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D. Bonhoeffer, Sequela. Parte 66

Falò sulla spiaggia

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: D. Bonhoeffer, Sequela. Parte 66
Giovedì 12 ottobre 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Lc 11, 5-13)

In quel tempo, Gesù disse ai discepoli:
«Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a giovedì 12 ottobre 2023. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dall’undicesimo capitolo del Vangelo di san Luca, versetti 5-13. 

Continuiamo la nostra lettura e meditazione del testo di Bonhoeffer, Sequela.

Quest’oggi iniziamo un capitolo nuovo intitolato “Il Nascondimento della vita cristiana”, sottotitolo: La Giustizia nascosta; è un commento al capitolo sesto di San Matteo. Abbiamo visto precedentemente il capitolo quinto e adesso vediamo il capitolo sesto. Bonhoeffer farà un commento a Matteo 6, 1-4, quindi i primi quattro versetti. 

«Badate alla vostra giustizia, che non la pratichiate davanti agli uomini per essere ammirati da loro; altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. In verità vi dico, questa è già la loro ricompensa. Ma quando fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra, affinché la tua elemosina rimanga segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà pubblicamente la ricompensa». (Mt 6,1-4).

Adesso leggiamo il commento:

Dopo aver parlato nel capitolo 5 della visibilità della comunità dei seguaci di Gesù, fino al culmine del περισσόν (perissòn), per cui il proprium cristiano va inteso come ciò che eccede il mondo, che sopravanza, che costituisce lo straordinario, il capitolo successivo affronta direttamente questo περισσόν (perissòn) e ne svela l’ambiguità.

Quindi oggi scopriamo che nel meraviglioso perissòn di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi c’è un’ambiguità che va svelata. Adesso leggiamo:

In effetti è troppo grande il pericolo di un completo fraintendimento da parte dei discepoli, che potrebbero pensare di doversi mettere all’opera, per instaurare un regno di Dio in terra, spregiando e distruggendo l’ordinamento del mondo, con un’indifferenza fanatica nei confronti di questo eone, nell’intento di realizzare ormai, di rendere visibile, lo straordinario del nuovo mondo, pronti a separarsi dal mondo con estremo radicalismo e senza accettare il minimo compromesso, per imporre in ogni modo il proprium cristiano, la realtà conforme alla sequela, lo straordinario. Troppo ovvio è il rischio di fraintendimenti, come se venisse predicata loro nuovamente una forma e una strutturazione pie della vita sia pure libere, nuove, entusiasmanti. Indubbiamente la pia carne dell’uomo sarebbe pronta a farsi carico di questo straordinario, della povertà, della veracità, della passione, addirittura ne andrebbe in cerca, purché infine si riuscisse a soddisfare la cupidigia del cuore di vedere qualcosa con i propri occhi, e non solo di credere. La disponibilità a spostare leggermente i confini, portando in vicinanza eccessiva la devota forma di vita e l’ubbidienza alla parola, fino a impedirne alla fine totalmente la distinzione, non sarebbe certo mancata. Ciò avverrebbe, si dice, all’unico scopo di realizzare infine lo straordinario.

Quindi nel perissòn c’è un’ambiguità e adesso Bonhoeffer ci condurrà, in queste prossime pagine, a cogliere, a scoprire questa ambiguità e anche a capirla e a sapere come evitarla. 

C’è un pericolo, un grande pericolo, inerente a un fraintendimento: il discepolo di Gesù potrebbe cadere in un fatale e grave fraintendimento, quale? Quello di «doversi mettere all’opera, per instaurare un Regno di Dio in terra, spregiando e distruggendo l’ordinamento del mondo, con un’indifferenza fanatica nei confronti di questo eone, nell’intento di realizzare ormai, di rendere visibile, lo straordinario del nuovo mondo, pronti a separarsi dal mondo con estremo radicalismo e senza accettare il minimo compromesso».

Allora, dobbiamo stare attenti a questa tentazione: “che io devo fare qualcosa”, la “tentazione dell’opera”.

