglior pretendente, un giovane della via Mayòr, anch’egli di buona famiglia. Ma Inés aveva già deciso cosa fare della sua vita: aveva consacrato il suo futuro davanti a S. Vincenzo Ferrer, all’epoca notissimo predicatore domenicano.

Inés confessò le sue intenzioni alla madre. Donna Ángela rispose solo con lacrime e un grande abbraccio, ma il padre interruppe la scena, rimproverando Inés con voce autoritaria e definendo la sua decisione una “follia”.

Il giorno seguente, rimasta sola nella casa di famiglia, Inés fuggì, non senza prima tagliarsi i capelli e cambiarsi d’abito per sembrare un uomo. Si diresse alla Certosa di Porta-Celi, abitata da monaci. Dopo tre giorni di cammino, giunse finalmente a destinazione. Il suo aspetto la fece passare per un giovane bisognoso, e i certosini l’accolsero senza sospetti. Ma dopo la prima notte trascorsa senza rivelare la propria identità, Inés sentì l’urgenza di confidarsi e chiese di potersi confessare dal coadiutore.

Il confessore le spiegò che era impossibile che potesse abitare con loro, ma le offrì una soluzione: affidarle la custodia del gregge, a condizione che vivesse in una grotta nella montagna. Da quel momento, per quattro anni, Inés fu la pastorella che, oltre ad accudire le pecore, pregava in segreto, sottoponendo il corpo a durissime penitenze, offerte per la redenzione delle anime perdute. Non valsero a nulla le ammonizioni del coadiutore, preoccupato per il suo aspetto pallido e gli occhi infossati.

La notte del 25 giugno 1428, giorno del compleanno di Inés, una luce illuminò la montagna, rischiarò la grotta. I monaci, spinti dalla pressione dei popolani impauriti che attribuivano l’evento a un fenomeno soprannaturale, salirono fino a quel luogo quasi inaccessibile. Si racconta che, già vicini al roccioso pendio, furono avvolti da un profumo fresco, più intenso delle fragranze di pino, mirto e timo. Poco dopo, ai piedi di una rozza croce, trovarono il corpo, accasciato e privo di vita, della ragazza di Moncada, irradiato da un alone di luce abbagliante.

Il suo confessore, con voce rotta dall’emozione, rivelò allora il segreto del falso pastorello. In quell’istante, il campanile della Certosa cominciò a suonare a festa per mano invisibile. Il rintocco fu così intenso che, la mattina successiva, quando si celebrò il funerale sotto l’altare della primitiva cappella gotica del monastero, la campana ammutolì, spezzata in mille frammenti.

Ancora oggi, il pellegrinaggio alla Grotta della Venerabile Inés è percorso da una moltitudine di fedeli e curiosi, desiderosi di conoscere il luogo in cui visse questa grande donna di Moncada.

IL CONTESTO ECCLESIALE, IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE (1378-1417)

Per comprendere appieno la situazione della cristianità nel 1388, è indispensabile analizzare gli eventi che, dieci anni prima, avevano spaccato la Chiesa cattolica in due, e poi tre, obbedienze papali.

1. IL PRELUDIO: LA “CATTIVITÀ AVIGNONESE” E IL RITORNO A ROMA (1309-1377)

Per quasi settant’anni, dal 1309 al 1377, la sede papale era stata trasferita da Roma ad Avignone, in Francia. Questo periodo, definito dal Petrarca la “cattività avignonese”, vide una successione di sette papi francesi, fortemente influenzati dalla monarchia di Francia. Questa situazione causò un profondo malcontento in gran parte della cristianità, specialmente in Italia e nell’Impero Germanico, poiché Roma era vista come la sede naturale e apostolica del successore di Pietro.

Sotto la spinta di figure carismatiche come Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, e a causa della situazione politica sempre più instabile ad Avignone, Papa Gregorio XI prese la storica decisione di riportare definitivamente la Curia a Roma nel 1377. La sua morte, avvenuta poco dopo, il 27 marzo 1378, aprì uno scenario carico di tensioni.

2. IL CONCLAVE DEL 1378: L’ELEZIONE CONTESA

Il conclave che si aprì a Roma nell’aprile del 1378 fu uno dei più turbolenti della storia. La popolazione romana, esasperata da decenni di assenza papale e dal timore che venisse eletto un altro papa francese che avrebbe riportato la sede ad Avignone, esercitò una fortissima pressione sui cardinali. La folla assediò il Vaticano al grido di: «Romano lo volemo, o al manco italiano!» (Lo vogliamo romano, o almeno italiano!).

Dei sedici cardinali presenti, undici erano francesi, quattro italiani e uno spagnolo (il celebre Pedro de Luna, futuro antipapa Benedetto XIII). Nonostante la maggioranza francese, le divisioni interne a questo gruppo (tra limosini e non-limosini) impedirono l’elezione di un loro candidato. Sotto la minaccia della folla inferocita, i cardinali optarono per una figura di compromesso: l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, un napoletano, quindi italiano, ma non romano. Egli non era cardinale, ma era un esperto amministratore della Curia, noto per la sua integrità e austerità. L’8 aprile 1378, fu eletto e prese il nome di Urbano VI.

Inizialmente, tutti i cardinali riconobbero la sua elezione, gli prestarono obbedienza e parteciparono alla sua incoronazione. Le cancellerie di tutta Europa furono informate e accettarono il nuovo pontefice.

3. LA ROTTURA: IL CARATTERE DI URBANO VI E LA REAZIONE DEI CARDINALI

La situazione precipitò rapidamente. Urbano VI si rivelò un papa autoritario, collerico e privo di tatto diplomatico. Iniziò un programma di riforme ecclesiastiche con modi bruschi e violenti, attaccando pubblicamente i cardinali per il loro lusso, la loro condotta morale e la simonia. Li umiliò, minacciò di creare un gran numero di nuovi cardinali italiani per spezzare l’influenza francese e si rifiutò di considerare un ritorno ad Avignone.

Sentendosi minacciati nel loro potere e persino nella loro incolumità fisica, i cardinali francesi iniziarono a dubitare della validità della sua elezione. Lasciarono Roma e si riunirono prima ad Anagni e poi a Fondi, nel Regno di Napoli, sotto la protezione della regina Giovanna I. Qui, il 2 agosto 1378, pubblicarono una dichiarazione in cui affermavano che l’elezione di Urbano VI era stata invalida perché estorta dalla violenza e dalla paura (metus) della folla romana. Pertanto, la sede papale era da considerarsi vacante.

4. L’ALEZIONE DELL’ANTIPAPA: LA NASCITA DELLO SCISMA

Ignorando le scomuniche di Urbano VI, il 20 settembre 1378, i cardinali dissidenti riuniti a Fondi elessero un nuovo papa: il Cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. La sua scelta non fu casuale. Roberto era cugino del re di Francia Carlo V e aveva guidato le truppe pontificie in Italia, guadagnandosi la sinistra fama di “boia di Cesena” per un massacro di civili avvenuto l’anno precedente. Era un uomo d’azione, un politico e un militare, gradito alla corona francese.

