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Le radici spirituali delle malattie psichiche: sedicesima parte

Meditazione

Pubblichiamo l’audio di una meditazione di giovedì 4 marzo 2021

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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LE RADICI SPIRITUALI DELLE MALATTIE PSICHICHE – Sedicesima Parte

Sia lodato Gesù Cristo, sempre sia lodato.

Eccoci giunti a giovedì 4 marzo 2021, primo giovedì del mese, a noi tanto caro per la riparazione degli oltraggi, i sacrilegi, le indifferenze contro la Santissima Eucarestia.

Abbiamo appena ascoltato la prima lettura, tratta dal cap. XVII, vv 5-10 di Geremia. La Scrittura di oggi riprende quanto stiamo leggendo e commentando ne “L’Inconscio Spirituale” del prof. Larchet, e questa espressione è un’espressione che non dovremmo mai dimenticare:

“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.”

Non c’è nessun vantaggio, nessuna vita, nessuna benedizione a confidare nell’uomo perché il cuore dell’uomo è infido e difficilmente guarisce. Non è un pessimismo o un disfattismo, è la realtà, è così, purtroppo è questo il nostro cuore, anche per questo abbiamo tanto bisogno del Signore, che sappia rendere il nostro cuore diverso, degno di fede e di stima, un cuore costante e perseverante, un cuore umano e tanto innamorato di Dio, un cuore delicato, coerente. Stiamo attenti ad essere come quest’uomo invece, che confida nel Signore e solo il Signore è la sua fiducia e si getta interamente nel Signore, rinuncia a quel sostegno, a quel conforto che può venire in modo così immediato ma anche in modo così effimero, così fugace, così incostante dall’uomo, dalla creatura.

“Chi lo può conoscere?”

Non dimentichiamoci mai che solo il Signore scruta la mente e saggia i cuori.

Proseguiamo la meditazione che stiamo facendo sul tema dell’orgoglio e, come vi dicevo, dobbiamo cominciare quest’oggi la parte riguarda la terapeutica dell’orgoglio.

La terapeutica dell’orgoglio (o philautia, in quanto amore egoistico di sé, nella terminologia dei Padri) consiste essenzialmente nel convertirlo in carità, che è amore autentico di sé, del prossimo e di Dio, tre amori profondamente legati fra loro, anzi mutuamente implicati l’uno nell’altro. Già in un altro libro ho esaminato le condizioni per arrivare alla carità, in queste sue tre forme, e rimando perciò a esso (Terapia delle malattie spirituali). La forma meno nota di carità è forse quella che uno esercita verso sé stesso e che san Massimo il Confessore chiama «la bella philautia»; ne parleremo nella sezione seguente, dove sarà più direttamente implicata. Per quanto concerne la terapeutica della vanagloria (o kenodoxia), siccome essa è ricerca di gloria umana, mondana, terrena, l’uomo che vuole vincerla deve anzitutto ammettere la vanità d’una siffatta gloria, in particolare prendendo coscienza dell’inconsistenza dei suoi fondamenti e del niente dei fini che essa persegue. Siccome la vanità è ricerca di considerazione, fama, onore, gloria, si deve rinunciare a tutto ciò che può esserne fonte od occasione. Essendo la vanagloria un desiderio di essere notati, chi vuole combatterla deve evitare tutto ciò che nelle sue parole, nei suoi gesti e comportamenti può farlo distinguere in modo speciale; al contrario, chi vuole liberarsene deve far di tutto per diventare o restare sconosciuto. Chi vuole vincere la vanagloria non soltanto deve nascondere agli altri uomini – da cui si aspetta ammirazione e lode – le sue eventuali qualità (intellettuali, morali o spirituali), ma non deve neanche nascondere le sue colpe. Per dire tutto in breve – e siamo a un rimedio fondamentale contro la vanagloria -, l’uomo deve accettare il disprezzo e l’umiliazione. Quest’accettazione ha per l’uomo una funzione liberatoria lo guarisce dalla vanagloria proprio perché essa, al contrario, va cercando gloria mondana, ammirazione o addirittura stima dagli altri.”

È la prima lettura di oggi, quella di Geremia.

