Meditazione
Pubblichiamo l’audio della meditazione: «I santi segni. Romano Guardini, parte 9»
Domenica 14 maggio 2023
Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD
Ascolta la registrazione:
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VANGELO (Gv 14, 15-21)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Testo della meditazione
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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!
Eccoci giunti a domenica 14 maggio 2023. Festeggiamo quest’oggi San Mattia apostolo.
Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal capitolo quattordicesimo del Vangelo di San Giovanni, versetti 15-21.
Continuiamo la lettura del libro Lo Spirito Della Liturgia, I Santi Segni di Romano Guardini.
Quest’oggi affronteremo un nuovo capitolo che è quello “Dell’inginocchiarsi”.
Scrive Guardini:
Cosa fa una persona quando s’inorgoglisce? Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l’intera figura. Tutto in essa dice:
«Io sono più grande di te! Io sono da più di te!».
Quando uno invece è di nobile sentimento e si sente piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappisce: egli «si abbassa». Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi; quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi. Ma quando mai percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e millenni! Al grande Iddio che riempie questa stanza e l’intera città e il vasto mondo e l’incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente sublime … come è grande Lui… e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero – e vien con tutta evidenza da sé – che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si presenti così, con tanta presunzione: l’uomo s’inginocchia.
Che cosa ci sta dicendo Romano Guardini su questo gesto dell’inginocchiarsi? Questo gesto dell’inginocchiarsi è un atto di piccolezza. Innanzitutto, è un riconoscersi piccoli. È un riconoscersi poveri, di fronte al grande Iddio — scrive lui.
Se questo inginocchiarsi rivela, come lui scrive, questa piccolezza, questo impicciolirsi, questo essere poveri, questo sentirsi un nulla, ecco che l’atto invece dell’inorgoglirsi è quello di chi si sente più grande, di quello che si sente di più, allora lui dice: “Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l’intera persona”.
Ecco, noi davanti a Dio come ci sentiamo? Come vogliamo sentirci: piccoli? Poveri? Vogliamo riconoscere la grandezza, la maestà, la magnificenza di Dio? Che cosa vogliamo fare e che cosa vogliamo essere nel nostro stare davanti a Dio?
Prosegue:
E se al suo cuore questo non basta ancora, egli può inoltre prostrarsi.
Pensate un po’… Inginocchiarsi vuol dire mettersi in ginocchio, prostrarsi vuol dire proprio mettersi con la fronte sul pavimento, tutto prostrato. Ancora di più dell’inginocchiarsi.
E la persona profondamente chinata dice:
«Tu sei il Dio grande, mentre io sono un nulla!».
Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolosamente né sbadatamente. Dà all’atto tuo un’anima! Ma l’anima del tuo inginocchiarti sia che anche interiormente il cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci, oppure passi davanti all’altare, piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente; che questo ha da significare:
«Mio grande Iddio! …».
Ciò infatti è umiltà ed è verità e ogni volta farà bene all’anima tua.
Quindi Romano Guardini oggi ci dice, come sta dicendo all’inizio di questo libro, dalla premessa: “Vuoi fare la genuflessione? Allora, falla bene! Il ginocchio destro sul pavimento”. Si piega il ginocchio destro, sul pavimento — genu-flessione — e lui dice: “Non farlo né frettolosamente né sbadatamente”, cioè non farlo né con fretta, che poi vengono fuori quegli sgorbi orrendi, e neanche distratto, in modo sbadato, assolutamente, è un gesto troppo importante per essere fatto in modo sbadato, in modo frettoloso. “Dà a questo atto un’anima”, che è il contrario del farlo con fretta e del farlo sbadatamente. Quando lo fai, se lo fai, lo devi fare bene. Devi dare un’anima a quel gesto. Quindi il piegare il ginocchio destro sia il segno, la manifestazione, che “interiormente il tuo cuore si piega dinanzi a Dio in profonda riverenza”, cioè io piego il ginocchio quale manifestazione del mio cuore che interiormente vive questo essere profondamente riverente verso Dio, il mio ginocchio si piega perché si piega il mio cuore. La stessa cosa quando poi sto in ginocchio davanti al tabernacolo, in preghiera, è tutta la mia persona, il mio cuore e la mia mente che sono prostrati davanti a Dio.