Con due papi eletti dallo stesso collegio cardinalizio a pochi mesi di distanza, la cristianità si spaccò. Lo scisma non fu un’eresia (entrambe le parti condividevano la stessa fede), ma una crisi istituzionale e di autorità senza precedenti.

LA DIVISIONE DELL’EUROPA NEL 1392

Nel Natale del 1392, anno del miracolo di Moncada, lo scisma era ormai una realtà consolidata da dieci anni. L’Europa era divisa in due “obbedienze”:

Obbedienza Romana (Urbano VI):

  1. Il Sacro Romano Impero
  2. L’Inghilterra (nemica della Francia nella Guerra dei Cent’anni)
  • L’Ungheria e la Polonia
  1. La Scandinavia
  2. Gran parte degli Stati italiani (tra cui Firenze, Milano e Venezia)

Obbedienza Avignonese (Clemente VII):

  1. La Francia
  2. La Scozia (alleata della Francia)
  • I regni della penisola iberica: Castiglia, Aragona e Navarra.
  1. Il Regno di Napoli (dopo la deposizione della regina Giovanna I, sostenitrice di Clemente)
  2. Il Ducato di Savoia

Questa divisione era prettamente politica. I sovrani sceglievano quale papa appoggiare in base ai propri interessi e alleanze, trascinando con sé i loro popoli e il clero locale.

Successivamente, con il Concilio di Pisa del 1409, i cardinali di entrambe le obbedienze dichiararono decaduti i due papi in carica — Gregorio XII a Roma e Benedetto XIII ad Avignone — ed elessero un terzo papa: Alessandro V, cui successe Giovanni XXIII (antipapa). Invece di risolvere la crisi, il concilio aggravò lo scisma: tre papi rivendicavano contemporaneamente la legittimità. La fine dello scisma si avrà solo con il Concilio di Costanza (1414–1418).

Ma fermiamoci, per ora, alla situazione nel 1392, anno del miracolo di Moncada.

UNA CHIESA LACERATA, LA POSIZIONE DEI SANTI DEL TEMPO

Il dilemma provocato dallo scisma coinvolse anche grandi personalità religiose, quali i santi Caterina da Siena, schierata dalla parte del papa legittimo, e Vincenzo Ferrer, sostenitore dell’antipapa.

Riporto dal testo Antipapi, di Mons. Antonio Galli (1908-2013), alcune citazioni che rendono conto della situazione ecclesiale dell’epoca:

«… San Vincenzo Ferrer che nel periodo in cui propugnò la legittimità della sede avignonese compose il trattato De moderno schismate Ecclesiae. Anche Bernardo di Agramunt, spinto da Pedro de Luna, usò la penna in favore della Sede d’Avignone. Come accade nei periodi di maggiore sconcerto, la situazione paradossale creatasi col duplice pontificato diede l’avvio a previsioni catastrofiche, quasi fosse prossima una soluzione escatologica. Di qui il fiorire di una letteratura che adescò anche menti acute ed equilibrate. Fin dal 1390 uno scrittore inglese riteneva che il papa fosse l’Anticristo descritto nell’Apocalisse. Il beato Giovanni dalle Celle, nelle sue lettere, si manifesta convinto dell’imminenza della Parusia»

Questa citazione ci mostra almeno due cose.

La storia si ripete, anche se mai allo stesso modo: allora come oggi, i momenti di maggiore divisione e confusione nella Chiesa diventano terreno fertile per la proliferazione di letteratura escatologica, predicazioni catastrofistiche e visioni apocalittiche.

Un santo domenicano, Vincenzo Ferrer (1350-1419), aderì all’obbedienza avignonese, che era illegittima. Per «adesione», qui s’intende una vera e propria militanza in favore dell’obbedienza scismatica.

Leggiamo come Mons. Antonio Galli sintetizza l’esperienza del santo:

«Vincenzo Ferrer (1350-1419), spagnolo, seguì l’obbedienza avignonese dal sorgere dello scisma (1378) fino all’anno 1399. Varie ragioni lo indussero ad assumere in buona fede questo atteggiamento. Appartenendo ai domenicani, egli si uniformò alla decisione presa dal generale dell’Ordine, frate Elia Raimondo. Subì anche l’influsso di uno dei più insigni domenicani aragonesi del tempo, Nicola Eymerich, che, trovandosi a Roma durante il conclave del 1378, si convinse dell’irregolare elezione di Urbano VI. Ma chi gli diede la spinta decisiva fu don Pedro de Luna, essendo il santo confessore di una sua parente. […] Alla morte di Clemente VII, Benedetto XIII lo costituì cappellano domestico, suo confessore, penitenziere apostolico, maestro del sacro Palazzo. Il santo si distaccò da Benedetto in seguito ad una visione in cui, oltre alla pacificazione della Chiesa, gli fu predetta prossima la fine del mondo! Senza rompere del tutto i rapporti con la Sede Apostolica avignonese, Vincenzo si dedicò ad un intenso apostolato che lo portò in quasi tutti i Paesi d’Europa. Con lo stesso impegno con cui aveva sostenuto il clementismo si applicò in seguito alla riunificazione della Chiesa. Non gli riuscì tuttavia di convincere Benedetto ad abdicare, nonostante il memorabile discorso che pronunciò, il 7 novembre 1415, a Perpignano alla presenza dello stesso Benedetto e di cardinali, principi, ambasciatori e di migliaia di persone sul tema “Ossa arida, audite verbum Dei”»[2].

In questo contesto così complesso, capace di confondere anche un santo domenicano il caso del miracolo eucaristico di Moncada si presenta come un evento emblematico che getta luce sulla delicata questione della validità dei sacramenti amministrati in una Chiesa lacerata da divisioni istituzionali.

L’IMPORTANZA TEOLOGICA DEL MIRACOLO NEL SUO CONTESTO STORICO

Il parroco del villaggio di Moncada, Mosén Jaime, ordinato da un vescovo nominato da Clemente VII (antipapa), era assalito dal dubbio che, qualora l’obbedienza avignonese si fosse rivelata illegittima, tutti i sacramenti da lui amministrati, a cominciare dall’Eucaristia, potessero essere invalidi. Tale dubbio, oltre a essere teologicamente mal fondato, testimonia l’incertezza e il disagio ecclesiale vissuti da molti ministri in quell’epoca.

Il miracolo di Moncada è la conferma soprannaturale della validità della consacrazione eucaristica, a dispetto delle incertezze umane circa l’autorità del vescovo consacrante e dell’obbedienza pontificia.

Tuttavia, dal punto di vista teologico, il miracolo non fonda una verità nuova: esso ratifica visibilmente ciò che la dottrina scolastica già affermava con chiarezza. San Tommaso d’Aquino – dovremmo ormai saperlo a memoria – insegna che anche gli eretici, gli scismatici o gli scomunicati conservano la potestas ordinis, se sono stati validamente ordinati. La potestà di consacrare, essendo connessa al carattere sacramentale dell’Ordine, è indelebile e non si perde per scisma o peccato personale.