Il cardinale Van Thuân è stato tredici anni in isolamento — una roba terribile — è stato tanti anni in isolamento, tanti anni in prigione, ha vissuto veramente una situazione oltre il possibile. Ha scritto quel bellissimo libretto, “Cinque pani e due pesci”, poi ne ha scritto anche un altro sulla speranza, entrambi molto belli — vi consiglio di leggerli — e lui ci fa vedere come si può e si deve essere cristiani anche dentro un campo di prigionia e di rieducazione, addirittura in isolamento — c’è da impazzire, veramente. Ebbene, lui diceva: “Una delle prime cose che ho imparato è quella di non confondere le opere di Dio con Dio”. Quindi lui diceva: “Io avevo la mia bellissima cattedrale (era un arcivescovo), facevamo tanto apostolato, tante opere belle per il Signore…” A un certo punto gli viene portato via tutto, tutto. Viene accusato, se non ricordo male di cospirazione — ma ovviamente lui era innocente, semplicemente aveva ricevuto una nomina dal papa, mi sembra la nomina di arcivescovo, e per questa nomina viene arrestato — e lui perde tutto, tutto! 

E lui dalla prigione sentiva — perché all’inizio era ancora lì vicino — le campane della cattedrale che suonavano e quindi si ricordava tutte le cose belle che faceva, tutte le opere bellissime di apostolato. Poi lui era giovane, era nel fiore dei suoi anni, quindi capite, uno dice: “Ma io cosa ci faccio qua? Perché il Signore mi tiene qua, in queste quattro mura?”.

Nella cella doveva camminare dalla mattina alla sera per non farsi venire l’artrosi alle ginocchia, e quindi doveva camminare in continuazione e lì non aveva niente, gli avevano tolto tutto. E lui diceva (la tentazione era): “Cosa faccio io qui? Ma perché sono qui? Che sono giovane, che sono pieno di forze, che potrei fare milioni di cose per il Signore e invece mi trovo qui, chiuso dentro qui, a fare che cosa? Quante anime avrei da andare a salvare, da aiutare, da sostenere… e la predicazione, la confessione e i seminaristi…” 

Insomma, ha perso tutto.

Lui scrive appunto: “Una delle prime cose che ho capito è non confondere le opere di Dio con Dio. Le opere di Dio sono di Dio ma non sono Dio. Io ho capito di essere chiamato da Dio a stare con Lui, rinunciando alle opere”.

Guardate che, se noi ci pensiamo bene, siamo più attaccati alle opere di Dio che a Dio. Se per una qualunque ragione fossimo costretti a fermarci e a rinunciare a tutto nostro malgrado, perdere tutto, non so quanti di noi riuscirebbero a reggere. Per non perdere le opere di Dio noi siamo disposti anche ad andare contro coscienza. Perché capite, uno a un certo punto sapete cosa fa? Identifica sé stesso con le opere, è questo il punto. Le opere di Dio alla fine non sono più di Dio, ma sono mie. Erano partite come opere di Dio, ma poi sono diventate le mie opere. Quindi se mi tolgono le opere, tolgono me a me stesso e io crollo. 

È molto facile ed è quasi impercettibile il passaggio dalle opere di Dio alle mie opere e quindi a diventare un tutt’uno con queste opere. Per cui se per ragioni di coscienza io dovessi assumere una determinata posizione, dovessi prendere una determinata scelta che mi fa supporre, o solamente vagamente immaginare che, se io prendo quella scelta perdo totalmente oppure una porzione delle mie opere — che io chiamo di Dio perché hanno a che fare con Dio, ma che ormai sono diventate mie — io non ho più niente. E… non posso vivere senza avere niente. Purtroppo, ho dimenticato che le opere erano di Dio e che avrei dovuto farle per Dio, e che lo scopo era Dio, il fine era Dio, non le opere. Se me lo fossi ricordato, tolte le opere va bene lo stesso, tanto il centro era Dio, lo scopo era Dio, il motivo era Dio; se sono di Dio, va bene, ci penserà Dio alle sue opere: io non le posso più fare, le farà qualcun altro, no? Sono di Dio, non sono mica mie: se non le devo fare io, le farà qualcun altro. 

Il cardinale Van Thuân dice che questo è stato il primo passaggio, uno dei primi, uno dei passaggi più importanti che lui ha dovuto fare: questo distinguo. Beh, certo, capite, è stato un passaggio abbastanza violento, abbastanza repentino e assolutamente non voluto, perché è chiaro che se ti trovi in una prigione con quattro mura chiuse — non aveva neanche la finestra — chiuso lì dentro, in mezzo all’umido, è chiaro che c’è poco da scegliere, non puoi dire: “Scusate devo uscire perché devo andare a predicare ai seminaristi gli esercizi spirituali”, eh no, sei lì, chiuso lì e fine, non ce n’è più, non puoi fare niente.

