Mi alzerò, e andrò a gettarmi ai piedi di mio padre, dicendogli: Padre mio, ho peccato contro il cielo e contro di Te
(Luca 15,18)
Tali sono, fratelli miei, il dolore e il rammarico che il pensiero dei nostri peccati deve produrre nei nostri cuori, e tale fu la condotta che ebbe il figliol prodigo, allorchè, rientrando in se stesso, riconobbe la sua profonda miseria e i beni che aveva perduti, separandosi da un padre così buono.
Sì, egli grida, mi alzerò e andrò a trovare questo buon padre; gettandomi ai suoi piedi, li bagnerò con le mie lacrime.
«Padre mio, coperto dai peccati e dalla vergogna che mi prostra, non oso più guardare il cielo, nè te che sei mio padre, poichè ti ho così orribilmente disprezzato; ma sarei fin troppo felice, se tu volessi annoverarmi nel numero dei tuoi servi».
Bel modello, fratelli miei, per un peccatore che, essendo toccato dalla grazia, sperimenta la profondità della sua miseria e il peso dei suoi peccati e dei suoi rimorsi che lo divorano: felice, e mille volte felice il peccatore che si avvicina al suo Dio con gli stessi sentimenti di dolore e di fiducia, di questo grande penitente.
Sì, fratelli miei, com’è sicuro di trovare in Dio un Padre pieno di bontà e di tenerezza, che gli rimetterà volentieri i suoi peccati e gli renderà tutti i beni che il peccato gli ha rapiti!
Ma di che cosa voglio parlarvi, dunque?
Ah! consolatevi, vengo ad annunciarvi la più grande di tutte le felicità.
Ah! che dico? vengo ad esporre ai vostri occhi la grandezza delle misericordie di Dio.
Ah! povera anima, consolati!
Mi sembra di sentirti gridare come il cieco di Gerico: «Ah! Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Luca 18,38).
Sì, povera anima, tu troverari…(testo mancante; n.d.a.).
Qual è il mio progetto, fratelli miei? Eccolo: è quello di mostrarvi, nella maniera più semplice e più familiare, le disposizioni che dovete apportare accostandovi al sacramento della Penitenza.
Ce ne sono cinque, ed eccole: la nostra confessione, per essere buona e meritarci il perdono dei nostri peccati, deve essere:
1°- umile;
2°- semplice;
3°- prudente;
4°- completa;
5°- sincera.
Se le vostre confessioni sono accompagnate da queste condizioni, siate sicuri del vostro perdono.
In seguito vedremo in quale maniera l’assenza di queste condizioni possa rendere le nostre confessioni sacrileghe.
Parlando, fratelli miei, a dei cristiani che non cercano altro che i mezzi per salvare le loro povere anime, non è necessario dimostrarvi il carattere divino della confessione, ma è sufficiente dirvi che è stato Gesù Cristo stesso ad istituirla, dicendo agli apostoli, come ai loro successori: «Ricevete lo Spirito Santo: i peccati saranno rimessi a coloro ai quali voi li rimetterete, e resteranno non rimessi, a coloro ai quali voi non li rimetterete» (Giovanni 20,22-23);
oppure anche, se volete, quando dice: «Tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto in cielo, e tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche in cielo» (Matteo 18,18).
Queste parole ci mostrano veramente la divinità della confessione e la necessità della stessa confessione.
Infatti, come poter rimettere o non rimettere i peccati, se non li si facesse conoscere a coloro che hanno questo potere sublime e ammirevole?
Non sarà nemmeno necessario mostrarvi i vantaggi della confessione; una sola parola è sufficiente, poichè, dopo un solo peccato mortale, senza la confessione, giammai vedremo Dio, e, per tutta l’eternità, saremo condannati a sperimentare tutti i rigori della sua collera e ad essere maledetti (Matteo 25,41!).
Non vi dirò neppure che la confessione ci fa riguadagnare l’amicizia del nostro Dio, e ridona alla nostra anima la vita e tutte le nostre opere, che il peccato aveva fatto morire (cioè si recupera il merito delle opere buone precedenti; n.d.a.).
Se voi non sentite tutta questa felicità, tutti i vantaggi della confessione, andate a interrogare i demoni che bruciano all’inferno, ed essi vi insegneranno a stimarla e ad approfittarne.
Sì, fratelli miei, se interroghiamo tutti i cristiani dannati, sul perchè essi bruciano, tutti ci diranno che la causa della loro infelicità deriva, o dal fatto di aver disprezzato il sacramento della Penitenza, che è la confessione, oppure dal non avere avuto le disposizioni necessarie, quando le si sono accostati.
Se da questo luogo di orrore salite in cielo, se domandaste a tutti quei vecchi peccatori che hanno trascorso venti o trent’anni nel disordine morale, che cosa procuri loro tanta gioia e tanti piaceri, tutti vi direbbero che solo questo sacramento della Penitenza è valso loro questi beni infiniti.
No, fratelli miei, nessuno dubiti di una verità così consolante per un peccatore che abbia perduto il suo Dio a causa del peccato, e cioè poter trovare un mezzo così facile e così efficace per riguadagnare ciò che il peccato aveva rapito loro.
Se chiedessi a un bambino: «che cos’è la confessione?, egli mi risponderebbe semplicemente che è l’accusa dei propri peccati, fatta a un sacerdote approvato, per riceverne l’assoluzione, e cioè il perdono».
Ma perchè, mi direte voi, Gesù Cristo ci assoggetta a un’accusa così umiliante, che costa tanto al nostro amor proprio?
Amico mio, ti risponderò che è precisamente per umiliarci, che Gesù Cristo ce lo ha imposto.
Non vi è dubbio che è penoso, per un orgoglioso, andare a dire a un confessore tutto il male che ha fatto, tutto quello che ha progettato di fare, tanti cattivi pensieri, tanti desideri corrotti, tante azioni ingiuste e vergognose che vorrebbe poter nascondere perfino a se stesso.
Ma voi non fate attenzione al fatto che l’orgoglio è la sorgente di tutti i peccati, e che ogni peccato è un’orgogliosa rivolta della creatura contro il Creatore; è giusto, dunque che Dio ci abbia condannati a quest’accusa così umiliante per un orgoglioso.
Ma guardiamo questa umiliazione con gli occhi della fede, e ditemi: è forse una cosa penosa scambiare una confusione pubblica ed eterna (il Giudizio e l’inferno; n.d.a), con una confusione di cinque minuti, tanto ci vuole per riferire i nostri peccati a un ministro del Signore, onde riguadagnare il cielo e l’amicizia del nostro Dio?
«Ma perchè, mi direte voi, ci sono di quelli che nutrono tanta ripugnanza verso la confessione, e la maggior parte vi si accostano male?».
Ahimè! fratelli miei, è perchè, gli uni hanno perso la fede, gli altri sono orgogliosi, e altri non sentono le piaghe della loro povera anima, nè le consolazioni che la confessione procura a un cristiano che vi si accosti degnamente.
Chi è colui, fratelli miei, che ci comanda di confessarci di tutti i nostri peccati, sotto pena di dannazione eterna?
Ahimè! fratelli miei, lo sapete bene quanto me: è Gesù Cristo stesso; e tutti vi sono obbligati, dal santo Padre fino all’ultimo artigiano.
Mio Dio, quale accecamento, disprezzare e non fare caso di un mezzo così facile e così efficace per guadagnarci una felicità infinita, libarandoci dalla più grande di tutte le disgrazie, che è la collera eterna.
Ma tutto ciò, fratelli miei, non è ancora ciò che mi sembra più necessario che sappiate, poichè voi sapete già che la confessione è il solo mezo che ci resti per uscire dal peccato: o confesseremo i nostri peccati, o andremo a bruciare nelle fiamme dell’inferno; noi sappiamo che, per quanto grandi, enormi e numerosi possano essere i nostri peccati, siamo sicuri del nostro perdono, se li confessiamo.
Ma ecco ciò che dovete assolutamente sapere; ascoltatemi bene.
In primo luogo, dico che la confessione deve essere umile, cioè che dobbiamo considerarci, nel tribunale della penitenza, come un criminale davanti al suo giudice, che è Dio stesso; dobbiamo accusare noi stessi, i nostri peccati, senza aspettare che il prete ci interroghi, sull’esempio di Davide che diceva:«Sì, mio Dio, accuserò io stesso i miei peccati al Signore», e non fare come fa la maggior parte dei peccatori, che raccontano i loro peccati, come se fossero una storia indifferente, che non mostrano nè dolore nè rammarico, per aver offeso Dio, che sembrano confessarsi solo per commettere dei sacrilegi.
O mio Dio! ci si può pensare senza morire di orrore?
Se il confessore si vede costretto a farvi qualche rimostranza che ferisca un po’ il vostro amor proprio, se vi impone qualche penitenza che vi ripugna, o se, perfino, vi rifiuta l’assoluzione, state attenti a non mormorare e ancor meno a discutere con lui, rispondendogli con arroganza, come fanno alcuni peccatori induriti e venduti all’empietà; che usciranno dalla chiesa perfino incolleriti, senza mettersi in ginocchio.
Non dimenticate mai che il tribunale della penitenza, sul quale siede il sacerdote, è veramente il tribunale di Gesù Cristo; che è Lui che ascolta la vostra accusa, che vi interroga, che vi parla e che pronuncia la sentenza di assoluzione.
Io dico che bisogna accusarsi con umiltà, cioè, senza mai gettare le proprie colpe sugli altri, come fa la maggior parte di quelli che si confessano, simili ad Adamo che scaricò la colpa su Eva, ed Eva sul serpente, invece di riconoscersi umilmente colpevoli, ammettendo che non fu che per colpa propria che peccarono; invece fanno tutto il contrario.
Un uomo soggetto alla collera, darà la colpa a sua moglie e ai suoi figli; un ubriaco, alla compagnia che lo ha incitato a bere; un vendicativo, a un’ingiuria che gli sia stata fatta; un maldicente, al fatto che, in fondo, non ha detto altro che la verità; un uomo che lavora di domenica, ai suoi affari che lo pressano o che vanno male.
Una madre che faccia mancare la preghiera ai suoi figli, si scuserà col fatto che non abbia tempo.
Ditemi, fratelli miei, è questa una confessione umile?
Vedete chiaramante che no.
«Mio Dio, diceva il santo re Davide, metti, per favore, una custodia alla mia bocca, affinchè la malizia del mio cuore non trovi nessuna scusa per i miei peccati» (Salmo 141 3-4).
Affermo dunque che dobbiamo farci conoscere così come siamo, affinchè la nostra confessione sia buona e capace di riguadagnarci l’amicizia di Dio.
Ho detto anche che la confessione deve essere semplice, cioè bisogna evitare tutte quelle accuse inutili, tutti quegli scrupoli che fanno ripetere cento volte la stessa cosa, che fanno perdere tempo al confessore, stancano quelli che aspettano per confessarsi, e spengono la devozione.