A rafforzare questa visione interviene anche sant’Antonino Pierozzi[3] (1389-1459), arcivescovo di Firenze nel XV secolo, che – riflettendo proprio sulle complicazioni dello Scisma – afferma:

«Senza dubbio si deve credere che esiste una sola Chiesa e un solo vicario di Cristo. Tuttavia, in caso di scisma, qualora vengano eletti più papi, non è necessario alla salvezza sapere quale sia il vero pontefice. È in genere sufficiente essere disposti a obbedire a colui che sia stato eletto canonicamente. Il laico non è tenuto a conoscere il diritto canonico: può e deve affidarsi al giudizio dei suoi superiori e prelati. Il cristiano che sbaglia in buona fede è scusato da un’ignoranza praticamente invincibile»[4].

Tutto ciò va compreso non solo da un punto di vista sacramentale ma anche pastorale: durante il Grande Scisma, la preoccupazione principale della Chiesa fu la continuità della vita spirituale e pastorale per i fedeli, nonostante la profonda lacerazione dell’autorità papale.

Il principio di ignoranza invincibile[5] e di coscienza retta vale anche per i ministri ordinati e questo è confermato dal fatto che la Chiesa ha canonizzato vari santi[6] che vissero sotto l’obbedienza avignonese, riconoscendo la loro buona coscienza. Per quanto riguarda i ministri ordinati, sappiamo che la validità dei sacramenti, infatti, è fondata sull’oggettività della potestas ordinis, e non sull’appartenenza alla «giurisdizione canonica» legittima. In tale prospettiva, il miracolo di Moncada va interpretato non solo come condizione di validità della Messa celebrata dal parroco, ma come segno confermativo di una verità dottrinale: la fedeltà di Dio alla realtà sacramentale operata nella Chiesa, anche in tempi di accertata divisione, e la conferma della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia come frutto di una consacrazione valida, anche se esercitata in un’obbedienza scismatica.

Forniamo di seguito una lunga e chiarificante spiegazione del sacerdote e storico della Chiesa Louis Salembier (1849-1913), autore di vari articoli dell’Enciclopedia cattolica del 1913 e del testo Il grande scisma di occidente (1907). Riportiamo generosamente il quarto paragrafo (capitolo IX) intitolato: «Che ne è dell’autorità nella Chiesa?»:

«Nel 1403, il papa d’Avignone si trova in uno stato di semi-prigionia, sorvegliato costantemente e confinato nel proprio palazzo, mentre il suo rivale romano ha appena concluso una pace con il nuovo Re dei Romani, una pace la cui precarietà e ambiguità non sfuggono a nessuno. È il momento più drammatico del Grande Scisma. In tale frangente, il cristiano attento non può non porsi una domanda grave, che tocca da vicino la fede stessa: che ne è, in circostanze tanto critiche e in una rottura così profonda dell’obbedienza ecclesiale, dell’autorità suprema affidata da Cristo alla sua Chiesa? Il papa prigioniero o il pontefice ridotto all’impotenza è forse ancora l’unico depositario dell’autorità ricevuta dal Fondatore divino? E l’altra metà della Chiesa, quella che in realtà non aderisce al vero Papa — noto in quel momento solo a Dio — è forse da considerarsi realmente scismatica, e dunque priva di ogni giurisdizione, compresa quella di assolvere, riservata alla gerarchia legittima? È possibile che tale parte sia giunta perfino a perdere la capacità di conferire validamente l’Ordine sacro e di amministrare validamente i sacramenti?

Non c’è motivo perché la pietà e la fede si allarmino. Dio non ha mai privato del potere delle chiavi — né dei benefici ad esso connessi — una porzione considerevole della sua Chiesa, fuorviata dai propri vescovi per errori di fatto commessi in buona fede. Il papa, chiunque egli sia in simili circostanze, possiede almeno ciò che il diritto canonico definisce titulus coloratus[7], un titolo apparente che, in condizioni di errore generale e praticamente invincibile, è sufficiente per l’amministrazione dei sacramenti e l’esercizio della giurisdizione esteriore. I fedeli si possono sbagliare su chi sia il vero capo visibile della Chiesa, ma ciò non ha conseguenze invalidanti: il loro errore è involontario, e la loro buona fede piena. I sacramenti che ricevono sono validi ed efficaci, poiché amministrati da veri sacerdoti; e l’autorità da loro riconosciuta produce i suoi effetti legali.

La posizione fu chiaramente espressa nel Sinodo nazionale celebrato a Parigi nel febbraio 1395: “Nei grandi scismi del passato era chiaro ed evidente chi fosse l’intruso, per quanto sostenuto da alcuni nobili. Ma oggi, per quanto falsa sia la parte dell’intruso, essa presenta un’apparenza assai verosimile, fondata su diversi documenti e argomenti, ed è sostenuta da un numero di ecclesiastici noti superiore a quello che riconosce l’obbedienza del nostro Santo Padre Benedetto; ed è certo che i due papi eletti all’inizio dello scisma furono entrambi scelti dall’intero Collegio cardinalizio”.

Queste circostanze del tutto particolari furono ben comprese da Sant’Antonino, che era in contatto con un protagonista di primo piano in quegli eventi, il beato cardinale Giovanni Dominici.

— e qui l’autore cita quanto abbiamo già letto di S. Antonino Pierozzi —

Il santo arcivescovo di Firenze scriveva: “Senza dubbio si deve credere che esiste una sola Chiesa e un solo vicario di Cristo. Tuttavia, in caso di scisma, qualora vengano eletti più papi, non è necessario alla salvezza sapere quale sia il vero pontefice. È in genere sufficiente essere disposti a obbedire a colui che sia stato eletto canonicamente. Il laico non è tenuto a conoscere il diritto canonico: può e deve affidarsi al giudizio dei suoi superiori e prelati. Il cristiano che sbaglia in buona fede è scusato da un’ignoranza praticamente invincibile”.

Una simile dottrina è ripresa anche da autorevoli teologi moderni: “Dopo l’elezione valida di un papa, prima della sua morte o della sua rinuncia, ogni nuova elezione è scismatica e nulla. Il nuovo eletto non appartiene alla successione apostolica. È quanto accadde all’inizio di quello che si chiama — non senza imprecisione — ‘Grande Scisma d’Occidente’, che, da un punto di vista teologico, fu solo uno scisma apparente. Se vi fossero due elezioni quasi simultanee, una conforme alle leggi canoniche e l’altra no, il papa eletto secondo legge sarebbe quello legittimo, anche se il suo riconoscimento fosse ritardato da dispute, incertezze e lacerazioni dolorose. L’apostolicità sussiste oggettivamente nel vero papa, anche se tale oggettività non è immediatamente evidente. Sapere di avere ricevuto un’eredità senza sapere in quale cassa sia conservata non cambia la realtà del possesso: così è la successione apostolica”.