Ecco il fraintendimento: doversi mettere all’opera. Cosa devo fare? È questa la domanda: che cosa devo fare? Questa è la domanda che abbiamo sempre addosso: che cosa devo fare per essere questo? Che cosa devo fare per essere quell’altro? Che cosa devo fare per convertirmi? Che cosa devo fare per credere? Che cosa devo fare per essere cristiano? Che cosa devo fare? È tutto un fare, fare, fare, fare, fare, fare: è tutta un’opera.

Ho sempre in mente una persona anziana, che un giorno, poco prima di morire — io ero un giovanissimo sacerdote — mi disse: “Padre Giorgio nella mia vita ho fatto tanto per Dio, ho costruito tante cose per Dio, tante cose. Ho proprio costruito cose per Dio. Ho passato una vita a spendermi tutto per fare delle cose, delle opere per Dio”. Poi, guardandomi negli occhi mi disse: “Però oggi mi accorgo che non ho fatto nessuna di queste cose per amore di Dio”. Non ho mai dimenticato questa cosa, questa frase. Si può spendere una vita intera per Dio, senza amarlo veramente.

E poi abbiamo quei casi di ragazzi, giovani o bambini che hanno vissuto la loro vita in un letto di ospedale o l’hanno conclusa in anni di agonie, che non hanno fatto niente di opere, e che ci hanno lasciato una testimonianza di amore per Dio incredibile.

Attenti al fraintendimento che Bonhoeffer ci fa vedere, “le opere”, il fare le opere perché devo instaurare il Regno di Dio sulla terra, spregiando e distruggendo l’ordinamento di questo mondo; vivendo un’indifferenza fanatica verso il mondo perché devo rendere visibile lo straordinario. Il fraintendimento di dovermi separare con un radicalismo estremo da questo mondo perché devo imporre il proprium cristiano, cioè il perissòn.

Bonhoeffer dice che “la nostra pia carne” (noi) — interessante questa espressione — sarebbe anche pronta a farsi carico di questo straordinario: della povertà, della passione, della veracità; andrebbe addirittura in cerca di tutto questo, purché — siamo sempre lì — riuscisse a soddisfare la cupidigia di vedere qualcosa con i propri occhi: ecco l’inganno! Ecco l’inganno delle opere, delle opere di Dio. Il cardinale Van Thuân ha dovuto passare dalla cupidigia di vedere qualcosa con i propri occhi al credere, e infatti scrive così Bonhoeffer:

…purché infine si riuscisse a soddisfare la cupidigia del cuore di vedere qualcosa con i propri occhi, e non solo di credere.

Ecco qui! Qui sta l’inganno terribile del fraintendimento legato al perissòn, capite? Bonhoeffer ha proprio sviscerato il possibile, terribile inganno, la possibile ambiguità che sta nel perissòn. Uno è disposto a tutto, è pronto a rinunciare a tutto, è pronto a diventare un eroe, è pronto a portare i pesi più incredibili, anzi, andarli addirittura a cercare, è pronto a separarsi dal mondo, da tutto ed ogni cosa pur… di vedere qualcosa con i miei occhi e non solo di credere.

