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Mons. Fulton Sheen: la tristezza

Meditazione

Pubblichiamo l’audio di una meditazione di mercoledì 14 aprile 2021

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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MONS. FULTON SHEEN: LA TRISTEZZA

Sia lodato Gesù Cristo, sempre sia lodato.

Eccoci giunti a mercoledì 14 aprile 2021, abbiamo appena ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi tratto dal cap. III, vv. 16-21 di San Giovanni.

“E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.”

A leggere queste frasi di Gesù verissime, mi viene in mente un testo presente in “La pace dell’anima”, di Mons. Fulton Sheen, dove lui parla della depressione. Nel libro lui distingue tra la depressione di cui adesso vi parlerò, legata appunto alle tenebre, al non far venire la luce, dalla depressione invece patologica che necessita di cure mediche oltre che di cure spirituali. Col prof. Larchet abbiamo già visto che c’è comunque sempre un certo legame, non è esclusivo, non è un dogma, ma è molto possibile. Oggi vorrei leggervi questo testo di Fulton Sheen, sia perché lui scrive benissimo, sia perché è stato un Vescovo meraviglioso, anche di lui vi invito ad andare a leggere la vita, la storia, tutto l’apostolato immenso e stupendo che ha fatto.

“La depressione non è dovuta agli errori che si sono commessi, bensì al rifiuto di guardarli in faccia.”

Aggiungo una cosa: qui potete sostituire la parola depressione con tristezza, malinconia. Quante volte la tristezza e la malinconia bussano alla nostra porta senza assumere il volto di una classica depressione, ma sono pur sempre tristezza e maliconia delle quali San Filippo Neri diceva “fuori da casa mia”.

Con questa frase Mons. Fulton Sheen spazza via tutto quello stile buonista da indulto ad oltranza che c’è oggi, quello stile banalizzante, che è un’offesa; noi banalizziamo il male che facciamo o che fanno gli altri, come se non fosse veramente male. Ho bisogno della libertà perché, altrimenti, non posso essere veramente certo che quando amo, amo. Se non sono libero dell’alternativa come faccio ad essere libero della possibilità di amare?

Noi invece sentiamo la necessità di edulcorare il male.

Il mio male, forse, ti scandalizza così tanto perché non sai gestire questo male che ho fatto, forse perché poi non sai come leggermi, ma questo è un problema tuo, forse non sai come comprendermi — e qui si apre un mondo — non è solo il fatto di conoscermi ma, come dice un grande filosofo, Gadamer: “È soprattutto conoscere gli effetti, tutta la storia degli effetti legata a ciò che riguarda le mie scelte e la mia persona.”

Non mi deprimo perché faccio il male, o perché penso che Dio mi chieda conto della mia vita. Il problema non sono i peccati — non nel senso che i peccati sono banali, tutt’altro! Sono una cosa seria — ma non sono queste le radici del nostro male. E’ la stessa cosa che abbiamo detto leggendo il prof. Larchet, cambiano le culture, le sensibilità religiose, la teologia che sta dietro, mentre ciò che non cambia è l’analisi, la sintesi di questa analisi, e cioè:

“La depressione non è dovuta agli errori che si sono commessi, bensì al rifiuto di guardarli in faccia.”

Agli errori commessi, al tuo male.

“Decine di migliaia di persone soffrono oggi di terrori che altro non sono che gli effetti di peccati inconfessati. Una coscienza ammalata è sempre una coscienza che ha paura.”

Capite da dove viene la paura? Non viene dal Giudizio di Dio.

Noi, invece, per sedare questa paura cominciamo a dire che il peccato non esiste, che non c’è più e in Gesù è già tutto perdonato, non esiste è un retaggio medioevale di questa teologia angosciante, repressiva. Quindi non c’è neanche bisogno del perdono, della confessione. Vado a confessare una cosa che non esiste? Gesù l’ha già perdonata sulla Croce 2000 anni fa. E poi diciamo che non esiste il Giudizio di Dio, Dio è solo bontà, Dio non ti giudica, Dio ti ama, ti perdona. E quindi io sono a posto. In realtà non sono a posto, perché le cose non stanno così. La paura non la togli cambiando la realtà, falsificando la Verità, o chiamando falso il vero e vero il falso. No. La paura non si toglie nascondendosi dietro ai cespugli.

“Una coscienza ammalata è sempre una coscienza che ha paura.”

Rimetti la tua coscienza in Grazia di Dio, chiama col loro nome le cose davanti a Dio, vedrai che la paura va via, che la depressione va via, questa amarezza, questa malinconia, questa insoddisfazione se ne va.

“I mali peggiori provengono dal nostro rifiuto di affrontare la realtà (perciò un dolore attuale è più sopportabile dello stesso dolore che deve ancora venire). La morbosità si accresce dove si neghi la colpa, dove la si giustifichi o se ne nasconda la parte ulcerata.”

Tutte cose che abbiamo già detto. Oriente e Occidente su queste questioni sono in perfetta sintonia. Non c’è diversità teologica, perché questa è la vita, è l’esperienza di persone oneste, di persone vere che ti dicono le cose come stanno. Noi dobbiamo dire i nostri peccati, riconoscerli, chiamarli col loro nome, e questa cosa fa vincere veramente, radicalmente la paura. Certo posso avere paura in quel momento di riconoscerli, perché il male, le tenebre, il vuoto, l’orrido fanno paura a tutti, ma è proprio affrontando questa paura, chiamando le cose col loro nome e vivendo secondo il principio di realtà che io ho la possibilità di risolvere poi alla radice la paura: la devitalizzo. Non dobbiamo né negarla, né giustificarla, né nasconderla.

