Catechesi di lunedì 5 marzo 2018
Ciclo di catechesi “La Fede: dubbio o Abbandono? La Scelta di una vita”
Relatore: p. Giorgio Maria Faré
Ascolta la registrazione della catechesi:
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Brano commentato durante la catechesi:
Libro di Tobia, Capitolo 6
1 Il giovane partì insieme con l’angelo e anche il cane li seguì e s’avviò con loro. Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri. 2 Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. 3 Ma l’angelo gli disse: “Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire”. Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. 4 Gli disse allora l’angelo: “Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte e getta via invece gli intestini. Il fiele, il cuore e il fegato possono essere utili medicamenti”. 5 Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in serbo dopo averla salata. 6 Poi tutti e due insieme ripresero il viaggio, finché non furono vicini alla Media. 7 Allora il ragazzo rivolse all’angelo questa domanda: “Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?”. 8 Gli rispose: “Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. 9 Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono”.
Testo della catechesi
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Buonasera, ben trovati, continuiamo la nostra catechesi, siamo al libro di Tobia capitolo 6 del quale leggeremo alcuni versetti. È un testo estremamente importante, perché tratta un argomento che riguarda tutti noi.
1Il giovane partì insieme con l’angelo e anche il cane li seguì e s’avviò con loro. Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera; allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri. 2Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare. 3Ma l’angelo gli disse: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire». Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva. 4Gli disse allora l’angelo: «Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato; mettili in disparte e getta via invece gli intestini. Il fiele, il cuore e il fegato possono essere utili medicamenti». 5Il ragazzo squartò il pesce, ne tolse il fiele, il cuore e il fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in serbo dopo averla salata. 6Poi tutti e due insieme ripresero il viaggio, finché non furono vicini alla Media. 7Allora il ragazzo rivolse all’angelo questa domanda: «Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?». 8Gli rispose: «Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. 9Il fiele invece serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono».
Voi direte: nessuno di noi fa il pescivendolo, quindi perché stasera ci ha letto questo testo? Cosa c’entra questo testo con la fede, col cammino di fede? Cosa ci può insegnare?
Il tema di questa sera è la paura: il rapporto che esiste tra la paura e la fede. Ognuno di noi, qui presente, dentro di sé porta almeno una paura (tutti noi abbiamo paura di qualcosa o di qualcuno), una paura profonda, non una paura banale, ma una paura reale, radicata, che magari portiamo dentro di noi da anni, magari da sempre, o magari si è creata da poco tempo; sta di fatto che è una paura. E credo che ciascuno di noi non abbia bisogno di un’ora per far emergere il volto di questa paura; se siamo un briciolo onesti con noi stessi, e se abbiamo un briciolo di autocoscienza, alla domanda: “Qual è la tua paura più profonda, più radicale, più grossa, più paralizzante?” ciascuno di noi, in breve, riuscirebbe o dovrebbe riuscire a dipingere il volto di questa paura.
Purtroppo, la paura è un elemento che crea un grosso ostacolo al cammino della fede, al cammino dell’umanità, a diventare uomini. Se un bambino, se un giovane, è attanagliato dalla paura, difficilmente diventerà un uomo maturo, responsabile, equilibrato e via di seguito. Di solito, noi abbiamo la tendenza a rimuovere le paure per non incontrarle, e la rimozione della paura conosce tanti mezzi: la droga, l’alcol, il fumo, affogarsi nel cibo, affogarsi nel lavoro, nei divertimenti e via di seguito. Tanti mezzi per sprecare, sciupare il tempo, per non fermarsi mai a dare udienza a questa paura.
Questa sera, con questo testo, in questa ora, noi invece faremo il processo contrario, cioè, vedremo esattamente come la paura entra in relazione con noi e qual è, secondo Dio, il modo risolutivo per affrontarla. La paura o le paure vanno risolte. La paura, se dobbiamo paragonarla a un frutto, la dobbiamo paragonare all’uva, perché la paura viene a grappoli, non è mai un acino solo. E, allora, adesso vediamo; voi, intanto, sullo sfondo, mentre io parlerò, cercate di tenere la vostra paura più profonda davanti agli occhi, per quanto potete.