Questa posizione riecheggia quella già formulata nel Quattrocento dal grande arcivescovo di Firenze, celebrato come l’“Antonino del consiglio”. La sorgente della santità e dell’autorità legislativa e giudiziaria non si è mai inaridita in alcuna delle due parti della Chiesa. Il vero Papa era presente nella Chiesa, ne rimaneva l’anima vitale e principio di unità. L’autorità non si trasferì né ai vescovi, né alla moltitudine del clero e del laicato, né all’Università di Parigi, né ai principi — francesi o stranieri — talvolta troppo inclini a invadere ambiti sacerdotali, come ammoniva sant’Ambrogio.

La forza santificante della Chiesa non perse nulla della sua efficacia. In quel periodo funesto, carestia e guerra, unite a gravi difficoltà religiose, sconvolgevano l’umanità. La Peste Nera proseguiva in tutta l’Europa la sua corsa devastatrice, minando le fonti stesse della vita naturale. Il mondo, sopraffatto e sconvolto da tante sciagure, sembrava sprofondato nella disperazione. Soltanto la Chiesa rimaneva in piedi, stringendo tra le sue mani il tesoro dei sacramenti che nutrono, fortificano e innalzano, con la consolazione divina e la speranza soprannaturale sulle labbra. Anche in quell’età di disgrazie, come nei tempi benedetti di san Francesco e san Domenico, entrambe le parti della Chiesa diedero frutti di santità, suscitando Santi attraverso i quali essa rifioriva, sanava e istruiva l’umanità»[8].

Per concludere, in un’epoca in cui l’identificazione del papa legittimo era oggettivamente difficile, e in cui molti ministri si interrogavano con angoscia sulla validità dei sacramenti da loro celebrati, il miracolo eucaristico di Moncada appare come un segno celeste di rassicurazione. Ma più ancora, costituisce una rappresentazione visibile di una verità teologica invisibile: i sacramenti, quando sono amministrati con la giusta intenzione da un ministro validamente ordinato, sono efficaci ex opere operato, anche nel contesto di una Chiesa ferita dallo scisma.

Note

[1] Traduzione propria dell’articolo tratto dal sito della Parrocchia di S. Jaime di Moncada (provincia di Valencia)https://parroquia.sanjaimemoncada.es/venerable-ines-moncada/. L’episodio è riportato negli Anales Eclesiásticos di padre Odorico Raynaldi e in altri documenti conservati presso l’archivio comunale di Moncada.

[2] Antonio Galli, Gli Antipapi del Grande Scisma d’Occidente, Sugarco, Milano 2011, p. 42-43.

[3] Sant’Antonino Pierozzi, domenicano, è stato arcivescovo di Firenze e figura eminente del Rinascimento religioso. Entrato giovanissimo nell’Ordine dei Predicatori, si distinse per la sua profonda vita spirituale, il rigore morale e la competenza teologica. Fu nominato arcivescovo di Firenze da papa Eugenio IV nel 1446, nonostante la sua riluttanza, e svolse il suo ministero episcopale con zelo pastorale, attenzione ai poveri e riforma del clero. È noto anche per le sue opere teologiche e morali, in particolare la Summa theologica moralis, una delle prime sintesi sistematiche della teologia morale. Fu canonizzato nel 1523 da papa Adriano VI. È considerato un modello di vescovo riformatore e un precursore della dottrina sociale della Chiesa.

[4] S. Antonino Pierozzi, citato da Louis Salembier, The Great schism of the west, pp. 180-184. Lo stesso passo è citato anche da Antonio Galli, Gli Antipapi del Grande Scisma d’Occidente, cit., p. 42.

[5] L’ignoranza è detta invincibile quando il soggetto, pur impegnandosi con sincerità, non riesce a comprendere l’argomento in questione oppure non è in grado di giungere a una conclusione chiara. Essa può assumere carattere colpevole quando la persona, non conducendo una vita moralmente retta e non cercando sinceramente la verità, finisce per formarsi una coscienza ottusa, incapace di riconoscere il vero. In questo caso, l’ignoranza è frutto di una responsabilità morale. Può invece dirsi incolpevole, quando il soggetto ha fatto quanto era nelle sue possibilità per comprendere correttamente la questione, senza tuttavia riuscire ad acquisire una certezza sufficiente: qui l’ignoranza, pur restando reale, non è imputabile moralmente, poiché l’agente ha agito secondo retta intenzione e proporzionata diligenza.

[6] Ricordiamo il già citato Vincenzo Ferrer, ma anche il Beato Pietro di Lussemburgo (1369–1387) e Santa Coletta di Corbie (1381-1447)

[7] Questo era previsto dal Codex Iuris Canonici del 1917. Il diritto canonico vigente ha ampliato le condizioni in cui si applica la supplenza (supplentia), ossia la sanazione della mancanza di potestà di governo in caso di errore comune o di dubbio positivo e probabile. Il principio è disciplinato dal can. 144 del Codice di Diritto Canonico del 1983, che costituisce un’evoluzione rispetto alla normativa più restrittiva del Codice del 1917. Oggi non è più richiesto che la persona abbia un titolo colorato (cioè un atto giuridico esterno, come una bolla o decreto), ma basta che la gente creda che quella persona abbia il titolo, anche senza verificarlo.

[8] L. Salembier, The Great schism of the west, pp. 180-184

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Il miracolo eucaristico di Moncada – la validità dei sacramenti durante il Grande Scisma d’Occidente

RACCONTO DEL MIRACOLO[1]

Il 25 giugno del 1388, don Guillermo de Pedrós e donna Ángela de Alpicant, appartenenti a una famiglia di antichissimo lignaggio e di grande prestigio, ebbero la loro primogenita, Inés. Fin dalla più tenera età, la piccola Inés si mostrò diversa dagli altri bambini.

Il giorno di Natale del 1392, quando Inés non aveva ancora 5 anni, si recò con sua madre in chiesa, dove si celebrava la Messa dell’Alba. La bambina stava ascoltando attentamente le parole del sacerdote quando, all’improvviso, rimase attonita e, indicando con il dito verso l’altare, disse alla madre:

— Guarda, mamma…!

Sua madre la zittì, ma la bambina insistette:

— Mamma! Guarda quel bambino!

— Quale bambino, figlia? Di cosa parli?

— Il bambino di donna Febrera!

— Taci Inés, taci, te lo comando!

Alla fine della Messa, Inés non smetteva di piangere. Le tremavano le mani e aveva un aspetto febbricitante. Per calmarla, la madre decise di portarla a vedere il figlio di donna Febrera, una vicina della via Mayòr. Quando vide il piccolo, Inés affermò che lo stesso volto si era manifestato nelle mani di Mosén Jaime, nella particola da lui utilizzata durante la celebrazione.

Inés rivide il “bambino di donna Febrera” anche nelle altre due messe che si celebrarono quel giorno. […]. Mosén Jaime si rese conto che stava accadendo qualcosa di straordinario e meraviglioso. Qualche ora dopo la terza messa e la terza visione di Inés, il rettore varcò il portone della casa degli Alpicant. Fece sedere Inés sulle sue ginocchia e le chiese:

— Dimmi, piccola, cosa hai visto?