Bisogna mostrarsi così come si è, con una dichiarazione sincera; bisogna accusare ciò che è dubbio, come dubbio, ciò che è certo, come certo. Per esempio: se pensaste che non vi siete fermati su dei cattivi pensieri, e dubitate di averne provato piacere, sarebbe mancare di sincerità dire che ne avete avuto solo il pensiero; oppure, dire che ciò che avete rubato non vale poi tanto, dubitando che forse valga di più; oppure dire: «Padre mio, mi accuso di avere dimenticato un peccato in una delle mie confessioni», mentre è stato per una cattiva vergogna o per negligenza.
Queste maniere di accusarvi sarebbero la causa per cui commettereste un orribile sacrilegio.
Aggiungo anche che sarebbe mancare di sincerità, attendere che il confessore vi interroghi su certi peccati; se avete avuto la volontà celata di non dirli, non sarebbe sufficiente dichiararli solo perchè il confessore ve lo ha chiesto, ma bisognerebbe aggiungere: «Padre mio, se tu non mi avessi interrogato su questo peccato, io non te lo avrei detto».
Se voi mancaste di questa sincerità, la vostra confessione sarebbe nulla e sacrilega (posono sembrare sottigliezzema non lo sono, perchè in realtà smascheranouna grave insincerità di fondo, laddove la sincerità verso il confessore, e quindi verso Dio, è essenziale; n.d.a.).
Evitate, fratelli miei, evitate questi mascheramenti: che il vostro cuore sia sulle vostre labbra.
Voi potreste anche imbrogliare il vostro confessore, ma ricordatevi bene che non potrete ingannare il buon Dio, che vede e conosce i vostri peccati meglio di voi.
Se talvolta il demonio, quel maledetto satana, vi tentasse per farvi nascondere o mascherare qualche peccato, fate subito questa riflessione: «Ma io mi renderò ancora più colpevole di quello che sono; commetterei un peccato molto più orribile di quello che vorrei nascondere, poichè sarebbe un sacrilegio; io posso benissimo nasconderlo al prete, ma Dio lo conosce meglio di me; presto o tardi, bisognerà pure che lo dichiari, oppure dovrò decidere di andare a bruciare eternamente all’inferno.
Avrò una piccola umiliazione dicendolo, è vero, ma che cos’è questo in confronto a quell’altra umiliazione pubblica ed eterna?
Un malato, dovete dire a voi stessi, che desidera la guarigione, non teme di scoprire le malattie più vergognose e più segrete, per potervi applicare i rimedi; e io dovrei temere di scoprire le piaghe della mia povera anima al mio medico spirituale, affinchè mi guarisca?
Potrei mai rimanere in uno stato di dannazione per il resto della mia vita?».
Se non vi sentite il coraggio di dichiarare certi peccati, dite al sacerdote: «Padre mio, ho un peccato che non oso dirti, aiutami, per favore».
Sebbene questa disposizione sia imperfetta, tuttavia ciò ve la farà accusare: cosa assolutamente necessaria.
In terzo luogo, dico che la confessione deve essere prudente: ciò significa che bisogna accusare i propri peccati con termini onesti; e inoltre, che non bisogna far conoscere i peccati degli altri, senza necessità.
Dico “senza necessità”, perchè può essere qualche volta che ciò sia necessario, allorchè non si possa fare altrimenti, se non far conoscere le colpe altrui, come per esempio: avete avuto la disgrazia di commettere un peccato contro la santa virtù della purezza, e ciò, insieme a uno o una dei vostri parenti; bisognerà dire questa circostanza, altrimenti fareste un sacrilegio (in quanto cambia la specie del peccato; n.d.a).
Ammettiamo che vi troviate in una casa dove ci sia una persona che vi induce al male: voi siete obbligati a dirlo, poichè vi trovate nell’occasione prossima del peccato.
Ma dicendo ciò, dovete avere l’intenzione di accusare i vostri peccati, e non quelli degli altri.
In quarto luogo, ho detto che la confessione deve essere intera, e cioè che bisogna dichiarare tutti i peccati mortali, secondo la specie, il numero, e le circostanze necessarie.
Ho detto per prima cosa la specie: non basta dire in generale che si è molto peccato, ma bisogna dire anche quali sono queste specie di peccati che si sta accusando: se si tratta di furto, di menzogna, d’impurità, e tutto il resto.
Ma non basta neppure dire la specie, bisogna anche dire il numero.
Ad esempio, se diceste: «Padre mio, mi accuso di essere mancato alla Messa, di aver rubato, di aver parlato male, di aver fatto delle cose disoneste»: tutto questo non sarebbe abbastanza; bisogna dire quante volte lo avete fatto; dovete anche entrare nei dettagli, specificare certe circostanze.
Ma può darsi che non comprendiate che cosa sia una circostanza: vuol dire le particolarità che accompagnano i nostri peccati, che li rendono più o meno colpevoli, o più o meno scusabili; e queste circostanze riguardano soprattutto la persona con la quale si pecca, se è una parente, e di quale grado, padre, madre, fratello, sorella, una figlioccia col suo padrino, un figlioccio con la sua madrina, un cognato con una cognata.
In secondo luogo riguardano la qualità o quantità dell’oggetto che è materia del peccato; in terzo luogo, il motivo che vi induce a peccare; in quarto luogo, il tempo in cui avete peccato, se era di domenica, se è stato durante gli uffici sacri; in quinto luogo riguardano il posto in cui avete peccato, se si tratta di un luogo consacrato alla preghiera, e cioè una chiesa; in sesto luogo la maniera in cui avete commesso il peccato, e infine, quali sono state le conseguenze di quel peccato.
Vi sono anche delle circostanze che cambiano la specie del peccato, e cioè che generano un peccato di un’altra natura.
Per esempio, commettere atti impuri con una persona sposata è adulterio; con una parente, è incesto; fermarsi su un cattivo pensiero, acconsentire a un cattivo desiderio, a uno sguardo cattivo, è un peccato contro la castità, ma se lo si fa dentro una chiesa, diventa una profanazione di un luogo santo, è una specie di sacrilegio.
Ecco le circostanze che cambiano la specie del peccato.
Ci sono delle circostanze che, senza cambiarla, la aggravano molto, per esempio: colui che compie qualche peccato alla presenza di molte persone, o davanti ai figli; colui che bestemmia il santo Nome di Dio, che nutre propositi disonesti, che diffonde una maldicenza davanti a molte persone, ha fatto un peccato più grande di colui che lo abbia fatto davanti a poche persone; colui che ha detto delle parole disoneste, per ore intere, ha compiuto un peccato più grande che se le avesse dette solo per un po’ di tempo.
Parlare male per odio, per invidia, per risentimento, è un peccato molto più grave che se lo fosse fatto solo per leggerezza.
Ubriacarsi, andare alla danza, al ballo, al cabaret, di domenica, è un peccato più grave che andarci in un giorno lavorativo, perchè quel giorno è consacrato a Dio in una maniera particolare.
Ecco, fratelli miei, le circostanze che bisogna dichiarare, senza le quali, tremate per le vostre confessioni.
Ahimè! dove sono quelli che prendono queste precauzioni?
Che equivale a dire: dove sono quelli che fanno delle buone confessioni?
Lo si vede bene, dal loro modo di vivere.
Bisogna accusare anche se si tratta di un peccato abitudinario, e da quanto tempo dura quest’abitudine; se i peccati che si sono commessi, li si è compiuti per malizia o con riflessione, e le conseguenze di questi peccati, perchè solo in questa maniera possiamo farci conoscere dal confessore.
Guardate un malato nei confronti del suo medico; come si comporta?
Egli gli scopre non solo il suo male, ma anche gli inizi e lo sviluppo; e lo fa con i termini più chiari possibile.
Se il medico non lo comprende, egli lo ripete, non nasconde e non maschera nulla di tutto ciò che creda essere necessario per far conoscere la sua malattia e procurargli la guarigione.
Ecco, fratelli miei, come dobbiamo comportarci verso il nostro medico spirituale, per metterlo nella condizione di conoscere bene le piaghe della nostra anima, e cioè così come noi stessi ci conosciamo davanti a Dio.
Ho detto anche che bisogna specificare il numero.
Ricordatevi bene che se non dite anche il numero dei vostri peccati mortali, le vostre confessioni non valgono nulla; dovete dire quante volte si sia caduti nello stesso peccato, poichè ogni volta è un nuovo peccato.
Se avete commesso tre volte un peccato, ma diceste solo due volte, quello che avete trascurato sarebbe la causa per cui la vostra confessione sarebbe un sacrilegio, se si tratta di un peccato mortale, come si suppone.
Ahimè! fratelli miei, quanti tra coloro che sono caduti in questa colpa, gli uni bruciano nell’inferno, e gli altri forse non ripareranno mai questa catena di confessioni e di comunuoni sacrileghe!
Essi si accontenteranno di dire: «Padre mio, mi accuso di aver parlato male, di avere giurato»;
«Ma quante volte?», chiederà loro il sacerdote.
«Non molto spesso, qualche volta».
E’ forse questa, fratelli miei, una confessione completa?
Ahimè! quanti dannati! quante anime riprovate!.
Lo sapete, fratelli miei, quando è permesso dire «molte volte, all’incirca»?; è quando fate una confessione lunga (che abbraccia un lungo tempo), allorchè vi sia impossibile dire esattamente quante volte avete fatto un certo peccato; allora, ecco cosa dovete fare: dite quanto tempo è durata quell’abitudine, quante volte, pressappoco vi siete caduti, se per settimane, per mesi o per anni; se l’abitudine è stata interrotta per qualche tempo, e in questo modo vi avvicinerete al numero preciso, per quanto possibile.
Se malgrado tutta la cura che vi siete presa nel vostro esame di coscienza, è rimasto fuori qualche peccato, la vostra confessione non smetterà di essere valida; vi basterà dire, nella prossima confessione: «Padre mio, mi accuso di avere dimenticato involontariamente un peccato nella mia ultima confessione», e così verrà compreso tra quelli che avete già accusati.
E’ per questo che, quando vi accusate, voi dite: «Padre mio, mi accuso di questi peccati e di quelli che non mi ricordo» (la meticolosa e quasi pignola analisi dei peccati mortali, che il curato richiede dal penitente, come già abbiamo notato, non è affatto da attribuire a lui, ma alla prassi obbligatoria della Chiesa di quel tempo; in ogni caso, occorre dire che oggi si esagera nel senso opposto, e che nella Bibbia è scritto: «Non ti impigliare due volte nel peccato, perchè neppure di uno solo resterai impunito»: Siracide 7,8!; n.d.a).
Quanto poi ai peccati veniali, in cui si cade così spesso, non si è obbligati a confessarsene, perchè questi peccati non ci fanno perdere la grazia e l’amicizia del buon Dio, e si può ottenerne il perdono con altri mezzi, e cioè con la semplice contrizione del cuore, con la preghiera, il digiuno, l’elemosina e il santo sacrificio della Messa.