La paura non è mai concreta e reale; ha un volto, perché la paura risiede nella tua immaginazione e quindi lì, tu costruisci il volto alla tua paura. Quella paura ha una densità non reale, ma immaginaria, ma questo non le impedisce di avere un’influenza su di te. Non tutto ciò che è irreale non ci tocca, anzi, spesse volte ciò che ci tocca di più è ciò che non esiste, perché gli diamo noi diritto di esistenza, noi lo facciamo vivere, anche se non esiste, questo è il punto. Noi rendiamo animato ciò che è morto, ciò che non c’è, ciò che non esiste.
Perché l’uomo di fede non ha mai paura? Perché l’uomo di Dio non vive nella paura? Perché vive nella realtà! Mentre l’uomo pauroso vive nell’immaginazione, l’uomo di Dio vive nel mistero. Ci sarebbe da fare un ciclo di catechesi su questa distinzione, ma purtroppo il tempo non c’è; comunque, questa è la differenza: il mistero è reale, ciò che c’è nell’immaginazione non lo è. Voi direte: ma come fa un mistero ad essere reale, se è un mistero? Eh, appunto… È per questo che ci sarebbe da fare il ciclo di catechesi!
Facciamo un esempio per capire, alla paura dell’abbandono, che è una paura molto frequente, uno dice: come faccio a dargli un volto? L’abbandono è di per sé un volto; e l’abbandono non è mai generico, si aggancia sempre a un volto concreto di una persona, non è che io ho paura di essere abbandonato e basta. Quella paura dell’abbandono è nata magari da un’esperienza di abbandono o presunto tale, quindi ha assunto un volto iniziale, e poi assume tutti i volti che, da quel momento in avanti, diventano importanti per me. Analizziamo ora il passo della Scrittura che abbiamo letto:
Camminarono insieme finché li sorprese la prima sera…
Le paure si manifestano soprattutto di sera, non dimenticatelo mai. Il momento più cruciale per la vita di un uomo, il momento più difficile, è la sera, la notte, perché la notte ci mette di fronte a quella che è “la situazione più precaria per noi”, dove risiede la paura primitiva, che è la morte. Ogni sera, ogni notte, noi facciamo una sorta di anticipazione, di prefigurazione della morte, perché è il momento nel quale noi perdiamo il controllo del nostro corpo e della nostra psiche. Andando a dormire, noi non siamo più coscienti, perdiamo la coscienza, entriamo in un’altra realtà, dove il nostro inconscio lavora, il nostro corpo continua a lavorare, ma dove la nostra presenza a noi stessi non c’è più. Ecco perché noi abbiamo tanta repulsione ad andare a letto presto! Lo facciamo fare ai bambini e, anche per loro, quando cominciano ad avere coscienza, diventa una condanna e cominciano a piangere, a fare i versi, a ribellarsi, inventarsi mille cose, perché non vogliono andare a dormire. Perché noi abbiamo tutti l’illusione terrificante di poter fare in continuazione, di poter “essere” sempre, ma non è possibile. Io devo accettare l’idea che non sono Dio, io non mi chiamo “Io sono”, io non sono un presente eterno, io sono una realtà che è dinamica, un verbo transitivo, che si interfaccia con la realtà, che riceve, che ritorna, ma io non sono un presente eterno, come Dio, quindi ho bisogno di riposare, che vuol dire: ho bisogno di non fare niente e di sperimentare questa assenza.
È la ragione per la quale si va a letto tardissimo, ed è la ragione per la quale ci si sveglia poi tardissimo, che è proprio contro natura perché, se non avessimo le luci artificiali, noi dovremmo andare a dormire, perché non c’è luce; cosa facciamo al buio? Il ragionamento naturale, logico, della cosa, direbbe: vai a letto presto, molto presto, e svegliati con l’alba, prestissimo, perché lì inizia la giornata, lì tu hai tutte le energie pronte per fare tutte le cose che devi fare, lì è il momento in cui il tuo corpo ti dice: forza, andiamo, io mi sono ricaricato, sono in ordine. Noi, invece, facciamo il contrario. Non è uguale andare a letto alle otto e svegliarmi alle tre, o andare a letto a mezzanotte e svegliarmi alle sette, non è la stessa cosa! Non è che ciò che conta è dormire sette ore! Quello che conta è come io le dormo, queste sette ore! È quando inizio a riposare queste sette ore, è molto diverso. Se voi andate al letto alle otto e vi svegliate alle tre, voi siete riposatissimi; se voi andate a letto a mezzanotte e vi svegliate alle sette, siete cotti; è un’esperienza. E anche quando noi diciamo: “Se vado a letto presto, non dormo”, non è vero, è falso, questo viene dalla cattiva abitudine che noi abbiamo inserito dentro di noi, ma il nostro corpo non ragiona così.
