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Sulla difficoltà di replicare e sul dovere di farlo

Buon_Pastore

Sulla difficoltà di replicare e sul dovere di farlo

Di p. Giorgio Maria Faré, 21 luglio 2025

In risposta all’articolo di Barbara Tampieri: “I social nuocciono gravemente a sacerdoti e fedeli? Ulteriore risposta a padre Giorgio Maria Faré”

È con una certa amarezza che mi accingo a scrivere queste righe, non per un risentimento personale – che, posso rassicurare tutti, non mi ha tolto il sonno – ma per il dispiacere di vedere il dibattito su temi così cruciali per la fede scivolare verso un piano che non gli appartiene.

Ho letto con attenzione l’articolo che mi è stato dedicato dalla dott.ssa Tampieri[1], apprezzandone, come sempre, l’efficacia linguistica.

Tuttavia, in questa occasione il suo pregevole stile è messo al servizio di una prospettiva che, man mano che si dipana, pare distorcersi, assumendo il tono moraleggiante non di un’analisi, ma di un rimprovero.

Mi si potrebbe obiettare che, in certi contesti, omettere di replicare sia già una risposta, un modo per non legittimare l’interlocutore. Si potrebbe pensare a un astronomo che, giustamente, eviti di replicare alle tesi di un provetto suonatore di zampogna che, a tempo perso, si dedichi alla propaganda terrapiattista. Ma qui la situazione è diversa, perché in gioco non c’è solo un confronto tra idee, ma la chiarezza dovuta ai fedeli. Ed è solo per questa ragione, e a partire da una piena consapevolezza pastorale, che rispondo.

La strategia di fondo dell’articolo in questione è tanto abile quanto fallace: eludere il confronto sul merito teologico e sostituire l’argomentazione con un amalgama di allusioni, denunce generiche e, soprattutto, diagnosi psicologiche.

La mia critica, che ha dato origine a questa replica, era puntuale e specifica: riguardava l’uso teologicamente improprio di certe espressioni (“estrattore”, “motore”) per descrivere il Santissimo Sacramento. L’obiettivo era cogliere la pericolosità di un indebito slittamento di piani. Infatti, passare da un costrutto descrittivo, magari anche suggestivo ma dai chiari esiti congetturali, a derivarne conseguenze di ortoprassi – come l’allontanamento dai sacramenti – è un pericolo, e lo è soprattutto per il fedele semplice. Questo era il punto.

La risposta della dott.ssa Tampieri, invece, non entra mai nel merito di questa obiezione. Al contrario, definisce a priori la mia obiezione come parte di una “campagna alluvionale di denigrazione”.

A partire da questa accusa iniziale, il mio nome diventa il perno attorno al quale ruota un intero universo di fenomeni negativi. Anche quando non vengo più nominato, resto presente sullo sfondo, come bersaglio implicito di ogni accusa morale o sociale. Si parla di abusi sui social, di public shaming, di dinamiche narcisistiche, e si lascia che sia l’immaginario del lettore, abilmente guidato, a compiere un’opera di insinuazione, attribuendo per una sorta di “colpevolizzazione per osmosi” la responsabilità di questi mali a me.

Quando l’autrice chiede: “Padre Giorgio, li ha letti i commenti che i suoi fedeli mi hanno dedicato?”, il salto è compiuto: la responsabilità degli ascoltatori diventa, per contaminazione narrativa, mia, in quanto autore della diretta.

Per portare a termine questa operazione, l’articolo ricorre a un pesante linguaggio psicologico. I miei “follower” vengono sovrapposti alle “scimmie volanti”, termine usato in psicologia per definire coloro che, per compiacere il loro plagiatore narcisista, agiscono per distruggere i suoi avversari.

Termini come “proiezione”, “gaslighting”, “depersonalizzazione”, “abuso narcisistico” – nati per descrivere dinamiche cliniche di abuso psicologico grave, spesso in ambito privato – vengono applicati a un confronto teologico pubblico. È una forzatura concettuale il cui scopo non è comprendere, ma patologizzare il dissenso. La critica accorata diventa “abuso”; il confronto teologico diventa “gaslighting”[2].