Tuttavia il Concilio di Trento insegna che è molto utile confessarsene (sess.14, cap.5).
Eccovene le ragioni:
1°- perchè spesso un peccato che noi crediamo veniale, davanti a Dio può essere mortale;
2°- perchè ne riceviamo più facilmente il perdono per mezzo del sacramento della Penitenza;
3°- perchè la confessione dei nostri peccati veniali ci rende più vigilanti su noi stessi;
4°- perchè i consigli del confessore possono aiutarci a correggerci;
5°- perchè l’assoluzione che riceviamo, ci dona le forze per farceli evitare.
Ma se li confessiamo, dobbiamo farlo con rammarico e col desiderio di correggercene: altrimenti ci esporremo a commettere un sacrilegio.
E’ per questo che, secondo il consiglio di san Francesco di Sales, allorchè non avete da rimproverarvi altro che dei peccati veniali, bisogna, alla fine della vostra confessione, accusarvi di un grosso peccato della vostra vita passata, dicendo: «Padre mio, mi accuso di avere in altri tempi commesso un certo peccato», dicendo, come se non l’avessimo mai confessato, le circostanze e il numero delle volte che lo abbiamo commesso (ci sembra che quest’ultimo consiglio sia un po’ artificioso: tanto varrebbe allora, evitare del tutto le confesioni cosiddette “devozionali”, fatte cioè solo per i peccati veniali; n.d.a).
Ecco, pressappoco, fratelli miei, le qualità che deve avere una confessione, per essere valida.
Adesso sta a voi esaminare se le vostre confessioni passate siano state accompagnate da tutte le qualità di cui abbiamo appena parlato.
Se vi ritrovate colpevoli, non perdete tempo: può darsi che nel momento in cui vi riprometterete di ritornare sui vostri passi, voi non siate più al mondo, che voi già bruciate nell’inferno, col rimpiato per non avere compiuto ciò che potevate fare così facilmente mentre eravate sulla terra, avendo avuto tutti i mezzi necessari per questo.
Vediamo ora, in poche parole, in quante maniere possiamo venir meno a queste disposizioni.
Voi sapete, fratelli miei, perchè lo avete appreso fin dall’infanzia, che l’integrità e la sincerità sono le qualità assolutamente necessarie per fare una buona confessione, e cioè per avere la felicità di ricevere il perdono dei vostri peccati.
Il mezzo più sicuri per fare una buona confessione è dichiarare i vostri peccati con semplicità, dopo esservi ben esaminati; poichè un peccato trascurato per mancanza di esame, sebbene se l’aveste conosciuto lo avreste detto, non cesserà, comunque, di rendere la vostra confessione sacrilega.
Tuttavia, fratelli miei, si trova un gran numero di cristiani che vanno a confessarsi spesso, senza neppure pensare alle loro colpe, o, almeno, ci pensano in una maniera così leggera che, quando si confessano, essi non hanno niente da dire se il prete non li esamina lui stesso.
Succede soprattutto tra quelli che si confessano raramente, che spesso non temono di mentire a Dio stesso, nascondendo volontariamente dei peccati che la loro coscienza rimprovera loro, e che, dopo una simile confessione, hanno l’ardire di andarsi a presentare alla Tavola santa per mangiare, come dice san Paolo, la loro stessa condanna (1 Corinzi 11,29!).
Ma ecco, fratelli miei, quelli che sono più soggetti a fare delle cattive confessioni: sono coloro che, per qualche tempo, hanno adempiuto fedelmente i loro doveri religiosi.
Il demonio, che non risparmia nulla pur di farli perdere, li tenta orribilmente.
Se essi giungono a soccombere, spaventati per la vergogna di farsi riconoscere così colpevoli, sono condotti a una fine molto sciagurata.
Essi hanno l’abitudine di andare a confessarsi in una certa festa, tuttavia temono che se non vanno a confessarsi vengano notati; ma non vorrebbero confessarsi colpevoli, e allora cosa fanno? non dicono il loro peccato, e cominciano una catena di sacrilegi che forse durerà fino alla morte, senza avere la forza di spezzare una buona volta quella catena.
Sarà il caso di un uomo che non voglia restituire una cosa che ha rubato, o riparare un’ingiustizia che ha compiuto, o non più incassare gli interessi usurai dal suo denaro; o, se volete ancora, una moglie o una giovane che abbia qualche frequentazione cattiva e che non vorrebbe interromperla.
E che partito prendono queste persone? Ecco: è quello di non dire nulla, e di indirizzarsi volontariamente sulla strada dell’inferno.
Amici miei, vi dirò: voi vi accecate terribilmente; chi pensate di ingannare, e a chi volete nascondere il vostro peccato? non è a un uomo, ma a Dio stesso, che lo conosce molto meglio di voi, che vi aspetta nell’altra vita per punirvi non per un momento, ma per una eternità (purtroppo ai nostri giorni, con tanti impostori, imbonitori delle folle, la moralità ha perso questosuo mordente fondamentale; n.d.a.).
E quanti ce ne sono in questo numero! Persone che fanno professione di pietà e che si lasciano ingannare con queste miserabili considerazioni: «Che penseranno di me, se non mi vedono fare la Comunione, come al solito?».
Questa considerazione li blocca e li getta nel sacrilegio.
O mio Dio! si può mai vivere tranquilli dopo ciò?
Ma, grazie a Dio, queste anime nere e votate all’iniquità non sono la maggioranza.
Ma ecco la catena con la quale il demonio ne trascina la maggior parte all’inferno: sono coloro che, dichiarando i loro peccati, li nascondono con il modo in cui li accusano; non li si conosce meglio dopo la confessione, di quanto non li si conoscesse prima!
Chi potrebbe narrare, poi, tutti i mascheramenti, tutti gli artifici che il demonio ispira loro per farli perdere e per ingannare il confessore? Ve li mostrerò.
In primo luogo dico: il mascheramento nel modo di accusarli; questi tali si serviranno dei termini più capaci di diminuirne la vergogna.
Qual è la preparazione di alcuni?
Non è quella di domandare a Dio la grazia di riconoscere bene i loro peccati, ma di tormentarsi su come riuscire a dirli, provandone meno vergogna.
Senza quasi accorgersene, essi li affievoliscono notevolmente; gli scatti di collera diventeranno solo delle impazienze, i discorsi più indecenti non saranno altro che delle parole un po’ troppo libere; i desideri più vergognosi, le azioni più infami, non saranno altro che delle familiarità poco decenti; le ingiustizie più enormi, diventeranno solo dei piccoli torti; gli eccessi dell’avarizia diventeranno solo un attaccamento un po’ troppo grande ai beni della terra.
Di modo che, quando la morte arriverà, e Dio farà vedere loro i peccati così come sono, allora riconosceranno che hanno detto i loro peccati solo a metà, in quasi tutte le loro confessioni.
E che cosa ne seguirà, se non una catena di sacrilegi?
O mio Dio! ci si può mai pensare e non imparare a essere più sinceri nelle proprie confessioni, per avere la felicità di ricevere il perdono?
In secondo luogo, dico che si mascherano i propri peccati riguardo alle circostanze che non si ha cura adeguata di dichiarare, e che spesso sono più criminali delle stesse azioni: per esempio, una persona la cui unica occupazione è quella di parlare male, di censurare, o forse anche di calunniare, si accuserà di avere detto delle parole “svantaggiose” verso il prossimo; ma non dice che fu per orgoglio, per invidia, per odio e per risentimento; nè dice quale perdita abbia prodotto alla reputazione del suo prossimo.
Al contrario, se le si domanda se quelle parole abbiano nociuto al prossimo, questa persona risponde tranquillamente di no, senza avere esaminato bene se sì oppure no.
Voi dite che avete parlato male, ma non dite se lo avete fatto contro il vostro pastore o un’altra persona consacrata a Dio, la cui reputazione è assolutamente necessaria per il bene della religione; non dite se quello che avete detto è falso, e cioè se si tratta di una calunnia; vi accusate di aver detto delle parole contro la religione e contro la modestia, ma non dite che la vostra intenzione era quella di far vacillare la fede di quel giovane, per persuaderlo ad acconsentire ai vostri cattivi desideri, dicendogli che non vi era nessun male in quella cosa, e che non bisognava confessarsene.
Una giovane dirà che si è abbigliata col desiderio di piacere agli altri; ma non dirà che la sua vera intenzione era quella di dar luogo a dei cattivi pensieri.
O mio Dio! non si dovrebbe relegare tali persone nel fondo delle foreste, dove i raggi del sole non abbiano potuto mai penetrare?
Un padre si accuserà di essere andato al cabaret, e di essersi ubriacato; ma non dirà che è servito di scandalo a tutta la sua famiglia.
Una madre dirà sì, che ha detto parole cattive contro il suo prossimo e che è montata in collera; ma non dirà che i suoi figli e i suoi vicini ne sono stati testimoni.
Un altro si accuserà sì, di aver avuto o permesso delle familiarità poco decenti, ma non dirà che la sua intenzione era quella di peccare con quella persona, se avesse potuto sedurla, o se non avesse avuto paura degli altri.
Costui dirà sì, che è mancato alla santa Messa di domenica, ma non dirà che ha fatto mancare anche altri, oppure che molte persone lo hanno visto, cosa che le ha scandalizzate, e forse anche i suoi figli o i suoi domestici.
Voi vi accusate sì, di essere andati al cabaret, ma non dite che è stato di domenica, e durante la Messa o i Vespri; che la vostra intenzione era di portarne altri con voi, se lo aveste potuto.
Voi non dite che siete usciti dalla chiesa per andare al cabaret, e che è stato durante l’istruzione, infischiandovene di quello che diceva il vostro pastore.
Voi vi accusate sì, di aver mangiato carne nei giorni proibiti; ma non dite che lo avete fatto per prendervi gioco della vostra religione e per disprezzare le sue sante leggi.
Voi dite sì, che avete pronunciato parole sporche, ma non dite che è stato perchè avevate davanti agli occhi una persona di pietà, con lo scopo quindi di screditare la religione e distruggerla nel suo cuore.
Voi dire ancora che lavorate di Domenica, ma non dite che è per avarizia, disprezzando i divieti della Chiesa.
Vi accusate di avere dei cattivi pensieri, ma non dite che vi siete offerta voi stessi l’occasione, andando volontariamente con persone che sapevate molto bene che non avevano altro che cattivi propositi da sfornare.
Voi dite sì, che non avete ascoltato la santa Messa, come si deve, ma dimenticate di dire che ne avete dato occasione arrivando fino alla porta della chiesa senza prepararvi; forse vi siete entrati senza fare un atto di contrizione, ma non dite nulla di tutto ciò, e tuttavia una buona parte di circostanze mancanti, possono rendere sacrileghe le vostre confessioni.
O quanti cristiani dannati, perchè non hanno saputo confessarsi!
Voi, forse, vi siete accusati di non essere bene istruiti, ma avete mancato di dire che non conoscevate i principali misteri della fede, che bisogna assolutamente conoscere per essere salvati.