Ed è in questo contesto che si inserisce la paura; la paura, dentro la realtà del buio, dell’esperienza della finitezza, comincia a trovare la sua eco, si fa sentire, si manifesta, perché l’immaginazione comincia a galoppare. Il buio dell’esterno spegne i riflettori sulla realtà, quindi la mia testa comincia ad andare. Infatti, se voi notate, le più grandi litigate, soprattutto familiari, avvengono sempre di sera, non avvengono mai al mattino alle quattro, ma sempre alla sera, sempre, prima di andare a letto.
…allora si fermarono a passare la notte sul fiume Tigri.
Sono lì, sul fiume, un luogo come tanti altri.
Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare.
Ora, cerchiamo un po’ di immaginare questa scena: voi avete mai visto un pesce (che non sia uno squalo bianco, perché è un po’ difficile che in Palestina, o in Egitto, o in quelle zone lì, dove trovare un po’ di acqua è un miracolo, uno squalo bianco si metta a muoversi), che sta ad aspettare proprio me e, in quell’istante lì, a riva (cosa poco probabile, perché i pesci grossi non stanno a riva, dove non c’è acqua), mentre sta soffocando, perché gli manca l’aria, io non lo vedo e gli vado a mettere il piede lì vicino, e a questo grosso pesce, improvvisamente, viene in mente di divorarmi il piede? Voi capite che questo racconto ci rivela già che c’è un problema, e il problema lo capiamo subito leggendo il seguito:
3Ma l’angelo gli disse: «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire». Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva.
Allora, i casi sono due: o il pesce era grosso e non lo puoi afferrare con le mani e tirarlo a riva, o questo pesce non era grosso, e allora lo afferri con le mani e lo tiri a riva; uno squalo bianco non lo tiri a riva con le mani, e un pesce grande a sufficienza da riuscire a divorare un piede è un po’ complesso da trovare! Quindi voi vedete che l’incontro con la paura è sempre un incontro sproporzionato che, usando degli elementi reali, li fa diventare immaginari, enormi: “il grosso pesce del fiume Tigri”, tipo il mostro di Loch Ness.
Adesso vediamo bene cosa succede, rileggiamo: «Il giovane scese nel fiume per lavarsi i piedi, quand’ecco un grosso pesce balzò dall’acqua e tentò di divorare il piede del ragazzo, che si mise a gridare». La nostra reazione tipica di fronte alla paura è quella di perdere il senso della parola, noi non riusciamo più a comunicare. Infatti, oggi, è molto diffuso il cosiddetto attacco di panico e, quando uno è dentro a questo problema, a parte che ci può lasciare le penne, ma, al di là di questo, non riesce più a parlare, gli si ferma il fiato in gola, rimane come paralizzato, oppure ha comunque questa sensazione di soffocamento.
Questo verso del gridare, questo atteggiamento del gridare, della perdita di controllo della parola, è il segno che la persona non è più in grado di relazionarsi in modo equilibrato e corretto con la realtà, quindi grida, che è una cosa assolutamente insensata, perché, se io grido, non è che il pesce mi lascia il piede. Ammesso che questo pesce mi abbia preso il piede e io gridi, il pesce continua a mangiarmi il piede. È una reazione che è assolutamente sbagliata, non proporzionata all’evento che sto vivendo, non mi fa risolvere la questione. Ma la paura fa esattamente così, mi toglie la lucidità per affrontare la realtà nel modo corretto. Se io ho un grosso pesce che mi mangia il piede, l’ultima cosa da fare è gridare. Ci sarà qualcos’altro da fare, non gridare, non perdere la testa…
Ma l’angelo gli disse…
Notate che, a questo punto del libro di Tobia, lui non sa ancora che Azaria è l’angelo, Azaria è semplicemente un compagno di cammino, una guida.