“Da dove nasce la depressione dell’autocompassione se non da una totale e peccaminosa indifferenza per il prossimo?”

Quando io sono agghiacciato dai miei peccati inconfessati, dal non detto, io del prossimo non me ne posso neanche accorgere, perché non mi accorgo neanche di me stesso. Come faccio ad avere cura degli altri che non ho cura di me? Come faccio ad aiutare gli altri che non so aiutare me? “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ma se io non mi amo come faccio ad amare gli altri?

“Come un soldato sul campo di battaglia non bada alla sua ferita se ama la sua causa, così l’anima che può confidare la sua ansia e la sua pena a un Dio d’amore non ha bisogno di compatirsi. Molte anime sono paragonabili a quelle persone che, affette da pustole, potrebbero guarirne se si sottoponessero al bisturi, che ne farebbe fuoruscire il pus. I loro peccati repressi danno origine a questa forma di tristezza.”

Innanzitutto non dobbiamo cadere nell’autocompatimento, perché noi possiamo confidare in Dio se siamo in Grazia di Dio. Se sentiamo che c’è dentro qualcosa che ce lo impedisce, allora ci dobbiamo chiarire col Signore, come tra due amici. Prima ci sediamo al tavolo e ci chiariamo — questo è fondamentale — poi tiriamo fuori la tovaglia, i marron glacé, il thé buonissimo che viene dalla Cina, appena raccolto, le creme, la cioccolata, le posatine d’argento, la teiera e ci facciamo un tea break, ma dopo, perché prima bisogna fare chiarezza, che non vuol dire per forza risolvere tutto, ma fare chiarezza (sono due cose diverse). Poi la soluzione in alcune volte può venire subito, in altre volte richiede tempo. Se siamo in pace con Dio, ogni ansia e ogni pena è affidata a questo Dio di amore dal quale ci sentiamo profondamente amati. Se noi andassimo a sottoporre al bisturi, cioè in confessionale, le nostre pustole, a farle purificare, e aprire, detergere, vedremmo questi peccati più nascosti possibili, smontati e noi usciremmo toccando il cielo con un dito. Il peccato è sempre fonte di somma tristezza.

“Non c’è mai stato nella storia della Chiesa un santo che non fosse pieno di letizia: molti santi erano stati grandi peccatori, come Agostino, ma nessuno è mai stato triste. Il che è comprensibile: nulla forse sarebbe più deprimente della consapevolezza di aver com­ messo un grave peccato o di non potersene liberare, come è concesso ai cristiani. San Paolo fa una saggia distinzione tra la tristezza del colpevole che conosce la Redenzione e la depressione di chi nega sia il proprio peccato che la possibilità del perdono. “Perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte” (2Cor 7,10).”

Sono due tristezze diverse. C’è una tristezza che viene da Dio, ma è una tristezza pacifica, mi sento triste perché mi vedo con un briciolo di verità e questa cosa mi fa male perché non vorrei essere così, perché credevo di essere in un modo e sono in un altro e poi soprattutto perché ho deluso un’attesa d’amore, però questa tristezza secondo Dio porta ad un miglioramento, ad un cambiamento, e inizio un’evasione da questo carcere. Poi c’è invece la depressione di chi nega sia il proprio peccato — e questa è la tristezza che viene dal mondo — che la possibilità di essere perdonato. Dio perdona tutto, qualunque cosa però lo devi riconoscere e devi dire: “Io sono quell’uomo che ha fatto questa cosa”. Allora il Signore perdona tutto alla radice e tu hai fatto un’esperienza meravigliosa. Il nostro male può diventare un’occasione di vita.

Vi racconto questo fatto veramente simpatico. Mi avevano regalato degli amaretti, poi alcuni di questi me li sono dimenticati e sono ammuffiti. Ma, mi sono detto, perché buttarli via? Magari c’è qualche uccellino… — qui davanti a me c’è un bel giardino, c’è il parco di Villa Pamphili — lo butto nel prato e magari qualche uccellino va a beccare. Allora prendo il mio amaretto, lo lancio fuori dalla finestra (certo, non è molto fine…) e va a finire in un punto preciso del giardino, sotto un albero. Vedo che in un picosecondo un corvo scende, prende il mio amaretto e lo porta via. Mi sono detto: “Hai visto? Ciò che per te è male, è diventato bene per il corvo.”

Il giorno dopo avevo il corvo sull’albero davanti a me che gracchiava, mi guardava e gracchiava. Ho preso l’altro amaretto, l’ho aperto e l’ho gettato esattamente nello stesso punto del giorno primo. Il corvo immediatamente è sceso, l’ha preso e se n’è andato.

Il nostro errore può diventare occasione di vita per noi e per gli altri, l’importante è non nasconderlo. Quando noi facciamo aria dentro la nostra anima, quando buttiamo fuori ciò che è marcito, da lì può iniziare una vita nuova. Per me è iniziata una nuova amicizia, adesso ho un corvo amico, spero che si mantenga fedele al mio boccone. È bello sapere che da un errore può nascere qualcosa di buono. Se avessi tenuto quell’amaretto marcito nella sua custodia, nascosto nel mio cassetto, o se l’avessi buttato via da nascosto, non sarebbe nato niente. Ma una volta manifestato e gettato fuori, quella cosa schifosa, marcita può diventare un’occasione. Anche i nostri peccati schifosi possono diventare un’occasione di conversione.

E la Benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen.

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.

Mercoledì della II settimana di Pasqua

VANGELO (Gv 3,16-21)
Dio ha mandato il Figlio nel mondo, perchè il mondo sia salvato per mezzo di lui.

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

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