Avete dimenticato di dire che non osate domandare al vostro confessore di interrogarvi, per sapere se siete sufficientemente istruiti per non dovervi dannare, e per ricevere i sacramenti degnamente; forse non ci avete mai neppure pensato!
O mio Dio! quanti cristiani perduti!
In terzo luogo, chiamo mascheramento anche il tono della voce che si impiega nel dichiarare certi peccati più umilianti, cercando di esporli in maniera tale che il confessore possa ascoltarli, senza porvi molta attenzione.
Si comincerà con l’accusare tanti piccoli peccati, come: «Padre mio, mi accuso di aver mancato di prendere l’acqua benedetta la mattina e la sera, di aver avuto delle distrazioni durante la preghiera, e altre cose simili»; poi, dopo aver “addormentato”, meglio che possono, l’attenzione del confessore, con una voce un po’ più bassa e nella maniera più rapida, si “glissa” sulle abominazioni e sugli orrori.
Insensati! si potrebbe dire loro, qual è quel demonio che vi ha così sedotti da indurvi a tradire miserevolmente la verità?
Ditemi, fratelli miei, qual è il motivo che vi può portare a mentire in questo modo, durante la confessione?
E’ forse la paura che il confessore si faccia una cattiva opinione di voi?
Vi sbagliate.
Sperate forse che i peccati, detti in tale maniera, vi saranno perdonati?
Vi sbagliate ancora grossolanamente.
Ma, ditemi, perchè venite a dire al confessore una parte dei vostri peccati, con la speranza di ingannarlo? Ma sapete bene che non ingannerete Dio, dal quale dovete ricevere il vostro perdono.
Ditemi, quell’assoluzione che avete presa di soppiatto, potete mai immaginare che venga ratificata in cielo?
Ahimè! fratelli miei, tale è l’accecamento di alcuni peccatori che osano persuadersi che, purchè abbiano ottenuto un’assoluzione, non importa se abbiano detto o non detto tutti i peccati, che abbiano ingannato o no il loro confessore, saranno perdonati lo stesso.
Ma ditemi, peccatori ciechi, peccatori induriti e venduti all’empietà, io vi chiedo: siete contenti di quest’assoluzione, quando siete usciti dal tribunale della penitenza?
Avete provato quella pace e quella dolce consolazione che è la ricompensa di una confessione ben fatta?
Non siete stati, al contrario, obbligati, per calmare i vostri rimorsi di coscienza, a dire a voi stessi che un giorno dovrete rifare la confessione che avete appena fatto?
Ma, amico mio, a conti fatti, avresti fatto cento volte meglio a non confessarti proprio.
Lo sai bene che tutti i peccati che hai confessato così, non ti sono stati perdonati, senza parlare di quelli che hai nascosti del tutto.
Non eri già abbastanza colpevole? perchè hai voluto aggiungere a tutti i tuoi enormi peccati, un orribile sacrilegio?
«Ma, mi dirai, volevo fare la Comunione, perchè ero abituato a comunicarmi in quel giorno».
Ma ti sbagli; dovresti dire che volevi commettere un sacrilegio, e seppellirti più profondamente nell’inferno!
O forse pensavi di non essere abbastanza colpevole per andare all’inferno, e avevi paura di andare a finire in cielo?
Ah! non ti tormentare tanto, tu hai abbastanza peccati per non andare in cielo e per essere precipitato nelle fiamme!
Ahimè! non vi dico niente di tutte quelle confessioni sacrileghe per difetto di contrizione, che, da sole, fanno dannare più gente di tutti gli altri peccati.
Spero che un giorno ve ne parlerò.
Non è forse vero, amico mio, che tu speri di riparare al male che hai fatto?
«Sì, mi rispondi».
Ahimè! amico mio, trema perchè questo tempo ti venga concesso e che, come unica preparazione, tu non abbia, in punto di morte, nient’altro che i tuoi sacrilegi!
Vuoi conoscere la ricompensa di queste profanazioni?
Eccola: indurimento, durante la vita, e disperazione nell’ora della morte.
Tu hai ingannato il tuo confessore, ma non il buon Dio, ed è Lui che ti giudicherà.
Che cosa dovete fare, fratelli miei, per evitare un male così terribile?
Affrettatevi a riparare tutti i difetti delle vostre confesioni passate, con un’accusa sincera e intera.
Comprendete che, altrimenti, giammai Dio vi perdonerà nè i vostri peccati nascosti, nè le vostre confessioni sacrileghe.
I vostri peccati nascosti, verranno pubblicati in faccia a tutto l’universo, mentre, se li aveste confessati bene, mai nessuno ve li potrebbe rimproverare.
Fremete, fratelli miei, alla vista della terribile disperazione che vi attende nell’ora della morte, allorchè i vostri sacrilegi si scaglieranno sopra di voi per rapirvi ogni speranza di perdono.
Ricordate l’esempio di Anania e di sua moglie, che caddero morti ai piedi di san Pietro per avergli mentito (Atti 5).
Ricordatevi ancora la terribile punizione di quella ragazza, riportata da sant’Antonino…
Fratelli miei, che tutte queste considerazioni vi spingano a fare tutte le vostre confessioni secondo le regole che vi ho appena tracciato, e così sarete sicuri che troverete nelle vostre confessioni il perdono dei vostri peccati, la pace dell’anima e la vita eterna alla fine dei vostri giorni.
E’ quello che vi auguro.
“Guai a me, perchè ho peccato troppo nella mia vita”
(Confessioni di sant’Agostino, lib.II: cap.10)
Tale era, fratelli miei, il linguaggio di sant’Agostino, allorchè ripercorreva gli anni della sua vita, durante i quali si era tuffato con tanto furore nel vizio infame della impurità.
«Ah! povero me, perchè ho molto peccato nei giorni della mia vita».
E ogni volta che questo pensiero gli ritornava alla mente, si sentiva il cuore divorato e lacerato dal dispiacere.
«O mio Dio! egli gridava, una vita trascorsa senza amarti! o mio Dio! quanti anni perduti!
Ah! Signore, degnati, ti scongiuro, di non ricordare più le mie colpe passate!».
Ah! lacrime preziose, ah! dispiaceri salutari, che, di un grande peccatore, hanno fatto un così grande santo.
Oh! come un cuore straziato dal dolore, ha ben presto riguadagnato l’amicizia del suo Dio!
Ah! piacesse a Dio che ogni volta che ci rimettiamo i nostri peccati davanti agli occhi, anche noi potessimo dire con lo stesso dispiacere di sant’Agostino:
Ah! guai a me, perchè ho molto peccato durante gli anni della mia vita!
Mio Dio, abbi misericordia!
Oh! come subito colerebbero le nostre lacrime, e come la nostra vita non sembrerebbe più la stessa!
Sì, fratelli miei, conveniamone tutti, quanti siamo presenti, con tanto dolore quanta sincerità, che siamo dei criminali, degni di sopportare la collera di un Dio giustamente irritato per i nostri peccati, che, forse, si sono moltiplicati più dei capelli della nostra testa.
Ma benediciamo per sempre la Misericordia di Dio che ci apre con i suoi tesori, una risorsa per le nostre disgrazie!
Sì, fratelli miei, per quanto grandi siano i nostri peccati, per quanto sregolata possa essere stata la nostra condotta, noi siamo sicuri di ottenere il perdono, se, ad esempio del figlio prodigo, ci andiamo a gettare, con un cuore infranto dal dolore, ai piedi del migliore di tutti i padri.
Qual è il mio progetto, fratelli miei?
Eccolo: è quello di mostrarvi che, per ottenere il perdono dei propri peccati, occorre:
1- che il peccatore odi e detesti sinceramente i suoi peccati, per mezzo della contrizione, la quale deve possedere quattro qualità;
2- bisogna che egli abbia concepito il fermo proposito di non ricadervi più.
Vedremo in che modo si può riconoscere di avere veramente un fermo proposito.
Per farvi comprendere che cos’è la contrizione, cioè il dolore che dobbiamo avere per i nostri peccati, bisognerebbe potervi far conoscere, da un lato, l’orrore che Dio ne ha avuto Lui stesso, i tormenti che Egli ha sopportato per ottenercene il perdono da Suo Padre; e dall’altro lato, i beni che perdiamo peccando, e i mali che ci attiriamo per l’altra vita: e questo, non sarà mai dato all’uomo di poterlo comprendere.
Dove vi condurrò, fratelli miei, per farvelo comprendere?
Sarà forse nel fondo dei deserti, dove tanti grandi santi hanno trascorso venti, trenta quaranta, cinquanta, e perfino ottant’anni, a piangere per delle colpe che, secondo il mondo, non sono nemmeno colpe?
Ah! no, no, il vostro cuore non ne sarebbe ancora toccato.
Sarà forse alla porta dell’inferno per ascoltare le grida, le urla e gli stridori di denti, prodotti dal solo dispiacere dei loro peccati?
Ah! dolore amaro, ma dolore e dispiaceri infruttuosi e inutili!
Ah! no, no, fratelli miei, non è ancora lì che voi imparerete a piangere i vostri peccati con il dolore e il dispiacere che dovreste averne!
Ah! è ai piedi di quella Croce ancora tinta del Sangue prezioso di un Dio, che lo ha sparso unicamente per cancellare i nostri peccati!
Ah! se mi fosse permesso di condurvi in quel giardino di dolori, dove un Dio, uguale a Suo Padre, piange i nostri peccati, non con lacrime ordinarie, ma con tutto il Suo Sangue, che sgorga da tutti i pori del Suo Corpo, e dove il Suo dolore è così violento, che lo getta in una agonia che sembra togliergli la vita, tanto essa gli strazia il cuore.
Ah! se potessi condurvi al Suo seguito, mostrarvelo carico della Croce per le vie di Gerusalemme: quanti passi, tante cadute, e tante le volte che è fatto sollevare a colpi di piede.
Ah! se potessi farvi avvicinare a questo Calvario, dove un Dio muore piangendo i nostri peccati!
Ah! diremo ancora, occorrerebbe che Dio ci donasse quell’amore ardente di cui aveva infiammato il cuore del grande Bernardo, al quale, la sola vista della Croce, faceva versare lacrime con tanta abbondanza!
Ah! bella e preziosa contrizione, quanto è felice colui che ti possiede!
Ma a chi sto parlandone, chi è colui che la racchiude nel suo cuore?
Ahimè! non ne so nulla.
Sarà forse a questo peccatore indurito che, forse, dopo vent’anni, o trent’anni ha abbandonato il suo Dio e la sua anima?
Ah! no, no, sarebbe come fare la stessa cosa di colui che volesse ammorbidire una roccia gettandovi sopra dell’acqua, mentre non farebbe che indurirla ancora di più.
Sarà forse a questo cristiano, che ha disprezzato missione, ritiro e giubileo, e tutti gli insegnamenti dei suoi pastori?
Ah! no, no, sarebbe come voler riscaldare l’acqua mettendovi dentro del ghiaccio.