L’avversario (che sarei io) non è più un interlocutore con cui dibattere, ma un inquisitore, un manipolatore, un narcisista tossico da analizzare.

La competenza di psicologa dell’autrice non viene impiegata per chiarire le dinamiche in modo oggettivo, ma come sigillo di autorità per rafforzare opinioni soggettive, trasformandole in diagnosi implicite. Si tratta di una forma subdola di argumentum ad hominem, dove non si contesta l’idea, ma si svaluta la persona sul piano morale e psichico.

In questo quadro, non stupisce che il testo sia intriso di una forte retorica vittimistica. La dott.sa Tampieri si dice trascinata in un “processo alle intenzioni”, e Andrea Cionci diviene la vittima principale di un attacco mediatico paragonato a Pearl Harbor. Di conseguenza, io assumo il ruolo dell’accusatore ingiusto, persino del carnefice. È una logica narrativa, non dimostrativa: il lettore è invitato a empatizzare, non a verificare.

Il paradosso più stridente, però, è che molti dei mali denunciati nell’articolo – uno su tutti, la connivenza di parte della Chiesa nella mala gestione dell’emergenza sanitaria – sono proprio ciò che io stesso, con coraggio, ho più volte denunciato pubblicamente. Inserire questi elementi in un articolo che si apre come risposta a me, sortisce l’inevitabile effetto di attribuirmi quelle stesse colpe. Il risultato è una grande confusione argomentativa, dove tutto si mescola: accuse personali, diagnosi psicologiche, scenari ecclesiali apocalittici ed evocazioni esoteriche.

In questo quadro si inserisce la scelta dell’immagine che apre l’articolo. Non si tratta di un’illustrazione generica, ma della locandina del film horror britannico del 1973 intitolato The Wicker Man. L’immagine raffigura il culmine del film: un rituale pagano in cui il protagonista, un poliziotto cristiano, viene bruciato vivo come sacrificio umano all’interno di una gigantesca statua di vimini. Inserire questa immagine agghiacciante appena sotto al titolo: “Ulteriore risposta a padre Giorgio Maria Faré” è una mossa retorica di una violenza inaudita. È un’insinuazione visiva potentissima. È una scelta, considerata la cultura di chi scrive, davvero infelice, ancor più pesante perché proietta un’ombra sinistra e inquietante su tutto il testo. La domanda sorge spontanea e lascia basiti: quale messaggio si intende veicolare associando a un sacerdote cristiano l’icona di un rito pagano che culmina nel sacrificio di un cristiano?

Invece di fare chiarezza, si confonde. Invece di rispondere, si sposta il discorso su un piano implicito e insinuante. Non è questa la via per un dibattito serio, soprattutto quando in gioco vi sono non solo le idee, ma la reputazione e l’onore di persone concrete.

Attribuire a un sacerdote l’ipotesi che egli si muova mosso da un impulso egoico che confonde la critica legittima con un’offesa personale, non solo gli attribuisce una prospettiva psicologica infantile – fare il broncio dopo un rimprovero – ma nega alla sua persona e al suo ministero la dignità specifica di correggere una chiave di lettura che, pur potendo apparire suggestiva, porta con sé nefaste conseguenze sul piano dell’agire, della dottrina e della Chiesa.

Il mio intervento non nasceva da un risentimento, ma dalla piena consapevolezza pastorale del dovere di fare chiarezza su questioni teologiche e sacramentarie molto rilevanti. È questo, e solo questo, il punctum che mi obbliga, obtorto collo, a replicare.

[1] http://ilblogdilameduck.blogspot.com/2025/07/i-social-nuocciono-gravemente-sacerdoti.html

[2] Il termine “gaslighting” indica una forma di manipolazione psicologica subdola, usata per far dubitare una persona della propria percezione della realtà, memoria o sanità mentale