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La spoliazione di sé: staccarsi dalle proprie opere, l’uomo è “l’opera di Dio”

La spoliazione di sé: staccarsi dalle proprie opere, l’uomo è “l’opera di Dio”

Omelia

Pubblichiamo l’audio di un’omelia sulle letture di mercoledì 15 marzo 2017.

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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Approfondimenti

PIÙ POVERO DEL BOSCO MORTO

Un filo di fumo azzurrino s’alzava nell’aria ai margini del bosco, in prossimità dell’eremo. Saliva quel po’ di fumo, leggero e diritto, senza flettersi sotto i colpi d’ala del vento. Calmo e slanciato, come gli alberi, pareva che quel fumo facesse parte del paesaggio. Eppure, frate Leone, n’era preoccupato. Quel fumo era del tutto insolito. Chi, dunque, aveva acceso quel fuoco sul fare del giorno? Leone volle sincerarsene. Avanzò di qualche passo, scostò qualche ramo e vide a un tiro di pietra Francesco stesso accanto ad un modesto fuoco. Cosa mai stava bruciando? Lo vide chinarsi, raccogliere una pigna e gettarla tra le fiamme.

– Cosa bruci, Padre? – chiese Leone.

– Un paniere – rispose Francesco con semplicità.

Leone guardò più da vicino e riconobbe i resti di un paniere di vimini che finiva di bruciare.

– Spero che non si tratti del paniere che stavi confezionando in questi giorni.

– Sì, per l’appunto – ribatté Francesco.

– Perché l’hai bruciato? Non lo consideravi ben fatto? – chiese Leone stupito.

– Molto ben fatto. Anzi, troppo ben fatto aggiunse Francesco.

– Ma, allora, perché l’hai bruciato?

– Perché, poco fa, durante la orazione, il ricordo di quel paniere mi ha distratto, fino ad accaparrare tutta“la mia attenzione. Era giusto, pertanto, ch’io, rincasando, lo sacrificassi al Signore – spiegò Francesco.
Leone rimase a bocca aperta. Benché conoscesse bene Francesco, le sue reazioni gli riuscivano sempre sorprendenti. Questa volta il gesto di Francesco gli sembrava troppo severo.

– Padre, non ti capisco. Se si dovesse bruciare tutto ciò che ci distrae nella preghiera, non si finirebbe più – mormorò Leone al termine di un breve silenzio.

Francesco non rispose.

Sai bene – aggiunse Leone che frate Silvestro faceva assegnamento su quel paniere. Ne aveva bisogno e lo aspettava con una certa impazienza.

Sì, lo so ribatté Francesco. – Gliene farò un altro al più presto. Ma questo dovevo bruciarlo. Era urgente.

Il paniere aveva finito di bruciare. Francesco ne soffocò l’ultima fiammella sotto una pietra. Poi, prendendo Leone per un braccio, gli disse:

– Vieni! Ti dirò perché l’ho fatto.

Francesco condusse Leone non lontano da lì, presso una siepe di vimini. Ne tagliò qualche verga flessibile. Poi, messosi a sedere, cominciò a intrecciare un nuovo paniere. Leone s’era seduto al suo fianco, in attesa delle spiegazioni del Padre.

– Io voglio lavorare con le mie mani – dichiarò Francesco – e voglio che tutti i miei frati mi seguano nel lavoro. Non per la bramosia del guadagno; ma solo per dare il buon esempio e tenere lontano l’ozio. Non v’è nulla di più triste di una comunità che non lavora! Ma il lavoro non è tutto, frate Leone, e non risolve tutti i problemi. Il lavoro può anche costituire un ostacolo alla vera libertà dell’uomo; e lo diventa ogni qualvolta l’uomo si lascia assorbire dal suo lavoro fino a trascurare di rendere adorazione al Dio vivo e vero. Pertanto, dobbiamo mantenere acceso in noi lo spirito di orazione. Questa è la cosa più importante.

– Capisco, Padre – rispose frate Leone. – Ma noi non possiamo distruggere il nostro lavoro, ogni qualvolta ci insinui distrazioni nella preghiera.

– Certamente – ribatté Francesco. – Ciò che importa è disporci a sacrificarlo al Signore. A questa sola condizione l’uomo conserva la sua anima disponibile. Sotto la legge antica gli uomini sacrificavano a Dio le primizie dei loro raccolti e dei loro armenti; essi non esitavano a spogliarsi delle loro cose più belle. Era questo un atto di adorazione, ma anche di liberazione; in tal modo l’uomo serbava ben aperta l’anima sua. I suoi sacrifici ne allargavano l’orizzonte fino all’infinito. Era questo il segreto della sua libertà e della sua grandezza.

Qui Francesco tacque. Tutta la sua attenzione parve concentrata nel suo lavoro. Ma Leone, al suo fianco, sentiva ch’egli aveva qualcosa d’essenziale e di intimo, che non riusciva ad esprimere. Furono pochi istanti di silenzio che a Leone sembrarono lunghissimi. Leone avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto dir qualcosa per colmare quel silenzio; ma se ne trattenne per un senso di discrezione. Infine, Francesco si rivolse verso di lui e lo fissò con uno sguardo pieno di bontà.