“Ma la vanagloria è anche una passione per cui l’uomo stima, ammira e onora sé stesso e si glorifica ai propri occhi. Per combatterla a questo livello, l’uomo deve anzitutto dimenticare e non far caso egli stesso alle proprie eventuali qualità e nascondere ai propri stessi occhi ciò che di buono ha in sé e il bene che ha fatto. Come già abbiamo fatto notare, la gloria che viene dagli uomini e quella che viene da Dio sono fra loro antagonistiche e si escludono a vicenda. Se dunque l’uomo deve rinunciare a ogni gloria umana, è per avere accesso alla gloria divina cui lo destina la sua natura. Fino a quando, invece, resta attaccato alla gloria terrena, non può affatto gustare quella celeste. Per questo, umiliarsi è la via obbligata, la condizione indispensabile per partecipare alla gloria divina. L’uomo, l’abbiamo visto, tende per sua natura alla gloria; ma è la gloria che viene da Dio quella che gli si confà veramente. E allora deve esclusivamente glorificarsi in Dio, conformandosi alla parola dell’Apostolo – «Noi ci gloriamo nel Cristo, e non riponiamo la nostra fiducia nella carne» (Filippesi 3 ,3) – e dando fiducia alla promessa di Dio: «Glorificherò quelli che mi glorificano» (Primo libro dei Re 2,30). Insomma, alla ricerca della «gloria secondo la carne» (Seconda lettera ai Corinzi 11,18) il vanaglorioso deve sostituire la ricerca della «gloria che viene da Dio solo» (Giovanni 5 ,44). Quanto più l’uomo tenderà alla gloria divina, tanto più si disinteresserà della gloria che viene dagli uomini. Per questo, l’amore di Dio e della Sua gloria appare come un modo per liberare l’anima dalla vanagloria. Dobbiamo poi anche sottolineare, a tal fine, il ruolo essenziale della preghiera, che aiuta l’uomo a staccarsi da questo mondo: oggetto della vanagloria – per attaccarsi a Dio e Lui glorificare, riconoscendo che a Lui solo «spetta ogni gloria, onore e adorazione». La terapeutica dell’orgoglio propriamente detto presenta un certo numero di punti in comune con quella della vanagloria. Siccome nelle sue linee generali l’orgoglio consiste in un innalzarsi sugli altri e di fronte a Dio, l’uomo non potrà guarirne se non sforzandosi in ogni circostanza di evitare d’innalzarsi, ma al contrario distruggendo l’abituale disposizione della passione con una progressiva disabitudine dell’atteggiamento che la caratterizza; ciò implica una costante vigilanza interiore.”

Noi quanto siamo costanti e quanto siamo vigilanti sulla nostra interiorità?

Vuol dire presenza a sé stessi, ascolto di sé, auto-sguardo, vuol dire non accontentarci di ciò che appare di noi, guardarsi in profondità e in modo costante. Quanta fretta c’è nel giudicare gli altri, e con noi stessi essere molto svelti nel fare le cose.

“In questo lavoro, l’uomo sarà aiutato dalla meditazione sulla vanità e il nulla che sono le cose su cui, nella sua passione, egli fonda la propria superiorità: instabilità di tutte le cose umane, fugacità delle ricchezze, del potere, debolezza e fragilità dell’uomo stesso, soggetto in questo mondo alla malattia, all’invecchiamento e alla morte, e che senza Dio non è che «terra e cenere, ombra e fumo». L’orgoglio, l’abbiamo visto, si esprime in atteggiamenti svariati: eccessiva fiducia in sé, auto soddisfazione, arroganza, sicurezza, pretesa di sapere, fiducia nel proprio giudizio, certezza d’aver sempre ragione, mania di giustificarsi, spirito di contraddizione, voglia d’insegnare, di comandare, rifiuto di sottomettersi.”

Da qui noi sappiamo di avere a che fare con l’orgoglio.

“È dunque sforzandosi d’avere dei comportamenti contrari che su questo piano l’uomo potrà combattere l’orgoglio: odio per la volontà propria, diffidenza per il proprio giudizio, rinuncia all’autogiustificazione, biasimi contro sé stesso, rifiuto di contraddire, d’insegnare e comandare, atteggiamenti che uno sicuramente assumerà nel quadro dell’obbedienza al proprio padre spirituale.”

Noi vogliamo tanto il Padre Spirituale, cerchiamo tanto il Padre Spirituale però non so se viviamo di più il primo elenco di caratteristiche (quelle dell’orgoglioso) oppure il secondo.

“Per evitare la prima forma d’orgoglio, che è di considerarsi superiore agli altri, o perlomeno ad altri, e disprezzarli, l’uomo dovrà impegnarsi anzitutto a scoprire in essi ciò in cui sono superiori a lui, rifiutarsi di vedere i loro difetti e valorizzare invece le loro qualità. È soprattutto in questo senso che san Massimo dice: «La carità distrugge l’orgoglio». Ma l’orgoglioso dovrà addirittura arrivare (pur senza finire in una qualche svalutazione patologica di sé) a considerarsi inferiore a tutti. Anche il ricordo dei suoi peccati contribuirà a togliergli il sentimento della propria superiorità, rivelandogli tutta la sua miseria spirituale. E tanto più il suo orgoglio diminuirà, quanto più incentiverà un sentimento di contrizione.”

Con i peccati che abbiamo commesso nella nostra vita, non dovremmo avere il coraggio di dire mezza parola a nessuno, dovremmo avere solamente un grande desiderio di silenzio, di preghiera, di meditazione e di riparazione.