Sarà forse a queste persone, che si accontentano di fare le loro pasque, continuando il loro genere di vita, e che tutti gli anni hanno da riferire sempre gli stessi peccati?
Ah! no, no, essi sono come le vittime che la collera di Dio fa ingrassare, per servire da alimento alle fiamme eterne (non ci si scandalizzi: è la medesima immagine che usa la Sacra Scrittura nella lettera di Giacomo 5,5; n.d.a.).
Ah! per meglio dire, essi assomigliano a dei criminali che hanno gli occhi bendati, e che, in attesa di essere giustiziati, si lasciano andare a tutto ciò che il loro cuore corrotto può desiderare.
O sarà forse, ancora, a quei cristiani che si confessano ogni tre settimane o ogni mese, e che ricadono ogni giorno?
Ah! no, no, essi sono come ciechi che non sanno nè quello che fanno nè quello che devono fare.
A chi potrò, dunque, rivolgere la parola?
Ahimè! non lo so…
O mio Dio! dove bisogna andare per trovarla (si riferisce alla contrizione), a chi bisogna chiederla?
Ah! Signore, io so da dove viene e chi la dona: essa viene dal cielo e sei Tu che la doni.
O mio Dio! donaci, per favore, questa contrizione che lacera e divora i nostri cuori!
Ah! questa bella contrizione che disarma la Giustizia di Dio, che cambia la nostra eternità infelice in una eternità felice!
Ah! Signore, non rifiutarci questa contrizione, che ribalta tutti i progetti e gli artifici del demonio; questa contrizione che ci ridona prontamente l’amicizia di Dio!
Ah! bella virtù, quanto sei necessaria, ma quanto sei rara!
Tuttavia senza di essa, non c’è perdono, senza di essa, niente cielo; diciamo di più, senza di essa, tutto è perduto per noi, penitenze, carità ed elemosine, e tutto ciò che noi possiamo fare!
Ma, state pensando in voi stessi, che cosa vuol dire questa parola “contrizione”, e da quale segno si può riconoscere di averla?
Amico mio, desideri saperlo?
Ecco. Ascoltami un momento: così vedrete se ce l’avete sì o no, e poi il mezzo per ottenerla.
Entriamo nel dettaglio con molta semplicità.
Se mi domandi: Che cos’è la contrizione? ti dirò che è un dolore dell’anima e una detestazione dei peccati che si sono commessi, insieme a una ferma risoluzione di non cadervi mai più.
Sì, fratelli miei, questa disposizione è la più necessaria di tutte quelle che Dio ci chiede per perdonare il peccatore; non solamente è necessaria, ma io aggiungo anche che nulla ci può dispensare da essa.
Una malattia che ci tolga l’uso della parola, ci può dispensare dalla confessione, una morte improvvisa, ci può dispensare dalla soddisfazione, almeno in questa vita; ma non è la stessa cosa per la contrizione; senza di essa è impossibile, e assolutamente impossibile, ottenere il perdono dei propri peccati.
Sì, fratelli miei, possiamo dire gemendo che è questo difetto di contrizione che è la causa di un numero infinito di confessioni e di comunioni sacrileghe; ma, ciò che è ancora più deplorevole, è il fatto che non ce ne si accorge quasi mai, e che si vive e si muore in questo stato sciagurato.
Sì, fratelli miei, nulla di più facile da comprendere.
Se abbiamo avuto la disgrazia di nascondere un peccato nelle nostre confessioni, questo crimine è continuamente davanti ai nostri occhi, come un mostro che sembra divorarci, ciò che fa in modo che sia ben raro che non ce ne scarichiamo una volta o l’altra.
Ma, riguardo alla contrizione, non è la stessa cosa; noi ci confessiamo, il nostro cuore non è per niente coinvolto nell’accusa che facciamo dei nostri peccati, riceviamo l’assoluzione, ci accostiamo alla santa tavola, con un cuore così freddo, così insensibile, così indifferente, come se stessimo tornando dal racconto di una storia; procediamo di giorno in giorno, di anno in anno, e infine arriviamo alla morte, credendo di aver fatto qualcosa di buono; ma non troviamo e non vediamo che crimini e sacrilegi che le nostre confessioni hanno generato.
O mio Dio, quante confessioni cattive per difetto di contrizione!
O mio Dio! quanti cristiani che al momento della morte non troveranno che confessioni indegne.
E mi fermo qui, per paura di turbarvi; dico, di turbarvi.
Ah! ma è proprio adesso che bisognerebbe condurvi a due dita dalla disperazione, affinchè, colpiti dal vostro stato, poteste ripararlo, senza aspettare il momento in cui lo conoscerete ma senza poterlo riparare (meglio, dice il santo curato, vero innamorato delle sue pecorelle, e non del loro latte e della loro lana, cfr. Ezechiele 34,3!! condurre le anime “a due dita” dalla disperazione, piuttosto che esporle al pericolo della dannazione eterna dell’anima! n.d.a.).
Ma veniamo, fratelli miei, alla spiegazione, e vedrete se, ogni volta che vi siete confessati, avete avuto il dolore necessario, e assolutamente necessario, per avere la speranza che i vostri peccati siano perdonati.
Io dico che la contrizione è un dolore dell’anima.
Occorre, per vera necessità, che il peccatore pianga i suoi peccati, o in questo mondo o nell’altro.
O quanto dovremmo essere riconoscenti verso la Bontà di Dio, per il fatto che, al posto di quei rimpianti eterni e di quei dolori tra i più strazianti, che meritiamo di soffrire nell’altra vita, cioè nell’inferno, Dio si accontenti soltanto che i nostri cuori siano toccati da un vero dolore, che sarà seguito da una gioia eterna!
O mio Dio! come ti accontenti di poco!
Io dico che questo dolore deve avere quattro qualità; se ne manca anche una sola, non possiamo ottenere il perdono dei nostri peccati.
La sua prima qualità è: deve essere “interiore”, cioè deve venire dal profondo del cuore.
Essa, quindi, non consiste nelle lacrime: queste sono buone e utili, è vero, ma non sono necessarie.
Infatti, quando san Paolo e il buon ladrone si sono convertiti, non viene detto che essi abbiano pianto, benchè il loro dolore sia stato sincero.
No, fratelli miei, no, non è sulle lacrime che bisogna contare: esse stesse, sono a volte ingannevoli, tante persone piangono al tribunale della penitenza, e poi alla prima occasione ricadono.
Ma il dolore che Dio ci chiede è questo.
Ascoltate quello che ci dice il profeta Gioele: «Avete avuto la disgrazia di peccare? Ah! figli miei, spezzate e strappate i vostri cuori con il dispiacere! (Gioele 2,13)».
«Se avete perduto il Signore a causa dei vostri peccati, ci dice Mosè, cercatelo con tutto il cuore, nell’afflizione e nell’amarezza del vostro cuore» (?).
Perchè, fratelli miei, Dio vuole che il nostro cuore si penta?
E’ perchè è stato il nostro cuore a peccare: «E’ dal vostro cuore, dice il Signore, che sono nati tutti questi cattivi pensieri, tutti questi cattivi desideri» (Matteo 15,19); bisogna dunque, assolutamente, che se il nostro cuore ha fatto il male, esso si penta, senza di ciò, Dio non ci perdonerà mai.
Poi aggiungo che il dolore che dobbiamo provare per i nostri peccati, debba essere “soprannaturale”, e cioè, che sia lo Spirito Santo a suscitarlo in noi, e non le cause naturali.
Io distinguo: essere afflitti per aver commesso questo o quel peccato, perchè ci esclude dal Paradiso e ci merita l’inferno; questi motivi sono soprannaturali, è lo Spirito Santo che ne è l’Autore; questo ci può condurre a una vera contrizione.
Ma, affliggersi a causa della vergogna che il peccato porta necessariamente con sè, come anche a causa dei mali che ci attira addosso, come la vergogna di una persona che ha perso la reputazione, o di un’altra persona che è stata colta mentre rubava al suo vicino; tutto ciò è solo un dolore puramente naturale, che non merita affatto il nostro perdono.
Da ciò è facile immaginare che il dolore dei nostri peccati, che il pentimento per i nostri peccati, possono derivare o dall’amore che abbiamo verso Dio, o dal timore dei castighi.
Colui che nel suo pentimento non si riferisce se non a Dio, possiede una contrizione perfetta, disposizione così eminente, che essa purifica il peccatore di per se stessa, prima di aver ricevuto la grazia dell’assoluzione, ammesso che si trovi nella situazione di riceverla, se può.
Ma, quanto a colui che ha il pentimento dei suoi peccati, solo a causa dei castighi che i suoi peccati gli attirano, egli ha solo una contrizione imperfetta, che non lo giustifica affatto; ma essa lo dispone soltanto a ricevere la giustificazione nel sacramento della Penitenza.
La terza condizione della contrizione è che essa deve essere “sovrana”, cioè il più grande di tutti i dolori, più grande ancora, voglio dire, di quello che proviamo quando perdiamo i nostri genitori o la nostra salute, e, in generale, tutto ciò che abbiamo di più caro al mondo.
Se dopo aver peccato, non vi trovate in un simile dispiacere, tremate per le vostre confessioni.
Ahimè! quante volte, per la perdita di un oggetto di nove o dieci soldi, si piange, ci si tormenta per tanti giorni, fino a non voler mangiare; ahimè!… e per dei peccati, e spesso per dei peccati mortali, non si verserà nè una lacrima, nè si emetterà un sospiro.
O mio Dio, quanto poco l’uomo conosce quello che fa peccando!
-Ma, mi direte voi, perchè il nostro dolore deve essere così grande?
Amico mio, eccotene la ragione: esso deve essere proporzionato alla grandezza della perdita che subiamo, e alla disgrazia nella quale il peccato ci getta.
Da ciò, giudicate quale debba essere il nostro dolore, dal fatto che il peccato ci fa perdere il cielo, con tutte le sue dolcezze.
Ma che dico?
Ci fa perdere il nostro Dio, con tutta la Sua amicizia, e ci precipita nell’inferno, che è la più grande di tutte le disgrazie.
– Ma, pensate voi, come si può riconoscere se questa vera contrizione è in noi?
Niente di più facile.
Se l’avevate sincera, non agirete, non penserete più allo stesso modo, essa vi avrà cambiati totalmente nel vostro modo di vivere: odierete ciò che avevate amato, e amerete ciò che avevate fuggito e disprezzato; e cioè, se vi siete confessati di aver avuto orgoglio nelle vostre azioni e nelle vostre parole, bisogna adesso che facciate trasparire in voi una bontà, una carità verso tutti.
Non bisogna che siate voi stessi a giudicare se avete fatto o no una buona confessione, perchè potreste facilmente sbagliarvi; ma bisogna che le persone che vi hanno visto e sentito prima della confessione, possano dire: «Non è più lo stesso; un grande cambiamento si è operato in lui».
Ahimè! mio Dio! dove sono queste confessioni che operano un così gran bene?