“Quando entri in chiesa o ne esci” — lui scrive così perché si faceva così e perché si dovrebbe fare così – “oppure passi davanti all’altare”, sono quei momenti nei quali siamo stati tutti abituati a fare la genuflessione. Noi da bambini, anche prima di entrare nella panca, prima di sederci, appena si arriva in chiesa, anche lì si faceva la genuflessione. “Piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente”.
San Vincenzo de’ Paoli, alla fine della sua vita, scriveva — dopo vedo se riesco a ritrovarlo — dell’importanza del fare bene la genuflessione, guardate che lo scriveva con delle parole fortissime.
Metti bene il ginocchio sul pavimento, fai la genuflessione fino in fondo. Falla lentamente, con calma. E con questo gesto tu dirai: «Mio grande Iddio», scrive Guardini. Lo dice questo gesto senza bisogno che lo dicano le tue parole. Chi ti vede capisce esattamente questo.
“Ciò infatti è umiltà e verità e ogni volta farà bene all’anima tua”. Eh, certo, ci farà sicuramente un grande bene, e non solamente a noi, ma anche a coloro che ci vedranno.
L’ho trovato, e adesso vi leggo quello che San Vincenzo de’ Paoli, Santo della Carità, — stiamo parlando del Santo della Carità, non stiamo parlando di un monaco cistercense — che tutti conosciamo, il 28 luglio 1655, in una conferenza missionaria, disse esattamente queste parole:
Avverto la compagnia in generale – cioè la congregazione che lui aveva fondato — di una mancanza che parecchi commettono qui alla presenza di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento dell’altare
Stiamo parlando del 1655. Lui avverte un problema inerente a una mancanza verso Gesù presente nel tabernacolo. Siamo nel 1655. Ripeto la data perché uno dice: “Ma quando l’ha scritta, ieri?” No, il problema c’era già nel 1655, non è un problema di oggi. Vedete da dove arriva?
Scrive:
Ho osservato che molti facendo la genuflessione davanti al Santissimo Sacramento, non la fanno fino a terra, o la fanno senza devozione.
Guardate, esattamente quello che abbiamo letto adesso di Romano Guardini, che viene un bel po’ dopo del 1655. Però vedete, è la stessa cosa: “non la fanno fino a terra” — come vi ho detto: tocchiamo terra col ginocchio — “o la fanno senza devozione”, cioè quello che diceva Guardini: non lo fanno lentamente, non lo fanno con tutta l’anima che quel gesto richiede, che quel segno richiede. Prosegue San Vincenzo:
L’avevo notato altre volte e mi ero proposto di avvertirne la Compagnia… e affinché quelli che non fanno con devozione la genuflessione, come conviene alla gloria e alla maestà di Dio vivente, — guardate, esattamente quello che abbiamo appena detto in Guardini — se ne correggano, mi sono creduto in dovere di non differire più oltre e di avvertire come faccio la Compagnia, perché vi faccia più attenzione.
I motivi che ci inducono a fare questa prostrazione con la dovuta devozione esteriore ed interiore, ed è così che devono fare i veri cristiani sono: l’esempio del Figlio di Dio, e quello di altre comunità religiose. Il Figlio di Dio si prostrò (…) — ricordate che Gesù si prostra nella preghiera — Io pure, in questo, non ho mai dato l’esempio che dovevo. — I santi, guardate cosa scrivono… Purtroppo la mia età e il mio mal di gambe me lo impediscono.
Adesso guardate, in presa diretta voglio controllare con voi una cosa, perché così almeno ci rendiamo conto. Lui parla di mal di gambe, della sua età. Allora andiamo a vedere. Lui è nato il 24 aprile del 1581, e venne ordinato sacerdote a 19 anni, figuratevi voi. Pensate che fu fatto prigioniero dai pirati turchi, venduto come schiavo a Tunisi, per cui immaginatevi che vita ha fatto quest’uomo. E poi morì nel 1660, cinque anni dopo aver detto quanto vi ho appena letto. Quando lui fece questo intervento aveva 74 anni.