La bambina raccontò, con gioia tutto ciò che era avvenuto durante le celebrazioni. Spiegò che il bambino che aveva visto non era il figlio della vicina, poiché quello che lei aveva visto era “più bello, più bianco”. Raccontò ai presenti, con linguaggio infantile, che quel bambino sprigionava bagliori sull’altare. Il terzo giorno di Natale, il “bambino” si manifestò nuovamente davanti a Inés. Il nome della bambina si diffuse di bocca in bocca in tutta Moncada, e una folla di curiosi accorse alla casa degli Alpicant per ascoltare i dettagli narrati dalla piccola.

Mosén Jaime era certo che quella creatura non poteva mentire, e solo lui sembrava in grado di comprendere perché Dio si degnasse di manifestarsi in quel modo. Decise dunque di incontrare i genitori di Inés e li convocò il giorno seguente, dopo la Santa Messa, alla presenza di una trentina di fedeli, di altri sacerdoti e di membri della famiglia Alpicant.

Il parroco aveva consacrato due ostie. Nella mano destra teneva l’unica particola consacrata che gli rimaneva, che mostrò ai fedeli; nella sinistra una particola identica, ma non consacrata – cosa che solo lui sapeva. Si avvicinò a Inés e le mostrò entrambe.

— Dimmi, Inés. Vedi il bambino?

— Sì, è lì!

Inés indicò la mano destra. Il padre Jaime invertì le ostie tra le mani e gliele mostrò di nuovo. Inés indicò di nuovo quella realmente consacrata, che ora era nella mano sinistra. P. Jaime voleva ulteriori prove. Spezzò l’ostia consacrata e la mostrò ancora a Inés, che affermò di vedere ora due bambini.

— Benedetto sia il Signore! esclamò il sacerdote in lacrime.

Inés visse fino ai 19 anni una vita intensa e mistica, con una vocazione chiara: consacrarsi al Signore ed entrare in convento. Voleva essere sposa di Cristo, ma suo padre aveva altri progetti per lei. La giovane Inés era in età da marito, e poiché gli Alpicant non avevano figli maschi a cui lasciare l’eredità, decisero di darla in sposa al miglior pretendente, un giovane della via Mayòr, anch’egli di buona famiglia. Ma Inés aveva già deciso cosa fare della sua vita: aveva consacrato il suo futuro davanti a S. Vincenzo Ferrer, all’epoca notissimo predicatore domenicano.

Inés confessò le sue intenzioni alla madre. Donna Ángela rispose solo con lacrime e un grande abbraccio, ma il padre interruppe la scena, rimproverando Inés con voce autoritaria e definendo la sua decisione una “follia”.

Il giorno seguente, rimasta sola nella casa di famiglia, Inés fuggì, non senza prima tagliarsi i capelli e cambiarsi d’abito per sembrare un uomo. Si diresse alla Certosa di Porta-Celi, abitata da monaci. Dopo tre giorni di cammino, giunse finalmente a destinazione. Il suo aspetto la fece passare per un giovane bisognoso, e i certosini l’accolsero senza sospetti. Ma dopo la prima notte trascorsa senza rivelare la propria identità, Inés sentì l’urgenza di confidarsi e chiese di potersi confessare dal coadiutore.

Il confessore le spiegò che era impossibile che potesse abitare con loro, ma le offrì una soluzione: affidarle la custodia del gregge, a condizione che vivesse in una grotta nella montagna. Da quel momento, per quattro anni, Inés fu la pastorella che, oltre ad accudire le pecore, pregava in segreto, sottoponendo il corpo a durissime penitenze, offerte per la redenzione delle anime perdute. Non valsero a nulla le ammonizioni del coadiutore, preoccupato per il suo aspetto pallido e gli occhi infossati.

La notte del 25 giugno 1428, giorno del compleanno di Inés, una luce illuminò la montagna, rischiarò la grotta. I monaci, spinti dalla pressione dei popolani impauriti che attribuivano l’evento a un fenomeno soprannaturale, salirono fino a quel luogo quasi inaccessibile. Si racconta che, già vicini al roccioso pendio, furono avvolti da un profumo fresco, più intenso delle fragranze di pino, mirto e timo. Poco dopo, ai piedi di una rozza croce, trovarono il corpo, accasciato e privo di vita, della ragazza di Moncada, irradiato da un alone di luce abbagliante.

Il suo confessore, con voce rotta dall’emozione, rivelò allora il segreto del falso pastorello. In quell’istante, il campanile della Certosa cominciò a suonare a festa per mano invisibile. Il rintocco fu così intenso che, la mattina successiva, quando si celebrò il funerale sotto l’altare della primitiva cappella gotica del monastero, la campana ammutolì, spezzata in mille frammenti.

Ancora oggi, il pellegrinaggio alla Grotta della Venerabile Inés è percorso da una moltitudine di fedeli e curiosi, desiderosi di conoscere il luogo in cui visse questa grande donna di Moncada.

IL CONTESTO ECCLESIALE, IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE (1378-1417)

Per comprendere appieno la situazione della cristianità nel 1388, è indispensabile analizzare gli eventi che, dieci anni prima, avevano spaccato la Chiesa cattolica in due, e poi tre, obbedienze papali.

1. IL PRELUDIO: LA “CATTIVITÀ AVIGNONESE” E IL RITORNO A ROMA (1309-1377)

Per quasi settant’anni, dal 1309 al 1377, la sede papale era stata trasferita da Roma ad Avignone, in Francia. Questo periodo, definito dal Petrarca la “cattività avignonese”, vide una successione di sette papi francesi, fortemente influenzati dalla monarchia di Francia. Questa situazione causò un profondo malcontento in gran parte della cristianità, specialmente in Italia e nell’Impero Germanico, poiché Roma era vista come la sede naturale e apostolica del successore di Pietro.

Sotto la spinta di figure carismatiche come Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, e a causa della situazione politica sempre più instabile ad Avignone, Papa Gregorio XI prese la storica decisione di riportare definitivamente la Curia a Roma nel 1377. La sua morte, avvenuta poco dopo, il 27 marzo 1378, aprì uno scenario carico di tensioni.

2. IL CONCLAVE DEL 1378: L’ELEZIONE CONTESA

Il conclave che si aprì a Roma nell’aprile del 1378 fu uno dei più turbolenti della storia. La popolazione romana, esasperata da decenni di assenza papale e dal timore che venisse eletto un altro papa francese che avrebbe riportato la sede ad Avignone, esercitò una fortissima pressione sui cardinali. La folla assediò il Vaticano al grido di: «Romano lo volemo, o al manco italiano!» (Lo vogliamo romano, o almeno italiano!).

Dei sedici cardinali presenti, undici erano francesi, quattro italiani e uno spagnolo (il celebre Pedro de Luna, futuro antipapa Benedetto XIII). Nonostante la maggioranza francese, le divisioni interne a questo gruppo (tra limosini e non-limosini) impedirono l’elezione di un loro candidato. Sotto la minaccia della folla inferocita, i cardinali optarono per una figura di compromesso: l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, un napoletano, quindi italiano, ma non romano. Egli non era cardinale, ma era un esperto amministratore della Curia, noto per la sua integrità e austerità. L’8 aprile 1378, fu eletto e prese il nome di Urbano VI.