Oh! quanto sono rare; ma lo sono anche quelle che sono fatte con tutte le disposizioni che Dio domanda!
Confessiamo, fratelli miei, a nostra confusione, che se noi sembriamo così poco coinvolti, ciò non può derivare che dalla nostra poca fede e dal nostro poco amore che abbiamo per Dio.
Ah! se avessimo la fortuna di comprendere quanto Dio è buono, e quanto il peccato è enorme, e quanto tetra è la nostra ingratitudine che ci fa oltraggiare un Padre così grande, ah! senza dubbio sembreremmo molto più afflitti di quando non lo siamo affatto.
– Ma, mi direte voi, io vorrei averla, questa contrizione, quando mi confesso, ma non riesco ad averla.
– Ma, che cosa vi ho detto all’inizio?
Non vi ho forse detto che essa viene dal cielo, e che è a Dio che bisogna domandarla?
Che cosa hanno fatto i santi, amico mio, per meritare questa felicità di piangere i loro peccati?
Essi l’hanno domandata a Dio, con il digiuno, la preghiera, con ogni genere di penitenze e di buone opere; perchè quanto alle lacrime, non dovete contarci affatto (il santo vuole dire che, da sole, le lacrime materiali non bastano, perchè è il cuore che deve piangere e compungersi; n.d.a.).
Ve lo dimostrerò: aprite i Libri santi, e ne sarete convinti.
Vedete Antioco, quanto piange, quanto domanda misericordia; tuttavia lo Spirito Santo ci dice che, piangendo, egli discese all’inferno (si riferisce sempre al malvagio Antioco Epifane di cui si parla nei libri dei Maccabei, e sul quale il santo ritorna spesso).
Vedete Giuda, egli ha concepito un così grande dolore del suo peccato, lo piange con tale abbondanza che finisce con l’impiccarsi.
Vedete Saul, egli lancia delle grida spaventose per aver avuto la disgrazia di disprezzare il Signore, tuttavia è all’inferno.
Vedete Caino, quante lacrime versa per aver peccato, tuttavia egli brucia.
Chi di noi, fratelli miei, se avesse visto colare tutte queste lacrime e questi pentimenti, non avrebbe creduto che il buon Dio li abbia perdonati?
Tuttavia nessuno di loro è perdonato; mentre Davide, nel momento stesso in cui disse: «Ho peccato», subito il suo peccato gli fu rimesso.
– E perchè avvenne ciò, mi direte voi? Perchè questa differenza, che cioè i primi non sono perdonati, mentre Davide lo è?
– Amico mio ecco perchè.
E’ perchè i primi non si pentono e non detestano i loro peccati se non a motivo dei castighi e dell’infamia che il peccato trascina necessariamente con sè, e non per riferimento a Dio; mentre Davide pianse i suoi peccati, non a causa dei castighi che il Signore stava per fargli subire, ma considerando l’oltraggio che il suo peccato aveva fatto a Dio.
Il suo dolore fu così vivo e così sincero, che Dio non potè rifiutargli il suo perdono.
E voi, avete domandato a Dio la contrizione, prima di confessarvi?
Ahimè! forse non lo avete fatto mai.
Ah! tremate per le vostre confession; ah! quanti sacrilegi! o mio Dio! quanti cristiani dannati!
Si narra nella vita dei santi, riguardo al dolore universale che dobbiamo avere per i nostri peccati, che se noi non li detestiamo tutti, non saranno perdonati nè gli uni nè gli altri (cioè neanche quelli che detestiamo; n.d.a.).
Si racconta che san Sebastiano, stando a Roma, faceva i miracoli più eclatanti, che riempivano di ammirazione il governatore Cromo, il quale, in quel tempo, essendo accasciato per le sue infermità, desiderava ardentemente di vederlo, per chiedergli la guarigione dai suoi mali.
Allorchè il santo fu davanti a lui, gli disse: «E’ da lungo tempo che io gemo, coperto di piaghe, senza aver potuto trovare un uomo al mondo, che potesse liberarmi; corre voce che tu ottieni tutto quello che vuoi, dal tuo Dio; se vorrai chiedergli la mia guarigione, io ti prometto che diventerò cristiano»
– «Ebbene! gli dice il santo, se tu sei in questa risoluzione, ti prometto da parte del Dio che io adoro, che è il Creatore del cielo e della terra, che nel momento stesso in cui avrai frantumato tutti i tuoi idoli, sarai perfettamente guarito».
Il governatore gli dice: «Non soltanto sono pronto a fare questo sacrificio, ma anche di più grandi, se è necessario».
Essendosi separati l’uno dall’altro, il governatore comincia a spezzare i suoi idoli; l’ultimo che aveva preso per frantumarlo, gli sembrò così degno di riguardo, che non ebbe il coraggio di distruggerlo; egli si persuase che questa riserva non gli avrebbe impedito la guarigione.
Ma, risentendo i dolori, più violenti che mai, in preda al furore, va a trovare il santo, facendogli i rimproveri più sanguinosi, poichè, dopo avere frantumato i suoi idoli, come gli aveva comandato, ben lungi dall’essere guarito, soffriva ancora di più.
«Ma, gli dice il santo, li hai spezzati tutti, senza tralasciarne nemmeno uno solo?».
«Ahimè! dice il governatore piangendo, non me ne rimane che uno piccolo, che da molti anni, è conservato nella nostra famiglia; ah! esso mi è troppo caro per distruggerlo!».
«Ebbene! gli dice il santo, è questo che mi avevi promesso?
Vai, rompilo e sarai guarito».
Egli lo prende e lo frantuma, e all’istante fu guarito.
Ecco, fratelli miei, un esempio che ci riproduce l’andamento di un numero quasi infinito di persone, che ripetono alcuni peccati, anche se non tutti, e che, simili a questo governatore, ben lungi dal far guarire le piaghe che il peccato ha prodotto nella loro povera anima, ne producono di più profonde; e, finchè non avranno fatto come lui, non avranno frantumato questo idolo, cioè rotto quest’abitudine di certi peccati, fino a che non avranno abbandonato questa cattiva compagnia, quest’orgoglio, questo desiderio di piacere, quest’attaccamento ai beni della terra, tutte le loro confessioni non faranno altro che aggiungere crimine su crimine, sacrilegi su sacrilegi.
Ah! mio Dio, quale orrore e quale abominazione!
E in questo stato essi vivono tranquilli, e nel frattempo il demonio scava loro un posto nell’inferno!
(il santo non sta affatto esagerando, ma si sta rifacendo al principio enunciato da Giacomo nella sua Lettera:
«Chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto (Giacomo 2,10)».
Leggiamo nella storia un esempio che ci mostra quanto i santi considerassero questo dolore dei nostri peccati, come necessario per ottenere il perdono.
Essendo caduto malato un ufficiale del papa, il santo padre, che lo stimava molto per la sua virtù e per la sua santità, gli inviò uno dei suoi cardinali per testimoniargli il dolore che gli causava la sua malattia e, nello stesso tempo, per applicargli l’indulgenza plenaria.
«Ahimè! disse il moribondo al cardinale, dite al santo padre che gli sono infinitamente riconoscente per la tenerezza del suo cuore verso di me, ma ditegli anche che io sarei infinitamente più felice, se egli volesse chiedere a Dio, per me, la contrizione dei miei peccati.
Ahimè! egli gridò, a che mi servirà tutto questo, se il mio cuore non si spezza e non si lacera di dolore, per aver offeso un Dio tanto buono?
Dio mio, gridò questo povero morente, fai, se è possibile, che il dispiacere per i miei peccati, uguagli gli oltraggi che ti ho arrecato!…».
Oh! fratelli miei, come sono rare le persone così, che dubitano di se stesse; cercate, ahimè! esse sono così rare quanto le confessioni fatte bene.
Sì, fratelli miei, un cristiano che ha peccato e che voglia ottenere il perdono, deve essere nella disposizione di soffrire tutte le crudeltà, le più orribili, piuttosto che ricadere nei peccati che ha appena confessati!
Ve lo voglio dimostrare con un esempio, e se, dopo esserci confessati, non siamo in queste disposizioni, non vi sarà nessun perdono…
Leggiamo in una storia del quarto secolo, che Sapore, imperatore dei Persiani, essendo divenuto il più crudele nemico dei cristiani, ordinò che tutti i preti che non avessero adorato il Sole, e che non lo riconoscessero come Dio, fossero messi a morte.
Il primo che fece catturare fu il vescovo di Seleucia, che era san Simeone.
Egli cominciò a provare se potesse sedurlo con ogni sorta di promessa.
Non potendo approdare a nulla, nella speranza di intimorirlo, face sfilare davanti a lui tutti i tormenti che la sua crudeltà aveva potuto inventare per fare soffrire i cristiani, dicendogli che se la sua pervicacia gli avesse fatto rifiutare ciò che egli comandava, lo avrebbe sottoposto a tormenti così spaventosi e dolorosi, che lo avrebbe fatto obbedire, e, in più, che avrebbe sacciato tutti i preti e tutti i cristiani dal suo regno.
Ma, vedendolo stabile come una roccia in mezzo al mare sbattuto dalla tempesta, lo fece condurre in prigione nella speranza che il pensiero dei tormenti che gli erano preparati, gli facesse cambiare sentimento.
Nel tragitto, incontrò un vecchio eunuco che era sovrintendente del palazzo imperiale.
Costui, preso da compassione nel vedere un santo vescovo trattato tanto indegnamente, si prostrò davanti a lui per testimoniargli il rispetto di cui era ricolmo nei suoi riguardi.
Ma il vescovo, ben lungi dall’apparire sensibile alla testimonianza rispettosa di questo eunuco, si voltò dall’altra parte, per rinfacciargli il crimine di apostasia, poichè, in precedenza, era stato cristiano e cattolico.
Questo rimprovero, che egli non si aspettava affatto, lo colpì a tal punto, gli penetrò il cuore in maniera così viva, che all’istante stesso, non fu più padrone nè delle sue lacrime nè dei suoi singhiozzi.
Il crimine della sua apostasia gli sembrò così orribile che mette da parte i vestiti bianchi di cui era rivestito e ne prende di neri, corre come un disperato a gettarsi alla porta del palazzo, e lì si abbandona a tutte le amarezze del dolore più straziante.
«Ah! sciagurato, dice rivolto a se stesso, che cosa sei diventato?
Ahimè! quali castighi dovrai aspettarti da Gesù Cristo che tu hai rinnegato, se io sono così sensibile ai rimproveri di un vescovo, che è solo il ministro di Colui che ho tradito così vergognosamente?».
Ma l’imperatore, avendo saputo tutto quello che accadeva, del tutto stupito per un tale spettacolo, gli domandò: «Qual’è dunque la causa di un simile dolore e di tante lacrime?».
«Ah! piacesse a Dio, gridò quello, che mi fossero cadute addosso tutte le disgrazie e tutte le sciagure del mondo, piuttosto che quella che è la causa della mia infelicità.