Purtroppo la mia età e il mio mal di gambe me lo impediscono
Aveva 74 anni, a quel tempo, poi! Non adesso! Adesso uno a 74 anni è come se ne avesse 30, ma a quel tempo non c’erano tutte le cure, le fisioterapie, tutte le cose che ci sono adesso, le medicine; quindi, 74 anni era un’età … pochissimi arrivavano a un’età così elevata.
E dice che lui per primo non ha dato un buon esempio sul fare bene questo atto, questo segno dell’inginocchiarsi.
Se, tuttavia, vedrò che la Compagnia non si corregge, mi sforzerò di far il meglio che mi sarà possibile, anche se per rialzarmi dovrò appoggiarmi con le mani contro terra, pur di dare l’esempio.
Io dico: se San Vincenzo de’ Paoli, il Santo della Carità, arriva a scrivere una cosa del genere cinque anni prima di morire, se a conclusione della sua vita si concentra su questo, vuol dire che ha un suo fondamento. Vuol dire che non è un segno inutile. Che non è una velleità, che non è uguale farlo o non farlo. Che l’inchino, l’inchino del capo — come oggi va di moda, ormai si fa tutti l’inchino davanti al tabernacolo — non è la genuflessione, non è la stessa cosa. E la genuflessione non è la prostrazione. Sono tre segni completamente diversi.
Uno dice: “Sì, ma quello che io dico con l’inchino del capo è la stessa cosa che dico con la genuflessione” — “No, non è la stessa cosa. Perché le mele non sono le pere, sono frutti, ma non sono la stessa cosa”. “Quello che io dico con la genuflessione è la stessa cosa che dico con la prostrazione” — “No, perché le mele non sono le pere”. Una cosa è il segno della prostrazione, e dice qualcosa. Una cosa è la genuflessione, e dice qualcos’altro. Una cosa è l’inchino del capo, del semibusto, e dice qualcos’altro ancora. Sono tre segni completamente diversi e dicono cose diverse. Non è “A” è uguale a “B” e “B” è uguale a “C”, no! Sono tre realtà diverse che significano tre cose diverse.
È importante che ne siamo coscienti. Cioè, è importante che sappiamo che cosa vuol dire, è importante che sappiamo che cosa dice Romano Guardini, che cosa ha scritto e ha detto San Vincenzo de’ Paoli, arrivando addirittura ad affermare che se non vedeva la compagnia correggersi su questa cosa — perché lo faceva male, lo faceva frettolosamente, senza devozione — lui arriva a dire addirittura che anche se ha mal di gambe, anche se è anziano, anche se dovrà mettersi con le mani per terra per tirarsi su, anche se ci impiegherà non so quanto, da quel momento lo farà per dare l’esempio. Uno dice: “Ma San Vincenzo, senti, non facciamo tutte queste cose! Non c’è bisogno di impazzire, fai un inchino di capo, il problema è risolto”. Anche nel 1655 c’era il capo, la testa c’era già nel 1655, non è una creazione del 2000, ce l’avevano anche loro, anche loro avevano il busto che si poteva piegare, non erano tutti bloccati.
Lui, nonostante il male alle gambe e nonostante l’età, dice: “Guardate, o lo fate bene o mi costringete a farlo io, con tutta la fatica del caso”. Perché è importante farlo, per le ragioni che Guardini ci ha mostrato brevemente, ma in modo molto chiaro, nel testo che abbiamo appena letto.
Quindi da oggi chi vuole, chi desidera raccogliere il significato di queste parole, la testimonianza di San Vincenzo de’ Paoli e quello che ha detto Romano Guardini, può impegnarsi a vivere bene questo segno.
Vi ricordate che in alcune catechesi, in alcune omelie che io feci negli anni passati — forse, chissà, sul sito lo potrete anche ritrovare, non lo so — io parlai della “Gesù-flessione”. Non è un’invenzione mia, confesso subito che non è farina del mio sacco, purtroppo, ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, non era un’invenzione mia ed era di una suora, che io ho avuto la possibilità di conoscere già da sacerdote. Beh, posso anche fare il nome, perché è una cosa bella. Adesso è morta questa suora, e ha sofferto tanto nella sua vita, fisicamente; questa suora si chiamava suor Elena. E fu proprio lei che mi parlò della “Gesù-flessione”. Vi ricordate che io vi parlai di questa cosa? Io ero già sacerdote e andavo in questo istituto per confessare, e lei mi disse: “Io ai bambini non parlo mai della genuflessione”. E io rimasi colpito, no? E allora le dissi: “Come mai, suora, non parla della genuflessione?” — Dice: “No, perché io quando parlavo ai bambini, io dicevo loro che devono fare la Gesù-flessione”. Ne ha fatto un gioco di parole, ha cambiato un po’ l’ordine delle lettere, invece di dire genuflessione, lei parlava della Gesù-flessione.