3Ma l’angelo gli disse: «Afferra il pesce…
Perché gridi? Cosa stai facendo? Ma dove sei? Non devi gridare addosso al pesce, lo devi prendere. La nostra paura va afferrata, non fuggita: scrivetelo a caratteri d’oro nella vostra mente. Se avete paura di qualcosa o di qualcuno, non dovete fuggire dandogli le spalle, lo dovete prendere per le corna. La paura va affrontata chiaramente, con una mente chiara. C’è un film bellissimo, che vi consiglio di vedere, che si intitola La forza del singolo; in questo film, c’è una scena che è potentissima ed è bellissima; purtroppo, anche se non l’avete visto, ve la devo dire, perché sennò non posso spiegarvi. Nel film c’è questo bambino che ha un problema, che è quello di fare la pipì a letto. Questo, per diverse persone, è un problema grosso, cioè il fatto che crescono e, purtroppo, alle volte, fanno ancora la pipì al letto. Quindi, i genitori cominciano con le ossessioni compulsive, a dire: “Ti ho detto mille volte che non devi fare la pipì al letto”, e il bambino continua a farla ancora di più, perché è terrorizzato da questa cosa. Allora, questo bambino del film fa un sogno, grazie all’incontro con un personaggio che lo manda come in trance, e gli fa fare questa esperienza, appunto, di incontro con la paura. In questo sogno, arriva l’elefante, enorme, gigantesco, che lo sta per aggredire, e il bambino, invece di fuggire, tende la mano verso l’elefante. L’elefante con la proboscide gli tocca la mano e, nel momento in cui l’elefante gli prende la mano con la proboscide, lui si sveglia dalla trance e trova le sue mani nelle mani di questa persona che lo sta aiutando. La paura si affronta così, in nessun altro modo! Se di fronte al mio elefante io fuggo, mi distrugge.
La paura, veramente, ha un potere di distruzione che non abbiamo neanche idea di quanto sia forte; la paura disintegra la vita di una persona. Qui non sto parlando della paura del ragno o del topo, qui sto parlando proprio della paura esistenziale, di quelle paure profonde che vanno affrontate. Infatti, anche in quel caso, l’angelo dice a Tobia: “Tu non devi fuggire il demonio, tu devi combattere. Le prenderai, tutto quello che vuoi, ma tu devi combattere”; noi, invece, fuggiamo.
Facciamo l’esempio di un bambino o un ragazzo che spacca il vaso di cristallo della nonna del 1400, che è in casa da nove generazioni, cosa fa? Metterlo insieme non può più, quindi: o si suicida, così risolve il problema, oppure in qualche modo dovrà affrontare questa questione; dovrà dire a qualcuno: “Io ho frantumato il vaso di cristallo della nonna del 1400”. Se lo fa in modo chiaro, diretto e immediato, dice: “Eh, purtroppo, è andata così… L’ho mandato in frantumi”. Se però non lo fa e nasconde il vaso, nasconde i frantumi, nasconde sé stesso la soluzione non è fargli una testa tanta perché lui fa così, la questione è: “Di che cosa hai paura?”. La risposta tipica è: “Ho paura che tu ti arrabbi” (questo non è vero, non è questa la vera paura); contro-risposta: “Perché, se mi arrabbio cosa succede?”. È lì la vera paura, che tu non stai riconoscendo; tu hai paura di due cose almeno: la prima è che io smetta di amarti (e non che io mi arrabbi), il fatto che io mi arrabbio per te è sinonimo di “cessa di volermi bene”; la seconda è che, se tu ti arrabbi, io perdo dei punti di stima davanti ai tuoi occhi, quindi è l’amor proprio.
Questa è la ragione per la quale c’è in giro una permalosità spaventosa, non si può dire niente a nessuno, basta un frammento, una qualunque piccola parola, una qualunque piccola cosa, uno sguardo sbagliato, un sorriso non dato a trentadue denti ma solamente a ventinove, e si scatenano fiumi di guerra, ma non perché io ho paura che tu ti arrabbi, ma perché io ho paura di altro.