Ah! io piango per il fatto di non essere morto.
Ah! potessi ancora rivedere il sole che ho avuto la disgrazia di adorare, per paura di dispiacervi».
L’imperatore, che lo amava a causa della sua fedeltà, tentò di poterlo guadagnare, promettendogli ogni sorta di beni e di favori.
«Ah! no, no, quello gridò; ah! sarei troppo felice se potessi con la mia morte riparare gli oltraggi che ho fatto a Dio, ritrovare il cielo che ho perduto.
O mio Dio e mio Salvatore, avrai ancora pietà di me?
Ah! se almeno avessi da dare mille vite per testimoniarti il mio dispiacere e la mia conversione».
L’imperatore nel sentirgli dire queste cose, moriva di rabbia, e, disperando di poter guadagnare nulla, lo condannò a morire in mezzo ai supplizi.
Ascoltatelo, mentre si reca al supplizio: «Ah! Signore, quale felicità morire per Te; sì, Dio mio, se ho avuto la disgrazia di rinnegarti, almeno avrò la felicità di dare la mia vita per Te.
Ah! dolore sincero, dolore potente, che hai sì prontamente riguadagnato l’amicizia del mio Dio!…» (Ecco un altro stupendo esempio della notevolissima perizia letteraria del nostro curato, che, quando si mette d’impegno, riesce a strappare lacrime di commozione ai lettori, così come le strappava ai suoi parrocchiani che ascoltavano la sua viva e vibrante voce, fioca ma penetrante).
Leggiamo nella vita di santa Margherita, che ella ebbe un dolore così grande per un peccato che aveva commesso durante la giovinezza, che lo pianse per tutta la vita.
Essendo prossima a morire, le venne chiesto quale fosse il peccato che aveva commesso, e che le aveva fatto versare tante lacrime.
«Ahimè! gridò piangendo, come potrei non piangere?
Ah! fossi morta piuttosto prima di quel peccato! A l’età di cinque o sei anni, ebbi la disgrazia di dire una bugia a mio padre».
– «Ma, le si disse, non c’era poi tanto da piangere per questo peccato».
– «Ah! ma come si fa a dirmi certe cose! Voi dunque non avete mai concepito che cosa sia il peccato, l’oltraggio che fa a Dio, e le disgrazie che ci attira?».
Ahimè! fratelli miei, che cosa ne sarà di noi, se tanti santi hanno fatto rimbombare le rocce e i deserti dei loro gemiti, hanno formato, per così dire, fiumi di lacrime per dei peccati che per noi sono bazzecole, mentre abbiamo commesso dei peccati mortali, forse più numerosi dei capelli che abbiamo sulla testa.
E nemmeno una lacrima di dolore e di pentimento!
Ah! triste accecamento nel quale i nostri disordini ci hanno condotti! (con questo metro di giudizio si salverebbero solo i calvi, e l’umanità di oggi, se si pentisse, verrebbe sommersa da un nuovo diluvio universale di lacrime, altro che i fiumi di cui parla il curato; n.d.a.).
Leggiamo nella vita dei Padri del deserto, che un ladro, chiamato Gionata, perseguitato dalla giustizia, corse a nascondersi presso la colonna di san Simeone Stilita, sperando che il rispetto che si aveva per il santo, lo avrebbe salvaguardato dalla morte.
Infatti, nessuno osò toccarlo.
Essendosi, il santo, messo in preghiera per chiedere a Dio la sua conversione, nel momento stesso, quello sentì un dolore così forte dei suoi peccati, che per otto giorni non fece che piangere.
Alla fine degli otto giorni, domandò a san Simeone il permesso di lasciarlo.
Il santo gli disse: «Amico mio, tu vorresti ritornare nel mondo per ricominciare a compiere i tuoi disordini».
-«Ah! che Dio mi preservi da una tale disgrazia; ti chiedevo di potermene andare in cielo; ho visto Gesù Cristo che mi ha detto che tutti i miei peccati mi erano perdonati per il grande dolore che ne ho sentito».
– «Vai, figlio mio, gli dice il santo, vai a cantare in cielo la grande Misericordia di Dio per te».
In quel momento quello cade a terra morto, e il santo stesso racconta che vide Gesù Cristo che conduceva in cielo la sua anima.
O bella morte! o morte preziosa, quella di morire di dolore per aver offeso Dio!
Ah! se almeno non moriamo di dolore, come questi grandi penitenti, vogliamo almeno, fratelli miei, eccitare in noi una vera contrizione, imitiamo questo santo vescovo morto ultimamente, il quale, ogni volta che si presentava al tribunale della penitenza, per avere un vivo dolore dei suoi peccati, faceva tre stazioni.
La prima nell’inferno, la seconda in cielo, la terza sul calvario.
Dapprima egli portava il suo pensiero in quei luoghi di orrore e di tormenti; egli si immaginava di vedere i dannati che vomitavano torrenti di fuoco dalla bocca, che urlavano e si divoravano gli uni gli altri; questo pensiero gli ghiacciava il sangue nelle vene, egli credeva di non potere più vivere alla vista di un tale spettacolo, soprattutto considerando che i suoi peccati gli avevano meritato mille volte questi supplizi.
Di là il suo spirito si trasportava in cielo e faceva sfilare davanti a sè tutti quei troni di gloria, dove erano seduti i beati;
egli si raffigurava le lacrime che essi avevano sparso e le penitenze che avavano fatto durante la loro vita, per dei peccati così leggeri, e che lui stesso ne aveva commessi tanti, e non aveva ancora fatto nulla per espiarli, e questo lo sprofondava in una tristezza così profonda, che sembrava che le sue lacrime non potessero più smettere.
Non contento di tutto ciò, egli dirigeva i suoi passi verso il calvario, e là, nella misura in cui i suoi sguardi si avvicinavano alla Croce, dove un Dio era morto per lui, le forze gli mancavano, restava immobile alla vista delle sofferenze che i suoi peccati avevano causato al suo Dio.
Lo si sentiva, ad ogni istante, ripetere queste parole, singhiozzando: «Dio mio! Dio mio! come posso ancora vivere considerando gli orrori che i miei peccati ti hanno causato!».
Ecco, fratelli miei, ciò che potremmo chiamare una vera contrizione, poichè vediamo che egli non valuta i suoi peccati se non in riferimento a Dio.
Abbiamo detto che una vera contrizione deve racchiudere un buon proposito, cioè una ferma risoluzione di non più peccare in avvenire; bisogna che la nostra volontà sia determinata, e che non si tratti solo di un debole desiderio di correggersi; non si otterrà mai il perdono dei propri peccati, se non vi si rinuncia con tutto il cuore (è degno di nota il fatto che il santo curato distingua in varie occasioni il perdono sacramentale della confessione, e l’effetivo perdono, che si ottiene unicamente per mezzo della contrizione sincera; questa può in certi casi bastare da sola, mentre l’altra senza di questa non ottiene nulla; n.d.a.).
Dobbiamo essere negli stessi sentimenti del santo re-profeta (Davide): «Sì, mio Dio, io ti ho promesso di essere fedele nell’osservare i Tuoi comandamenti; vi sarò fedele, con l’aiuto della tua grazia» (Salmo 119,116).
Il Signore stesso ci dice: «Che l’empio abbandoni la via delle sue iniquità, e il suo peccato gli sarà rimesso» (Isaia 55,7).
Non si può sperare, dunque, misericordia, se non per colui che rinuncia con tutto il cuore e per sempre, ai suoi peccati, perchè Dio non ci perdona se non per quel tanto che il nostro pentimento è sincero, e che noi facciamo ogni sforzo per non ricadervi.
D’altra parte, non sarebbe prendersi gioco di Dio, chiedergli perdono per un peccato che si vorrebbe commettere ancora?
Ma, mi direte voi, come si può conoscere e distinguere un fermo proposito, da un desiderio debole e insufficiente?
Se desiderate saperlo, fratelli miei, ascoltatemi un istante, e ve lo mostrerò: ciò si può conoscere in tre modi:
1- il cambiamento di vita
2- la fuga dalle occasioni prossime del peccato
3- lavorare con tutte le forze per correggersi e distruggere le proprie cattive abitudini.
Per prima cosa, dico che il primo segno di un buon proposito, è il “cambiamento di vita”; è questo che ce lo mostra più sicuramente, e che è il meno soggetto a ingannarci.
Veniamo alla spiegazione: una madre di famiglia si accuserà di essere spesso arrabbiata con i suoi figli e con suo marito; dopo la confessione, andate a visitarla all’interno della sua casa; non è più questione nè di arrabbiamento nè di maledizioni; al contrario, vedete in lei una dolcezza, una bontà, una premura anche per i suoi inferiori; le croci, i dispiaceri e le perdite non le fanno affatto perdere la pace dell’anima.
Sapete perchè accade questo, fratelli miei?
Ecco: è perchè il suo ritorno a Dio è stato sincero, la sua contrizione è stata perfetta e, di conseguenza, ella ha ricevuto veramente il perdono dei suoi peccati; infine, la Grazia ha messo profonde radici nel suo cuore, ed ella produce frutti in abbondanza.
Una giovane verrà ad accusarsi di aver seguito i piaceri del mondo, le danze, i veglioni e altre cattive compagnie.
Dopo la sua confessione, se essa è ben fatta, andate a cercarla in quel veglione, oppure andate a cercarla in qualche luogo di piacere, che cosa vi diranno?
«E’ da qualche tempo che non la vediamo più; credo che se volete trovarla, dovete andare o in chiesa, o dai suoi parenti».
Infatti, se volete andare dai parenti, la troverete, e in che cosa sarà occupata?
Forse a parlare di vanità, come le altre volte, o a contemplare se stessa davanti allo specchio, oppure a fare baldoria con i giovani?
Ah! no, fratelli miei, non si applica più in queste cose, ella ha preso a calci tutte queste cose; la vedrete fare una lettura di pietà, aiutare sua madre nelle faccende di casa, istruire i suoi fratelli e sorelle, la vedrete obbediente e premurosa verso i suoi genitori; ella amerà la loro compagnia.
Se non la trovate a casa, andate in chiesa, e la vedrete mentre testimonia a Dio la sua riconoscenza per aver operato in lei un così grande cambiamento; voi vedrete in lei una modestia, una riservatezza, una premura verso tutti, sia per i poveri che per i ricchi; la modestia sarà dipinta sulla sua fronte, la sua sola presenza vi conduce a Dio.
«Perchè, mi direte voi, fratelli miei, in lei ci sono tanti beni?».
Perchè, fratelli miei, il suo dolore è stato sincero, ed ella ha ricevuto veramente il perdono di Dio.
Un’altra volta sarà un giovane che si va ad accusare per essere stato nei cabarets e nei giochi; ma ora che ha promesso a Dio di abbandonare tutto ciò che potesse dispiacergli, come prima amava i cabarets e i giochi, tanto adesso li fugge.
Prima della confessione il suo cuore non si occupava che delle cose terrene, cattive; al presente i suoi pensieri non sono che per Dio e per il disprezzo delle cose del mondo.