E così è anche l’occasione per dire tutti una bella preghiera per Suor Elena, che non è più tra noi, ma che ha lasciato questa terra per dirigersi verso il Padre. Vedete, quando si dicono cose vere, cose belle, cose reali, queste “cose” tra virgolette — proprio nel significato di Guardini — diventano immortali. Suor Elena non c’è più e credo che forse uno o due di voi l’avranno conosciuta. Il resto non sa neanche di chi sto parlando, non sa neanche di che congregazione è, non sa neanche dove l’ho conosciuta, di suor Elena ce ne sono tante a questo mondo. Eppure, adesso questo suo messaggio è arrivato a tantissime altre persone. Ha attraversato il tempo, lo spazio, è arrivato a voi e adesso da voi arriverà chissà a quante altre persone. E così si tramanderà di generazione in generazione. Perché sicuramente qualcuno di voi ne parlerà ai suoi figli e qualche figlio rimarrà colpito, come sono stato colpito io e magari qualche sacerdote che sta ascoltando rimarrà colpito anche lui, ne parlerà in un’omelia o ne parlerà ai giovani e… avanti! Vedete come si diffonde la bellezza, la verità, la realtà. Tutto da una persona, da suor Elena. E suor Elena non avrebbe mai immaginato, a distanza di anni dalla sua morte, di essere ricordata per questa parola e che questa parola avrebbe attraversato il tempo, al di là della sua vita.
È così, quando noi diciamo cose vere, quando noi diciamo cose fatte di forza, come dice Romano Guardini, di vigore, di fervore, di sangue, di carne, cose reali, queste poi non muoiono più. Ci superano, noi moriamo, ma ciò che abbiamo detto va avanti. Al tempo di suor Elena non c’era, come adesso, la possibilità di registrare o di mettere su YouTube, che dopo uno se la va a riascoltare. Però avendo io ricevuto questa sua confidenza bellissima della Gesù-flessione, adesso rimane incisa su YouTube. Chissà, magari io muoio tra un mese, due giorni, 15 giorni, non lo so, io muoio e questa bellissima parola della Gesù-flessione rimane lì. Tra dieci anni, un ragazzo, per caso, cliccando su YouTube, clicca proprio questa meditazione, la sente e dice: “Ah, che bella questa cosa della Gesù-flessione, aspetta che la vado a dire ai miei bambini di catechismo”. E avanti… e continua, come la fenice, a rinascere dalle ceneri! E da suor Elena, magari passano 50, 60, 70 anni e questa cosa ancora gira!
Quindi per questo dobbiamo imparare a fare tutto quello che abbiamo ascoltato nella premessa di questo libro de I Santi Segni. A rivitalizzare le parole, i gesti, i segni, a ridare significato, a riferirci sempre alla realtà.
Da quando suor Elena mi ha detto questa cosa, da quel pomeriggio me la sono subito appuntata e l’ho ringraziata tanto, mi è piaciuta tantissimo subito. E quando adesso faccio la genuflessione, io dentro di me penso sempre: “Ecco, sto facendo la Gesù-flessione”. Cioè, mi sto inchinando, mi sto genuflettendo, tutto il mio cuore, la mia anima, la mia mente sta facendo questa flessione, mi sto piegando davanti alla Maestà di Gesù Eucarestia per riconoscere la mia piccolezza, il mio nulla, il mio aver bisogno di Dio e la sua grandezza e la sua gloria.
E allora da oggi diffondiamo la Gesù-flessione e, come dice San Vincenzo de’ Paoli alla sua compagnia, facciamola bene, lentamente, con devozione, mettendoci dentro tutta la nostra anima in questo gesto così bellissimo della Gesù-flessione.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.