Inizialmente, tutti i cardinali riconobbero la sua elezione, gli prestarono obbedienza e parteciparono alla sua incoronazione. Le cancellerie di tutta Europa furono informate e accettarono il nuovo pontefice.

3. LA ROTTURA: IL CARATTERE DI URBANO VI E LA REAZIONE DEI CARDINALI

La situazione precipitò rapidamente. Urbano VI si rivelò un papa autoritario, collerico e privo di tatto diplomatico. Iniziò un programma di riforme ecclesiastiche con modi bruschi e violenti, attaccando pubblicamente i cardinali per il loro lusso, la loro condotta morale e la simonia. Li umiliò, minacciò di creare un gran numero di nuovi cardinali italiani per spezzare l’influenza francese e si rifiutò di considerare un ritorno ad Avignone.

Sentendosi minacciati nel loro potere e persino nella loro incolumità fisica, i cardinali francesi iniziarono a dubitare della validità della sua elezione. Lasciarono Roma e si riunirono prima ad Anagni e poi a Fondi, nel Regno di Napoli, sotto la protezione della regina Giovanna I. Qui, il 2 agosto 1378, pubblicarono una dichiarazione in cui affermavano che l’elezione di Urbano VI era stata invalida perché estorta dalla violenza e dalla paura (metus) della folla romana. Pertanto, la sede papale era da considerarsi vacante.

4. L’ALEZIONE DELL’ANTIPAPA: LA NASCITA DELLO SCISMA

Ignorando le scomuniche di Urbano VI, il 20 settembre 1378, i cardinali dissidenti riuniti a Fondi elessero un nuovo papa: il Cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. La sua scelta non fu casuale. Roberto era cugino del re di Francia Carlo V e aveva guidato le truppe pontificie in Italia, guadagnandosi la sinistra fama di “boia di Cesena” per un massacro di civili avvenuto l’anno precedente. Era un uomo d’azione, un politico e un militare, gradito alla corona francese.

Con due papi eletti dallo stesso collegio cardinalizio a pochi mesi di distanza, la cristianità si spaccò. Lo scisma non fu un’eresia (entrambe le parti condividevano la stessa fede), ma una crisi istituzionale e di autorità senza precedenti.

LA DIVISIONE DELL’EUROPA NEL 1392

Nel Natale del 1392, anno del miracolo di Moncada, lo scisma era ormai una realtà consolidata da dieci anni. L’Europa era divisa in due “obbedienze”:

Obbedienza Romana (Urbano VI):

  1. Il Sacro Romano Impero
  2. L’Inghilterra (nemica della Francia nella Guerra dei Cent’anni)
  • L’Ungheria e la Polonia
  1. La Scandinavia
  2. Gran parte degli Stati italiani (tra cui Firenze, Milano e Venezia)

Obbedienza Avignonese (Clemente VII):

  1. La Francia
  2. La Scozia (alleata della Francia)
  • I regni della penisola iberica: Castiglia, Aragona e Navarra.
  1. Il Regno di Napoli (dopo la deposizione della regina Giovanna I, sostenitrice di Clemente)
  2. Il Ducato di Savoia

Questa divisione era prettamente politica. I sovrani sceglievano quale papa appoggiare in base ai propri interessi e alleanze, trascinando con sé i loro popoli e il clero locale.

Successivamente, con il Concilio di Pisa del 1409, i cardinali di entrambe le obbedienze dichiararono decaduti i due papi in carica — Gregorio XII a Roma e Benedetto XIII ad Avignone — ed elessero un terzo papa: Alessandro V, cui successe Giovanni XXIII (antipapa). Invece di risolvere la crisi, il concilio aggravò lo scisma: tre papi rivendicavano contemporaneamente la legittimità. La fine dello scisma si avrà solo con il Concilio di Costanza (1414–1418).

Ma fermiamoci, per ora, alla situazione nel 1392, anno del miracolo di Moncada.

UNA CHIESA LACERATA, LA POSIZIONE DEI SANTI DEL TEMPO

Il dilemma provocato dallo scisma coinvolse anche grandi personalità religiose, quali i santi Caterina da Siena, schierata dalla parte del papa legittimo, e Vincenzo Ferrer, sostenitore dell’antipapa.

Riporto dal testo Antipapi, di Mons. Antonio Galli (1908-2013), alcune citazioni che rendono conto della situazione ecclesiale dell’epoca:

«… San Vincenzo Ferrer che nel periodo in cui propugnò la legittimità della sede avignonese compose il trattato De moderno schismate Ecclesiae. Anche Bernardo di Agramunt, spinto da Pedro de Luna, usò la penna in favore della Sede d’Avignone. Come accade nei periodi di maggiore sconcerto, la situazione paradossale creatasi col duplice pontificato diede l’avvio a previsioni catastrofiche, quasi fosse prossima una soluzione escatologica. Di qui il fiorire di una letteratura che adescò anche menti acute ed equilibrate. Fin dal 1390 uno scrittore inglese riteneva che il papa fosse l’Anticristo descritto nell’Apocalisse. Il beato Giovanni dalle Celle, nelle sue lettere, si manifesta convinto dell’imminenza della Parusia»

Questa citazione ci mostra almeno due cose.

La storia si ripete, anche se mai allo stesso modo: allora come oggi, i momenti di maggiore divisione e confusione nella Chiesa diventano terreno fertile per la proliferazione di letteratura escatologica, predicazioni catastrofistiche e visioni apocalittiche.

Un santo domenicano, Vincenzo Ferrer (1350-1419), aderì all’obbedienza avignonese, che era illegittima. Per «adesione», qui s’intende una vera e propria militanza in favore dell’obbedienza scismatica.

Leggiamo come Mons. Antonio Galli sintetizza l’esperienza del santo:

«Vincenzo Ferrer (1350-1419), spagnolo, seguì l’obbedienza avignonese dal sorgere dello scisma (1378) fino all’anno 1399. Varie ragioni lo indussero ad assumere in buona fede questo atteggiamento. Appartenendo ai domenicani, egli si uniformò alla decisione presa dal generale dell’Ordine, frate Elia Raimondo. Subì anche l’influsso di uno dei più insigni domenicani aragonesi del tempo, Nicola Eymerich, che, trovandosi a Roma durante il conclave del 1378, si convinse dell’irregolare elezione di Urbano VI. Ma chi gli diede la spinta decisiva fu don Pedro de Luna, essendo il santo confessore di una sua parente. […] Alla morte di Clemente VII, Benedetto XIII lo costituì cappellano domestico, suo confessore, penitenziere apostolico, maestro del sacro Palazzo. Il santo si distaccò da Benedetto in seguito ad una visione in cui, oltre alla pacificazione della Chiesa, gli fu predetta prossima la fine del mondo! Senza rompere del tutto i rapporti con la Sede Apostolica avignonese, Vincenzo si dedicò ad un intenso apostolato che lo portò in quasi tutti i Paesi d’Europa. Con lo stesso impegno con cui aveva sostenuto il clementismo si applicò in seguito alla riunificazione della Chiesa. Non gli riuscì tuttavia di convincere Benedetto ad abdicare, nonostante il memorabile discorso che pronunciò, il 7 novembre 1415, a Perpignano alla presenza dello stesso Benedetto e di cardinali, principi, ambasciatori e di migliaia di persone sul tema “Ossa arida, audite verbum Dei”»[2].