Come quelli che dicono: “Sa, Padre, io ho avuto paura di lei a venirle a dire questa cosa”, ma non è vero; tu non hai paura di me, perché hai paura che io ti sgrido o che io ti castigo, che io mi arrabbio, non è questa la paura, la paura è un’altra: è che tu ti sei legato / ti sei legata all’idea che rimproverarti vuol dire non amare, vuol dire la possibilità che questo amore cessi, vuol dire che tu perdi stima ai miei occhi; quindi, in ultima analisi, vuol dire che tu hai una visione non reale di quello che si chiama amare. Perché l’amore non va di pari passo con il massimo della prestazione possibile, l’amore va di pari passo con l’amore, punto. Quando uno ama, ama. Tutt’al più, potrà succedere che muore di dolore, muore dall’esasperazione ma, quando uno ama, non può abbandonare e non puoi perdere punti ai suoi occhi. Ma noi non portiamo veramente quest’idea dentro di noi, perché ci siamo costruiti questi mondi, un po’ paralleli, dove noi pensiamo tutto quello che ho detto prima.
Quindi, l’angelo dice a Tobia:
«Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire»
Se vogliamo vincere la paura, bisogna fare così: afferra la tua paura e non farla fuggire; è l’unico modo che tu hai per risolverla perché, se quella fugge, ritornerà; se il pesce lo fai rientrare nel fiume, tu non ti potrai più lavare i piedi, non potrai più accostarti al fiume, perché quel fiume sarà sempre un problema per te, perché porterà dentro di sé la tua paura, la quale, quando meno te lo aspetterai, salterà fuori. Ecco perché sta nel fiume, perché tu così non lo vedi. Il coltello dalla parte del manico ce l’ha il pesce, perché è nascosto nell’acqua, nel buio, e se tu lo fai rientrare nel fiume, come farai a tornare nel fiume? Tu hai bisogno del fiume, perché è vita, perché è acqua; ma come fai ad avvicinarti se questo pesce salta fuori un’altra volta? L’unico modo è bonificarlo e, per farlo, devi prendere il pesce e tirarlo fuori, non lasciarlo fuggire.
Notate poi che l’angelo non aiuta il ragazzo a prendere il pesce, l’angelo sta lì e lo guarda, e gli dice: “Forza, cosa stai facendo? Afferra il pesce! Perché urli? A cosa serve? Non serve a niente vivere nel terrore, sudare tutto e tremare,! Afferra questo pesce, tiralo fuori!”. Ma l’angelo non fa niente, l’angelo dà il consiglio di fare, ma poi sta fermo, non si muove di una virgola, perché quel compito è totalmente di Tobia.
Sono io a dover fare questa parte, perché devo essere io a risolvere questa paura; io devo tirar fuori il pesce; io devo prendere questa paura e tirarla fuori di me, la devo tirar fuori dal mio cuore, dalla mia testa, deve venir via per sempre, la devo afferrare, strappare e tirar via, altrimenti tutti i miei pensieri, tutti i miei affetti, saranno sempre inquinati da quella paura, non potrò mai essere certo di niente. E si vedono, le persone così! Se questa cosa qui incontra il mondo della religione, è la fine. Perché uno, da lì, precipita nel peggio del peggio, che sono gli scrupoli, e da lì non viene fuori più, è difficilissimo uscirne, tutto diventa un dubbio: “Avrò fatto bene; avrò fatto male; e questa cosa qui? E adesso? No, però non lo so; boh, e allora?” E comincia il cervello ad andare tutto insieme, e poi basta, non riesci più a fare niente: non riesci più studiare, non riesci più a lavorare, non riesci più a mangiare; perché il cervello è sempre lì che gira, sempre costantemente che si arrotola su sé stesso, sempre attorno a quel pensiero. Perché la paura sguazza dentro a queste cose, perché tu non l’hai presa, non l’hai affrontata e non l’hai tirata fuori da te.
Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce…
Ciascuno di noi può farcela, ciascuno di noi può afferrare la sua paura; se vuole, se si impegna, se la conosce, se la vede, se è coraggioso, può affrontare questa paura.
Il ragazzo riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva.