Quindi il cardinale Van Thuân ha dovuto lasciare le opere di Dio. Le opere di Dio le vedo con i miei occhi, eccome se le vedo! Le vedo, le tocco, le ascolto, le sento, capite? Immaginatevi l’arcivescovo nella sua cattedrale stracolma di fedeli — bellissimo, solo a pensarci è da commuoversi — tutto l’altare, il presbiterio pieno di fiori, di luci, di candelieri e l’incenso, poi tutto il presbiterio attorno all’arcivescovo e poi tutti i seminaristi con la veste e la cotta e poi tutto il popolo di Dio — i ragazzi, i bambini, gli adolescenti, i giovani, le mamme, le famiglie, i papà. Tutto il popolo di Dio in tutta la sua più grande bellissima varietà, tutto radunato insieme all’Arcivescovo, per rendere il culto a Dio. E cosa fai, tu arcivescovo, cosa fai? Tu vedi con i tuoi occhi questa meraviglia; tu vedi con i tuoi occhi queste persone — che poi eravano in un clima di grande persecuzione — che vivono il perissòn, una comunità di perissòn, e vedi queste persone che tutte vivono con un entusiasmo bellissimo questo perissòn. Vedi questi giovani seminaristi, tanti, numerosi, pieni di amore per il Signore, tutti devoti, belli, tutti dedicati e tu, arcivescovo, sei lì che guardi e dici: “Signore, che bello! Signore, che gloria! Signore, che meraviglia!” E tu guardi, li vedi con i tuoi occhi. E poi c’è la celebrazione, poi c’è lo scambio della pace, bellissimo l’arcivescovo che passa a dare la pace a tutto il collegio dei presbiteri; e poi l’arcivescovo che scende e va dai seminaristi e dà la pace ai seminaristi che servono, i seminaristi che sono presenti, i seminaristi che cantano, i seminaristi che suonano, i seminaristi con l’incenso, con la navicella. Bellissimo! Poi celebrazione, comunioni, canto dell’organo, suoni meravigliosi; poi finisce la celebrazione e cosa si fa? Tutti a salutare l’arcivescovo, e tutti i seminaristi che si salutano tra di loro, e i sacerdoti che dalle parrocchie lontane si ritrovano e si rivedono, si vedono. Allora mi sto immaginando una celebrazione solenne, che può essere Natale o come può essere l’Assunta, come può essere il Primo dell’anno, o pensiamo alla Pasqua (o quale altra celebrazione l’arcivescovo può aver pensato), finita la quale l’arcivescovo magari dice: “Guardate, ho preparato — qui vicino nell’episcopio, in una sala qui vicino adiacente — un meraviglioso banchetto per tutti voi, per festeggiare insieme questa meravigliosa solennità che abbiamo appena celebrato. Quindi tutti che si dirigono — o quantomeno tutti i sacerdoti, tutti i seminaristi che si dirigono lì — poi arriva l’Arcivescovo e tutti insieme, non so, fanno insieme un pomeriggio, una sera. E tutti che parlano con l’arcivescovo, l’arcivescovo li conosce. Poi l’arcivescovo che sta con la gente, con le mamme, le famiglie, i papà e i ragazzi che vanno, che lo salutano, che si raccomandano alle sue preghiere. Riuscite a immaginare tutta questa apoteosi di bellezza? Tutto questo lo stai godendo con i tuoi occhi. E non devi solo credere, perché puoi anche gustare con i tuoi occhi.

Dio interviene e dice: “Bene, tu sai che tutto questo è bene, ma non è il tutto. Perché il tutto è credere, non vedere. Vedere è un di più, ma “il tutto” è credere” — “No, ma Signore, a me non importa il vedere, a me importa solo il credere. Io voglio credere in te!” — “Ah sì? Va bene, allora facciamo così, facciamo una prova: togliamo tutto e stai in questa cella chiuso dentro al buio, per tredici anni!” Tredici anni eh, non tre giorni (o quegli anni che ha fatto, comunque tanti). “Stai lì dentro, ecco, così abbiamo modo bene di capire, avrai modo bene di capire se è solo la fede che ti muove”. Il cardinale Van Thuân dice: “Eh no… lì ho capito”. E qui usiamo le parole di Bonhoeffer, lui scrive: “la cupidigia del cuore”, cioè la brama nel cuore di vedere qualcosa. Io credo, ma voglio anche vedere, voglio vedere le mie opere, voglio vedere quello che ho fatto, insieme a te, Gesù, ci mancherebbe, per la tua grazia, però vediamo, vediamo la costruzione, vediamo la casa che cresce. Questa è l’ambiguità: noi in tutto quello che facciamo dovremmo rifuggire con tutti noi stessi il desiderio di vedere qualcosa con i nostri occhi. Eppure, guardate, questa è la tentazione più terribile che si possa avere, e che tutti abbiamo: vedere qualcosa con i propri occhi, vedere, vedere… “Mamma Gesù, che bello!”.

Ecco, quindi dobbiamo stare molto attenti a questa cosa e rifuggirla con tutti noi stessi. E quindi Bonhoeffer dice di stare attenti a non spostare i confini portando in vicinanza eccessiva la devota forma di vita e l’obbedienza alla parola fino a non poterle più distinguere. Certo, ovviamente con lo scopo di realizzare lo straordinario, però questo è un fraintendimento. La devota forma di vita e l’obbedienza alla parola appunto sono due realtà che hanno il loro campo — diciamo così — per cui non vanno fuse una nell’altra. Perché sennò il rischio qual è? È che la mia devota forma di vita a un certo punto io penso che sia l’obbedienza alla parola. Eh no! L’obbedienza alla parola chiama sempre a un cambiamento, a una conversione, a un oltre la mia forma di vita; quindi, non posso mai sovrapporle o, peggio ancora, confonderle. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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