In questo contesto così complesso, capace di confondere anche un santo domenicano il caso del miracolo eucaristico di Moncada si presenta come un evento emblematico che getta luce sulla delicata questione della validità dei sacramenti amministrati in una Chiesa lacerata da divisioni istituzionali.

L’IMPORTANZA TEOLOGICA DEL MIRACOLO NEL SUO CONTESTO STORICO

Il parroco del villaggio di Moncada, Mosén Jaime, ordinato da un vescovo nominato da Clemente VII (antipapa), era assalito dal dubbio che, qualora l’obbedienza avignonese si fosse rivelata illegittima, tutti i sacramenti da lui amministrati, a cominciare dall’Eucaristia, potessero essere invalidi. Tale dubbio, oltre a essere teologicamente mal fondato, testimonia l’incertezza e il disagio ecclesiale vissuti da molti ministri in quell’epoca.

Il miracolo di Moncada è la conferma soprannaturale della validità della consacrazione eucaristica, a dispetto delle incertezze umane circa l’autorità del vescovo consacrante e dell’obbedienza pontificia.

Tuttavia, dal punto di vista teologico, il miracolo non fonda una verità nuova: esso ratifica visibilmente ciò che la dottrina scolastica già affermava con chiarezza. San Tommaso d’Aquino – dovremmo ormai saperlo a memoria – insegna che anche gli eretici, gli scismatici o gli scomunicati conservano la potestas ordinis, se sono stati validamente ordinati. La potestà di consacrare, essendo connessa al carattere sacramentale dell’Ordine, è indelebile e non si perde per scisma o peccato personale.

A rafforzare questa visione interviene anche sant’Antonino Pierozzi[3] (1389-1459), arcivescovo di Firenze nel XV secolo, che – riflettendo proprio sulle complicazioni dello Scisma – afferma:

«Senza dubbio si deve credere che esiste una sola Chiesa e un solo vicario di Cristo. Tuttavia, in caso di scisma, qualora vengano eletti più papi, non è necessario alla salvezza sapere quale sia il vero pontefice. È in genere sufficiente essere disposti a obbedire a colui che sia stato eletto canonicamente. Il laico non è tenuto a conoscere il diritto canonico: può e deve affidarsi al giudizio dei suoi superiori e prelati. Il cristiano che sbaglia in buona fede è scusato da un’ignoranza praticamente invincibile»[4].

Tutto ciò va compreso non solo da un punto di vista sacramentale ma anche pastorale: durante il Grande Scisma, la preoccupazione principale della Chiesa fu la continuità della vita spirituale e pastorale per i fedeli, nonostante la profonda lacerazione dell’autorità papale.

Il principio di ignoranza invincibile[5] e di coscienza retta vale anche per i ministri ordinati e questo è confermato dal fatto che la Chiesa ha canonizzato vari santi[6] che vissero sotto l’obbedienza avignonese, riconoscendo la loro buona coscienza. Per quanto riguarda i ministri ordinati, sappiamo che la validità dei sacramenti, infatti, è fondata sull’oggettività della potestas ordinis, e non sull’appartenenza alla «giurisdizione canonica» legittima. In tale prospettiva, il miracolo di Moncada va interpretato non solo come condizione di validità della Messa celebrata dal parroco, ma come segno confermativo di una verità dottrinale: la fedeltà di Dio alla realtà sacramentale operata nella Chiesa, anche in tempi di accertata divisione, e la conferma della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia come frutto di una consacrazione valida, anche se esercitata in un’obbedienza scismatica.

Forniamo di seguito una lunga e chiarificante spiegazione del sacerdote e storico della Chiesa Louis Salembier (1849-1913), autore di vari articoli dell’Enciclopedia cattolica del 1913 e del testo Il grande scisma di occidente (1907). Riportiamo generosamente il quarto paragrafo (capitolo IX) intitolato: «Che ne è dell’autorità nella Chiesa?»:

«Nel 1403, il papa d’Avignone si trova in uno stato di semi-prigionia, sorvegliato costantemente e confinato nel proprio palazzo, mentre il suo rivale romano ha appena concluso una pace con il nuovo Re dei Romani, una pace la cui precarietà e ambiguità non sfuggono a nessuno. È il momento più drammatico del Grande Scisma. In tale frangente, il cristiano attento non può non porsi una domanda grave, che tocca da vicino la fede stessa: che ne è, in circostanze tanto critiche e in una rottura così profonda dell’obbedienza ecclesiale, dell’autorità suprema affidata da Cristo alla sua Chiesa? Il papa prigioniero o il pontefice ridotto all’impotenza è forse ancora l’unico depositario dell’autorità ricevuta dal Fondatore divino? E l’altra metà della Chiesa, quella che in realtà non aderisce al vero Papa — noto in quel momento solo a Dio — è forse da considerarsi realmente scismatica, e dunque priva di ogni giurisdizione, compresa quella di assolvere, riservata alla gerarchia legittima? È possibile che tale parte sia giunta perfino a perdere la capacità di conferire validamente l’Ordine sacro e di amministrare validamente i sacramenti?

Non c’è motivo perché la pietà e la fede si allarmino. Dio non ha mai privato del potere delle chiavi — né dei benefici ad esso connessi — una porzione considerevole della sua Chiesa, fuorviata dai propri vescovi per errori di fatto commessi in buona fede. Il papa, chiunque egli sia in simili circostanze, possiede almeno ciò che il diritto canonico definisce titulus coloratus[7], un titolo apparente che, in condizioni di errore generale e praticamente invincibile, è sufficiente per l’amministrazione dei sacramenti e l’esercizio della giurisdizione esteriore. I fedeli si possono sbagliare su chi sia il vero capo visibile della Chiesa, ma ciò non ha conseguenze invalidanti: il loro errore è involontario, e la loro buona fede piena. I sacramenti che ricevono sono validi ed efficaci, poiché amministrati da veri sacerdoti; e l’autorità da loro riconosciuta produce i suoi effetti legali.

La posizione fu chiaramente espressa nel Sinodo nazionale celebrato a Parigi nel febbraio 1395: “Nei grandi scismi del passato era chiaro ed evidente chi fosse l’intruso, per quanto sostenuto da alcuni nobili. Ma oggi, per quanto falsa sia la parte dell’intruso, essa presenta un’apparenza assai verosimile, fondata su diversi documenti e argomenti, ed è sostenuta da un numero di ecclesiastici noti superiore a quello che riconosce l’obbedienza del nostro Santo Padre Benedetto; ed è certo che i due papi eletti all’inizio dello scisma furono entrambi scelti dall’intero Collegio cardinalizio”.