La si può veramente tirar via, si può vincere, la paura; non nascondendola, non rivestendola di sacralità, non cambiandole il vestito, non girando la testa altrove, no, no, ma prendendola per le corna o per le pinne, che dir si voglia. Ma prendere la paura e tirarla fuori, non basta, non è sufficiente. Una volta che l’hai tirata fuori, questa paura, la devi squartare. La paura va vivisezionata; ci devi guardare dentro, nella paura, sennò non cessa di far paura. Tu, questa paura, non solo la devi prendere — la devi tirar fuori dalla testa e dal tuo cuore — ma la devi guardare, e la devi guardare fino in fondo, tutta! Solo così tu la uccidi, ma non solo la uccidi, ma:
Aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato…
Tu gli devi proprio togliere la parte più vitale, perché, come vi ho detto prima, la paura si attacca, si innesca, su qualcosa di esistente, ma poi lo rende un elefante ed entra nell’immaginazione. Allora l’angelo gli dice: “Tu da questa paura devi tirare via tutto ciò che c’è di vero, perché ci sarà una parte di verità, in quella paura; quella parte di verità è salvezza per te e per gli altri. Tutto il resto lo butti, perché ormai è morto, ma quella roba lì la devi tenere con te”. Notate che il fiele è la bile, la roba più puzzolente, schifosa e amara del mondo; voi provate a spaccare un sacchetto di bile del pollo, poi provate a mangiare il pollo, vedete cosa succede! Provate ad avere un travaso di bile voi e vedete cosa succede!
Questa bile servirà per metterla sugli occhi di suo padre per guarirlo, e il cuore e il fegato serviranno per guarire la sua futura moglie Sara, che è perseguitata da Asmodeo, che le ha fatto morire sette mariti e più nessuno la vuole. Quindi dalla sua paura affrontata, afferrata, uccisa, lui trarrà la salvezza per suo padre, che è diventato cieco, e per sua moglie, perseguitata dal demonio. Ma se lui non avesse aperto il pesce e non l’avesse afferrato e non l’avesse ucciso e non l’avesse affrontato, suo padre sarebbe rimasto cieco e, nel momento in cui lui fosse avvicinato a Sara, sarebbe morto: ottavo marito defunto.
Capite perché è importante affrontare la paura? Perché dalle nostre paure noi non dobbiamo fuggire, in quanto anche lì abbiamo qualcosa da imparare; le nostre paure, una volta affrontate, sono cattedre di insegnamento, non solo per noi, ma anche per gli altri, hanno da darci qualcosa, cioè, ci fanno crescere, una volta che vengono affrontate seriamente, ci danno la possibilità di maturare, diventare persone migliori e di dare vita agli altri, possono essere medicamenti.
Il ragazzo squartò il pesce, — ormai la paura è andata — ne tolse il fiele, il cuore e il fegato; arrostì una porzione del pesce e la mangiò; l’altra parte la mise in serbo dopo averla salata.
Allora: l’intestino si butta e il resto di questa paura diventa, per lui, direttamente nutrimento. Ciò che prima lo aggrediva, una volta affrontato, lo nutre, guarda un po’! Funziona esattamente così, basta farne esperienza. Affrontando la paura, tu comincerai a vedere che ci sono delle cose che non sono esattamente così come tu le stai percependo. È vero per te, nel senso che dentro la tua testa l’immaginazione ha creato questa percezione, ma non è reale, fuori non c’è. Azaria è lì per dirti: sarà anche un grosso pesce, ma tu comincia a prenderlo in mano, non è così grosso! Per farti capire che non è così grosso, ti dico: “Afferralo”, ce la puoi fare, però lo devi fare tu. E quando comincerai a misurarti con questa paura, ad affrontare questa paura, ad afferrare questa paura, tu dirai: “Ah, bah, non è proprio così terribile! Credevo peggio”. Però la devi affrontare tu, nessuno ti deve sbattere addosso quella paura, sennò succedono delle cose terribili. Se, ad esempio, tu hai paura di tuffarti nell’acqua, perché hai paura dell’acqua profonda, di annegare, e io ti metto sul bordo della piscina e ti butto dentro, questo non va bene, non è questo il modo di affrontare la paura! Questi sono i modi idioti di tanti pseudo educatori/genitori che, pensandosi dei guru dell’educazione, ti dicono: “Hai paura dell’acqua? Bene, mettiti sul bordo”, e ti danno un calcio e ti buttano dentro; non si fa così, perché questo vuol dire proprio non rispettare minimamente la persona e i tempi della persona, perché io dovrò far capire a quella persona che l’acqua non è un problema, ma non glielo faccio capire buttandola dentro, perché quella potrebbe morire d’infarto. Glielo farò capire magari andando io e dicendo: “Guarda, vedi che riesco a nuotare? Vedi che riesco a stare dentro? Vedi che non mi fa niente di male? Vedi che non affogo?” Ma bisogna dare alla persona la possibilità di affrontarla lei, la paura, è lei che deve rendersi conto. E allora inizierà col toccarla con un dito, mettendoci dentro un piede, poi tirandolo fuori, poi facendo millecinquecento altre cose e, alla fine, anche lei supererà la sua paura, affrontandola. Quando l’affronterà, dirà: “Ah, ma l’acqua non è così terribile! Io pensavo che l’acqua mi ingoiasse!”. No, l’acqua non ti ingoia! L’acqua non ti beve, sei tu che la bevi! Ma si capisce col tempo.