Tutto il suo piacere sta nell’intrattenersi con il suo Dio, e nel pensare ai mezzi per salvare la sua anima.
Ecco, fratelli miei, i segni di una vera e sincera contrizione; se dopo le vostre confessioni voi vi ritrovate così, potrete sperare che le vostre confessioni siano state buone, e che i vostri peccati vi sono perdonati.
Ma se voi fate tutto il contrario di ciò che ho appena detto, se qualche giorno dopo le sue confessioni si vede quella figlia che aveva promesso a Dio di abbandonare il mondo e i suoi piaceri per non pensare che a far piacere a Lui, se la vedo, dico, come prima, in quelle assemblee mondane; se io vedo quella madre tanto arrabbiata e tanto negligente verso i suoi figli e i suoi domestici, così litigiosa con i suoi vicini, come prima della confessione; se ritrovo quel giovane di nuovo tra i giochi e nei cabarets, oh! orrore! o abominazione! o mostro di ingratitudine! che cosa fai?
O gran Dio! in quale stato si trova questa povera anima!
o orrore! o sacrilegio! i tormenti dell’inferno saranno essi abbastanza lunghi e abbastanza rigorosi per punire un tale attentato?
Noi diciamo che il secondo segno di una vera contrizione è la “fuga delle occasioni prossime del peccato”.
Ce n’è di due specie: le une vi ci conducono di per se stesse, come sono i cattivi libri, le commedie, i balli, le danze, le immagini, i quadri e le canzoni licenziose, e la frequentazione di persone dell’altro sesso; le altre sono occasione di peccato solo per le cattive disposizioni di coloro che vi sono coinvolti: come i cabarettisti, i commercianti che imbrogliano o che vendono di domenica; una persona a modo che non compie i suoi doveri, sia per rispetto umano, sia per ignoranza (non è chiaro a cosa si riferisca il santo curato, quando parla di “personne en place”, che abbiamo tradotto con “persona a modo”, trattandosi di una frase fatta; n.d.a.).
Cosa deve fare una persona che si trova in una di queste posizioni?
Ecco: ella deve lasciare tutto, costi quello che costi, senza di questo niente salvezza!
Gesù Cristo ci dice che «se il nostro occhio o la nostra mano ci scandalizza, noi dobbiamo prenderli e gettarli lontano da noi, perchè, Egli ci dice, è molto meglio andare in cielo con un braccio e con un occhio in meno, che essere gettati nell’inferno con tutto il nostro corpo» (Matteo 5,29-30), e cioè, qualunque sia il prezzo da pagare, qualunque sia la perdita che ne subiamo, non dobbiamo trascurare di lasciar perdere tutto; senza di ciò, niente perdono (questo vuol dire parlare chiaro, dare regole certe di comportamento e non mercanteggiare la Parola di Dio, tergiversando, accomodando e sottacendo, per accalappiare clienti per le nostre chiese e, qualche volta, per impinguare le casse delle parrocchie; n.d.a.).
Aggiungiamo che il terzo segno di un buon proposito, è quello di “lavorare con tutte le forze per distruggere le proprie cattive abitudini”.
Si chiama abitudine, la facilità che si ha di ricadere nei vecchi peccati.
Bisogna anzitutto vegliare con attenzione su se stessi, fare spesso delle azioni che siano contrarie: per cui, se siamo soggetti all’orgoglio, bisogna applicarsi a praticare l’umiltà, essere contenti di venire disprezzati, non cercare mai la stima del mondo, sia nelle parole che nelle azioni; credere sempre che tutto ciò che facciamo è mal fatto; se facciamo bene, raffigurarsi che eravamo indegni che Dio si servisse di noi, considerandoci nel mondo, come persone che non fanno altro che disprezzare Dio durante la loro vita, e che meritiamo molto di più di quello che si possa dire di noi in male.
Siamo soggetti alla collera?
Allora bisogna praticare la docezza, sia nelle parole, sia nel modo di comportarsi verso il nostro prossimo.
Se siamo soggetti alla sensualità, ci dobbiamo mortificare sia nel bere, sia nel mangiare, nelle parole, negli sguardi, imporci qualche penitenza tutte le volte che ci ricadiamo.
E se non prendete queste precauzioni, tutte le volte che rifarete gli stessi peccati, potrete concludere che tutte le vostre confessioni non valgono nulla, e che voi avete commesso solo dei sacrilegi, un crimine così orribile, che sarebbe impossibile continuare a vivere, se ne conosceste tutta la “orribilità”, la tetraggine e le atrocità…
Ecco la condotta che dobbiamo tenere, facendo come il figlio prodigo, il quale, colpito dallo stato in cui i suoi peccati lo avevano prostrato, era pronto ad ogni cosa che il padre avesse preteso da lui, pur di avere la felicità di riconciliarsi con lui.
Dapprima egli abbandonò all’istante il paese dove aveva provato tanti mali, come anche le persone che erano state per lui occasione di peccato; non si degnò nemmeno di guardarle, del tutto convinto che non avrebbe avuto la felicità di riconciliarsi con suo padre, se non si fosse allontanato da loro; tanto che, dopo il peccato, per dimostrare a suo padre che il suo ritorno era sincero, cercò solo di piacergli, facendo tutto il contrario di ciò che aveva fatto fino ad allora (Luca 15).
Ecco il modello sul quale dobbiamo conformare la nostra contrizione: la conoscenza che dobbiamo avere dei nostri peccati, il dolore che dobbiamo averne deve metterci nella predisposizione di sacrificare tutto, pur di non ricadere nei nostri peccati.
Oh! quanto sono rare queste contrizioni! Ahimè! dove sono coloro che sono pronti a perdere la vita stessa, piuttosto che ricadere nei peccati dei quali si sono già confessati?
Ah! non lo so! Ahimè! quanti, al contrario, ci dice san Giovanni Crisostomo, fanno solo delle confessioni “teatrali”, che smettono di peccare per qualche istante, senza però abbandonare completamente il peccato; che sono simili, egli ci dice, a dei commedianti che rappresentano combattimenti sanguinosi e ostinati, e sembrano infliggersi colpi mortali; si vede uno che è atterrato, steso e che perde sangue: sembrerebbe realmente che abbia perso la vita, ma, aspettate che la tenda sia abbassata, e lo vedrete rialzarsi pieno di forza e di salute, e tornerà ad essere il medesimo che era prima della rappresentazione del pezzo.
Ecco, precisamente, ci dice, lo stato in cui si trova la maggior parte delle persone che si presentano al tribunale della penitenza.
A vederli sospirare e gemere sui peccati di cui si accusano, direste che davvero non sono più gli stessi, che si comporteranno in una maniera del tutto diversa da come si sono comportati fino ad ora.
Ma, ahimè! aspettate, non dico cinque giorni, ma uno o due giorni, e li ritroverete identici a come erano prima della confessione: stessa collera, stesso spirito di vendetta, stessa golosità, stessa negligenza nei loro doveri di religione: ahimè! che confessioni e che cattive confessioni!
Ah! figli miei, ci dice san Bernardo, volete avere una vera contrizione dei vostri peccati?
Voltatevi verso questa Croce sulla quale il vostro Dio è stato inchiodato per amore verso di voi; ah! ben presto vedrete colare dai vostri occhi le lacrime, e il vostro cuore si spezzerà.
Infatti, fratelli miei, ciò che fece versare tante lacrime a santa Maddalena, quando fu nel deserto, ci dice il grande Salvien…, non fu altro che la vista della Croce.
Leggiamo nella sua vita, che dopo l’Ascensione di Gesù Cristo, essendosi ritirata in solitudine, ella chiese a Dio la felicità di poter piangere per tutta la sua vita le colpe della sua giovinezza.
Dopo la sua preghiera, san Michele arcangelo le apparve presso il suo luogo solitario, e piantò una croce sulla porta; ella si gettò ai piedi, come aveva fatto sul Calvario, e pianse per tutta la vita con tanta abbondanza, che i suoi due occhi sembravano due fontane (si tratta, evidentemente di una pia leggenda, che non compare nella Bibbia, e sorta proprio dal totale silenzio degli scritti sacri, sulla vita della Maddalena, dopo la Risurrezione, allorchè la santa peccatrice scompare del tutto dai racconti; n.d.a.).
Il grande Ludolfo racconta che un solitario, chiese un giorno a Dio che cosa potesse essere più capace di intenerire il proprio cuore, per piangere i propri peccati.
In quel momento Dio gli apparve così come era sull’albero della Croce, tutto ricoperto di piaghe, tutto tremante, carico di una pesante Croce, dicendogli:
«Guardami, il tuo cuore, anche se fosse più duro delle rocce del deserto, si spezzerà e non potrà più vivere alla vista dei dolori che i peccati del genere umano mi hanno provocato».
Questa apparizione lo commosse così profondamente che, fino alla sua morte, la sua vita non fu altro che una vita di lacrime e di singhiozzi.
Ogni tanto si rivolgeva agli angeli e ai santi, pregandoli di venire a piangere con lui sui tormenti che i peccati avevano causato a un Dio tanto buono.
Leggiamo nella storia di san Domenico, che un religioso, mentre chiedeva a Dio la grazia di piangere i suoi peccati, gli apparve Gesù Cristo, con le Sue cinque piaghe aperte, col Sangue che colava in abbondanza.
Nostro Signore, dopo averlo abbracciato, gli disse di accostare la bocca all’apertura delle Sue piaghe; quello ne sentì tanta felicità, che non poteva comprendere che i suoi occhi potessero versare tante lacrime.
Oh! come erano felici, fratelli miei, questi grandi penitenti, di trovare tante lacrime per piangere i loro peccati, per paura di andarle a versare nell’altra vita!
Oh! quanta differenza tra quelli e i cristiani dei nostri tempi che hanno commesso tanti peccati! e niente dispiacere nè lacrime!…
Ahimè! che ne sarà di noi? quale sarà la nostra dimora?
Oh! quanti cristiani perduti, dal momento che è necessario, o piangere i propri peccati in questo mondo, o andarli a piangere negli abissi.
Oh! mio Dio dacci questo dolore e questo dispiacere che riguadagna la tua amicizia!
Che cosa dobbiamo concludere da ciò che abbiamo appena detto, fratelli miei?
Ecco: è che dobbiamo domandare senza sosta a Dio questo orrore del peccato, fuggire le occasioni del peccato, e non perdere mai di vista che i dannati bruciano e piangono all’inferno, perchè non si sono mai pentiti dei loro peccati in questo mondo, e perchè non hanno mai voluto abbandonarli.
No, per quanto grandi possano essere i sacrifici che abbiamo da fare, essi non devono riuscire a fermarci; bisogna assolutamente combattere, soffrire e gemere in questo mondo, se vogliamo avere l’onore di andare a cantare le lodi di Dio per l’eternità: è questa la felicità che vi auguro…
fonte: https://jean-marievianney.blogspot.com