Queste circostanze del tutto particolari furono ben comprese da Sant’Antonino, che era in contatto con un protagonista di primo piano in quegli eventi, il beato cardinale Giovanni Dominici.

— e qui l’autore cita quanto abbiamo già letto di S. Antonino Pierozzi —

Il santo arcivescovo di Firenze scriveva: “Senza dubbio si deve credere che esiste una sola Chiesa e un solo vicario di Cristo. Tuttavia, in caso di scisma, qualora vengano eletti più papi, non è necessario alla salvezza sapere quale sia il vero pontefice. È in genere sufficiente essere disposti a obbedire a colui che sia stato eletto canonicamente. Il laico non è tenuto a conoscere il diritto canonico: può e deve affidarsi al giudizio dei suoi superiori e prelati. Il cristiano che sbaglia in buona fede è scusato da un’ignoranza praticamente invincibile”.

Una simile dottrina è ripresa anche da autorevoli teologi moderni: “Dopo l’elezione valida di un papa, prima della sua morte o della sua rinuncia, ogni nuova elezione è scismatica e nulla. Il nuovo eletto non appartiene alla successione apostolica. È quanto accadde all’inizio di quello che si chiama — non senza imprecisione — ‘Grande Scisma d’Occidente’, che, da un punto di vista teologico, fu solo uno scisma apparente. Se vi fossero due elezioni quasi simultanee, una conforme alle leggi canoniche e l’altra no, il papa eletto secondo legge sarebbe quello legittimo, anche se il suo riconoscimento fosse ritardato da dispute, incertezze e lacerazioni dolorose. L’apostolicità sussiste oggettivamente nel vero papa, anche se tale oggettività non è immediatamente evidente. Sapere di avere ricevuto un’eredità senza sapere in quale cassa sia conservata non cambia la realtà del possesso: così è la successione apostolica”.

Questa posizione riecheggia quella già formulata nel Quattrocento dal grande arcivescovo di Firenze, celebrato come l’“Antonino del consiglio”. La sorgente della santità e dell’autorità legislativa e giudiziaria non si è mai inaridita in alcuna delle due parti della Chiesa. Il vero Papa era presente nella Chiesa, ne rimaneva l’anima vitale e principio di unità. L’autorità non si trasferì né ai vescovi, né alla moltitudine del clero e del laicato, né all’Università di Parigi, né ai principi — francesi o stranieri — talvolta troppo inclini a invadere ambiti sacerdotali, come ammoniva sant’Ambrogio.

La forza santificante della Chiesa non perse nulla della sua efficacia. In quel periodo funesto, carestia e guerra, unite a gravi difficoltà religiose, sconvolgevano l’umanità. La Peste Nera proseguiva in tutta l’Europa la sua corsa devastatrice, minando le fonti stesse della vita naturale. Il mondo, sopraffatto e sconvolto da tante sciagure, sembrava sprofondato nella disperazione. Soltanto la Chiesa rimaneva in piedi, stringendo tra le sue mani il tesoro dei sacramenti che nutrono, fortificano e innalzano, con la consolazione divina e la speranza soprannaturale sulle labbra. Anche in quell’età di disgrazie, come nei tempi benedetti di san Francesco e san Domenico, entrambe le parti della Chiesa diedero frutti di santità, suscitando Santi attraverso i quali essa rifioriva, sanava e istruiva l’umanità»[8].

Per concludere, in un’epoca in cui l’identificazione del papa legittimo era oggettivamente difficile, e in cui molti ministri si interrogavano con angoscia sulla validità dei sacramenti da loro celebrati, il miracolo eucaristico di Moncada appare come un segno celeste di rassicurazione. Ma più ancora, costituisce una rappresentazione visibile di una verità teologica invisibile: i sacramenti, quando sono amministrati con la giusta intenzione da un ministro validamente ordinato, sono efficaci ex opere operato, anche nel contesto di una Chiesa ferita dallo scisma.

Note

[1] Traduzione propria dell’articolo tratto dal sito della Parrocchia di S. Jaime di Moncada (provincia di Valencia)https://parroquia.sanjaimemoncada.es/venerable-ines-moncada/. L’episodio è riportato negli Anales Eclesiásticos di padre Odorico Raynaldi e in altri documenti conservati presso l’archivio comunale di Moncada.

[2] Antonio Galli, Gli Antipapi del Grande Scisma d’Occidente, Sugarco, Milano 2011, p. 42-43.

[3] Sant’Antonino Pierozzi, domenicano, è stato arcivescovo di Firenze e figura eminente del Rinascimento religioso. Entrato giovanissimo nell’Ordine dei Predicatori, si distinse per la sua profonda vita spirituale, il rigore morale e la competenza teologica. Fu nominato arcivescovo di Firenze da papa Eugenio IV nel 1446, nonostante la sua riluttanza, e svolse il suo ministero episcopale con zelo pastorale, attenzione ai poveri e riforma del clero. È noto anche per le sue opere teologiche e morali, in particolare la Summa theologica moralis, una delle prime sintesi sistematiche della teologia morale. Fu canonizzato nel 1523 da papa Adriano VI. È considerato un modello di vescovo riformatore e un precursore della dottrina sociale della Chiesa.

[4] S. Antonino Pierozzi, citato da Louis Salembier, The Great schism of the west, pp. 180-184. Lo stesso passo è citato anche da Antonio Galli, Gli Antipapi del Grande Scisma d’Occidente, cit., p. 42.

[5] L’ignoranza è detta invincibile quando il soggetto, pur impegnandosi con sincerità, non riesce a comprendere l’argomento in questione oppure non è in grado di giungere a una conclusione chiara. Essa può assumere carattere colpevole quando la persona, non conducendo una vita moralmente retta e non cercando sinceramente la verità, finisce per formarsi una coscienza ottusa, incapace di riconoscere il vero. In questo caso, l’ignoranza è frutto di una responsabilità morale. Può invece dirsi incolpevole, quando il soggetto ha fatto quanto era nelle sue possibilità per comprendere correttamente la questione, senza tuttavia riuscire ad acquisire una certezza sufficiente: qui l’ignoranza, pur restando reale, non è imputabile moralmente, poiché l’agente ha agito secondo retta intenzione e proporzionata diligenza.

[6] Ricordiamo il già citato Vincenzo Ferrer, ma anche il Beato Pietro di Lussemburgo (1369–1387) e Santa Coletta di Corbie (1381-1447)

[7] Questo era previsto dal Codex Iuris Canonici del 1917. Il diritto canonico vigente ha ampliato le condizioni in cui si applica la supplenza (supplentia), ossia la sanazione della mancanza di potestà di governo in caso di errore comune o di dubbio positivo e probabile. Il principio è disciplinato dal can. 144 del Codice di Diritto Canonico del 1983, che costituisce un’evoluzione rispetto alla normativa più restrittiva del Codice del 1917. Oggi non è più richiesto che la persona abbia un titolo colorato (cioè un atto giuridico esterno, come una bolla o decreto), ma basta che la gente creda che quella persona abbia il titolo, anche senza verificarlo.

[8] L. Salembier, The Great schism of the west, pp. 180-184