Sì, frate Leone – aggiunse Francesco con molta calma – l’uomo è grande soltanto quando supera il proprio lavoro per non vedere che Dio. Soltanto allora egli attinge l’intera sua statura di uomo. Ma questo è difficile, molto difficile. Bruciare un paniere di vimini, opera nostra, non è nulla, anche se il paniere è riuscito bene. Ma staccarsi dall’opera di tutta una vita è ben altra cosa, che supera le forze dell’uomo.

– Per seguire il richiamo di Dio, uno si dedica tutto ad un’opera, con passione e con entusiasmo. È bene e necessario che sia così. L’entusiasmo solo è creatore. Ma creare qualcosa significa imporle la nostra firma e significa impossessarcene. Allora il servo di Dio si espone al suo più grande pericolo. L’opera compiuta diventa per l’autore che vi si attacca, il centro del mondo: essa lo mette in uno stato di indisponibilità radicale. Potrà liberarsene solo a costo d’una frattura. Grazie a Dio, tale frattura può prodursi. Ma i mezzi di cui dispone la Provvidenza per ottenerla sono terribili. Essi consistono nell’incomprensione nella contraddizione, nella sofferenza e nello scacco. E, talora, anche nello stesso peccato, permesso da Dio. La vita di fede subisce allora la sua crisi, la più profonda e la più decisiva. Né può evitarsi questa crisi che, prima o poi, si produce in tutte le condizioni della vita. L’uomo s’è dedicato, anima e corpo, all’opera sua e s’è illuso di dedicarla alla gloria di Dio. Senonché, Dio par che lo abbandoni a se stesso e non si interessi del suo lavoro. Anzi, par che Dio gli chieda di rinunciare al suo lavoro, d’abbandonare l’opera alla quale l’uomo ha dedicato per anni ed anni tutte le proprie forze, ora nella gioia ed ora nel dolore.

«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami tanto, e va nel paese di Moria ed offrilo in olocausto». Questa terribile ingiunzione rivolta da Dio ad Abramo, non c’è servo di Dio che non se la senta rivolgere un giorno a se stesso. Abramo aveva prestato fede alla promessa che Dio gli aveva fatta di dargli una discendenza; per vent’anni aveva atteso che tale promessa si realizzasse. Non aveva perso ogni speranza. E quando finalmente nacque il figlio, frutto della promessa divina, Dio ingiunse ad Abramo di sacrificarglielo, senza nessuna spiegazione. Fu un colpo ben duro e incomprensibile. Orbene, anche a noi, un giorno o l’altro, Dio fa la stessa ingiunzione. Fra Dio e l’uomo par che non si parli più la stessa lingua. Essi non si intendono più. Dio aveva chiamato e l’uomo aveva risposto. Ora è l’uomo che chiama, ma Dio non risponde. È un momento tragico, questo, in cui la vita religiosa confina con la disperazione: l’uomo lotta da solo, nelle tenebre con l’inafferrabile. Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L’uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l’opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d’inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l’uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l’iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L’uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l’uomo attinge l’ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte.
Leone taceva. Non aveva più voglia di far domande. Benché non capisse tutto ciò che Francesco diceva, Leone non aveva mai visto tanto chiaro e profondo nell’anima del Padre. Leone era soprattutto colpito dalla calma con cui Francesco parlava di quelle cose gravi che non poteva conoscere se non per esperienza. Allora si sovvenne di quel che Francesco gli aveva detto un giorno: «L’uomo conosce solo quanto esperimenta». Tutto quello che aveva detto, Francesco doveva averlo sperimentato. Si sentiva tanta voce di verità nelle sue parole. Leone si sentì colmato di dolcezza e di sgomento al solo pensiero d’essere il confidente privilegiato di una siffatta esperienza. Francesco procedeva nel suo lavoro, e intrecciava vimini con mano ferma, come se stesse giocando.

Da ÈLOI LECLERC, La sapienza di un povero, Ed.Biblioteca Francescana, Milano 2000

Letture del giorno

Mercoledì della II settimana di Quaresima

PRIMA LETTURA (Ger 18,18-20)
Venite, e colpiamo il giusto.

[I nemici del profeta] dissero: «Venite e tramiamo insidie contro Geremìa, perché la legge non verrà meno ai sacerdoti né il consiglio ai saggi né la parola ai profeti. Venite, ostacoliamolo quando parla, non badiamo a tutte le sue parole».
Prestami ascolto, Signore,
e odi la voce di chi è in lite con me.
Si rende forse male per bene?
Hanno scavato per me una fossa.
Ricòrdati quando mi presentavo a te,
per parlare in loro favore,
per stornare da loro la tua ira.

SALMO RESPONSORIALE (Sal 30)
Rit: Salvami, Signore, per la tua misericordia.

Scioglimi dal laccio che mi hanno teso,
perché sei tu la mia difesa.
Alle tue mani affido il mio spirito;
tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele.

Ascolto la calunnia di molti: «Terrore all’intorno!»,
quando insieme contro di me congiurano,
tramano per togliermi la vita.

Ma io confido in te, Signore;
dico: «Tu sei il mio Dio,
i miei giorni sono nelle tue mani».
Liberami dalla mano dei miei nemici
e dai miei persecutori.

Canto al Vangelo (Gv 8,12)
Lode e onore a te, Signore Gesù.
Io sono la luce del mondo, dice il Signore;
chi segue me, avrà la luce della vita.
Lode e onore a te, Signore Gesù.

VANGELO (Mt 20,17-28)
Lo condanneranno a morte.

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

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