Solo che il punto della questione — che sarebbe un altro tema di catechesi di una serata, che magari affronteremo — è avere accanto Azaria, perché la paura la devi affrontare tu, ma non da solo, perché non ce la fai; è troppo aggressivo, quel pesce, nella tua testa, è troppo grosso. Poi in realtà non è grosso perché, se Tobia se lo è mangiato tutto in una sera, non poteva essere una balena! Ne ha messo via un po’, va bene, però hanno dovuto fare poi un certo tempo di viaggio, e, se ammazzo una balena, non è che me la porto dietro così! Ma questo si capisce dopo, lo si capirà una volta sistemata la questione.
Allora, il problema più grosso, che magari vedremo un’altra volta, è avere accanto Azaria cioè, individuare tra mille, il mio Azaria, che non si sostituisce a me, ma che mi aiuta a individuare la paura, a riconoscerla, a darle un nome e ad affrontarla, e mi dà i consigli giusti: “La paura non la devi fuggire, la devi affrontare”. Ogni paura nasce da un qualcosa che abbiamo di vero, di reale, che portiamo dentro, come di un’esperienza fatta; solo che dopo la paura costruisce sopra tutta una callosità pazzesca, che va tolta. Ora, quando noi uccidiamo la paura, non è che semplicemente prendiamo la paura e la gettiamo fuori dalla finestra, perché questa paura nasceva da qualcosa di reale e io, questo qualcosa di reale, in modo reale, lo devo affrontare, lo devo guardare. E, dentro questo qualcosa di reale, ci sarà anche un fondo di verità, ci sarà un insegnamento per la mia vita: qualcosa questa paura me la vorrà dire! Lei poi si è ingigantita, mi ha terrorizzato e ha fatto quello che non doveva e che gli ho permesso di fare.
Facciamo un esempio molto pratico, per capirci: allora, crescendo noi impariamo ad avere paura di attraversare la strada, quando ci sono le macchine che passano. Noi arriviamo al marciapiede e, siccome abbiamo paura che la macchina ci venga addosso, ci fermiamo e guardiamo. Il bambino piccolino, che non sa cos’è quella paura, prende, va e attraversa, perché non ha paura della macchina, perché non ha ancora sperimentato che cos’è il problema del dolore, della morte. Se questa paura diventa “il grosso pesce”, io mi chiudo in casa e non esco più. Cioè, ho talmente paura delle persone, che non esco più; ho talmente paura di essere preso in giro, che non esco più. Azaria mi aiuterà a dire: “Beh, questa paura la analizzeremo e vedremo che è eccessiva, è immaginaria rispetto alla realtà, però è reale che tu devi aver paura delle macchine e non devi attraversare la strada con gli occhi chiusi!” Non è che io, per vincere la mia paura, allora domani vado in giro con la benda sugli occhi e dico: “Io attraverso, quel che succede, succede, così, ho vinto la mia paura”. No, questo vuol dire essere stupidi, vuol dire non guardare il fondo di verità che c’è dentro ogni paura. E questo esempio voi lo potete prendere ed estendere su qualunque genere di paura: dentro c’è sempre un insegnamento, infatti, tolta la scorza di questo grosso pesce, rimane il cuore, il fegato e la bile; rimane il fondo di verità, che mi dice: “Attenzione, realmente devi stare attento a …; però questa paura non è un grosso pesce, non è una cosa che ti divora, è una cosa che tu puoi controllare e che, insegnandola, può far del bene agli altri”.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.
Informazioni
Padre Giorgio Maria Faré ha tenuto queste catechesi tutti i lunedì alle ore 21 presso il Convento dei Padri Carmelitani Scalzi di Monza.