In un’omelia passata, intitolata “sTare”, e nelle omelie di quel tempo, avevo spiegato che, secondo me, dovremmo smetterla di dire che non vogliamo andare in determinate chiese perché c’è il prete che non ci piace, perché celebra nel modo che non ci piace, perché non ci capisce, non c’è devozione ecc, e dicevo che noi dovremmo andare dove siamo, senza perdere tempo a fare chilometri e chilometri. Su questa questione mi sono arrivati un po’ di messaggi e di mail di protesta. Più di una persona mi ha scritto qualcosa di questo tipo: “Ho la chiesa a 50 metri da casa e, per andare a Messa, prendo la macchina e faccio 30/40/50 chilometri perché nella chiesa vicino a non mi trovo, la Messa non mi piace, il prete non mi piace, la Comunione non la danno come ho in mente io… Poi arriva il momento in cui non ho la possibilità di prendere la macchina per andare lontano perché c’è la zona rossa, la ruota della macchina si è bucata, non c’è nessuno che mi porta, perché c’è la nebbia ecc, allora, piuttosto che andare vicino a casa non vado a Messa, oppure vado e poi scappo via subito, perché a tutto c’è un limite.”

Io ho risposto che non è vero che a tutto c’è un limite, perché alla carità non c’è nessun limite.

E poi ho chiesto: ma Gesù nel Tabernacolo che c’è in quella Chiesa, scappa via anche Lui? Il Tabernacolo si è svuotato?

Facciamo un gioco di immaginazione, facciamo finta che tu sei Gesù, e sei dentro a quel Tabernacolo, sei presente su quell’Altare, in quella Messa, quella Messa che tu dici che non ti piace, che non è fatta bene ecc.
Bene,  tu sei Gesù e sei lì.
In quella chiesa entra una persona che dice che ti ama profondamente, che è tua amica, che prega. A te che sei lì e che da lì non ti puoi muovere, cosa farebbe piacere? Vederti abbandonato anche da quella persona? Vederla che se ne va altrove per cercare non si sa bene chi o che cosa —speriamo non sé stessa — oppure preferiresti vedere quella persona che rimane lì, raccolta, a farti compagnia, a condividere la tua sofferenza, la tua amarezza, il tuo dolore? Vorresti che fosse lì a dirti: “Guarda, io vorrei scappare, e potrei anche farlo, ma rimango qui per Te, perché un amante non lascerebbe mai il suo amato, soprattutto se sa che è in una situazione difficile, di dolore, di sofferenza, e se anche a 50 metri c’è una chiesa come piace a me, dove Tu lì sei onorato, amato, celebrato nel modo migliore possibile, una chiesa fatta di Angeli e Santi, con la Messa celebrata da Padre Pio in persona, e qui di fianco c’è questa chiesa dove non sei amato così tanto, io resterei qui, rinnegando e rinunciando ad ogni mio gusto e desiderio per Te, per stare qui con Te, affidando a Te la mia santità, la mia fede, il mio cammino, il mio desiderio di riceverti, rinunciando a tutto, pur di poter stare qui con Te e riparare. Una Santa Messa di totale riparazione e adorazione con il mio amore.”

Ho visto un bellissimo film, ve lo racconto per fare un paragone, un bellissimo film basato su una storia vera di un condannato a morte che poi si converte. C’è questa suora che lo segue fino a quando arriva il momento della condanna, che non viene tolta, quindi lui deve andare a morire anche se aveva cambiato vita. Lei gli dice:

“Io ci sarò, quel giorno ci sarò. Tu guarda me, guarda i miei occhi quel giorno, perché l’ultima cosa che tu dovrai vedere sarà l’amore. Dovrai chiudere gli occhi su questo mondo guardando l’amore e lo vedrai nei miei, io sarò lì. Ci saranno anche tanti altri che invece non ti guarderanno così.”

È bellissimo perché si vede quest’uomo che arriva lì ­— lo uccidono con un’iniezione letale — inizia tremare e ad avere paura, inizia a cercarla e la vede. Lei lo guarda, un po’ gli sorride. Lui la fissa e si calma e si spegne così. Lei rimane lì con tutto il suo dolore e tutto quello che vuol dire vedere un uomo morire, però è rimasta lì, poteva essere nel suo convento, altrove, ma lei è rimasta lì.

Se pensiamo che Gesù in quella Messa, in quella chiesa non sia trattato bene, invece di continuare a criticare, a polemizzare, a mormorare, a calunniare, a fare discorsi inutili, mondani, perché invece di avere questo atteggiamento così acido, così giustizialista, così lamentoso, non diciamo al Signore: “Signore, guarda me, se anche nessuno qui ti amasse, ti amo io, sono qui per dirti il mio amore, e se a me sembra che tu non sia trattato bene, sono qui per trattarti bene io. Ci sono io”?

A me sembra che questo sarebbe un grande modo per crescere con una grande fede, completamente spogliata di gusto personale, una fede nuda, povera, ma vera, una fede vera, perché crede che veramente lì ci sia il suo Signore e per niente al mondo lo lascerebbe.

Oggi è il primo giovedì del mese, auguro davvero di cuore, a me e a voi, di fare dell’Eucarestia veramente il centro della nostra vita.

E la Benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo discenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen.

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.

Giovedì della II settimana di Quaresima

PRIMA LETTURA (Ger 17,5-10)
Maledetto chi confida nell’uomo; benedetto chi confida nel Signore.

Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti.
Niente è più infido del cuore
e difficilmente guarisce!
Chi lo può conoscere?
Io, il Signore, scruto la mente
e saggio i cuori,
per dare a ciascuno secondo la sua condotta,
secondo il frutto delle sue azioni».

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