Scroll Top

I torti e l’onore – Cammino di perfezione, S. Teresa di Gesù pt.36

Gesù tende la mano ad un bambino

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: I torti e l’onore – Cammino di perfezione, S. Teresa di Gesù pt.36
Mercoledì 6 dicembre  2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

Per motivi di intenso traffico non ci è possibile rendere disponibile l’ascolto dei file audio direttamente dal nostro sito. Se hai dubbi su come fare, vai alle istruzioni per l’ascolto delle registrazioni.

VANGELO (Mt 15, 29-37)

In quel tempo, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, lì si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele.
Allora Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: «Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino». E i discepoli gli dissero: «Come possiamo trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?».
Gesù domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette, e pochi pesciolini». Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò e li dava ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà. Portarono via i pezzi avanzati: sette sporte piene.

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a mercoledì 6 dicembre 2023. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal quindicesimo capitolo del Vangelo di san Matteo, versetti 29-37.

Continuiamo la nostra lettura e meditazione del libro di Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione. Siamo giunti al paragrafo settimo.

7 — Ecco un consiglio che vi prego di non dimenticare. Se volete far vendetta del demonio e liberarvi dai suoi assalti, non solamente dovete avanzare in umiltà nel vostro interno — senza di che sarebbe un gran male — ma cercare con i vostri atti esterni di far ridondare in profitto delle sorelle la vostra tentazione, pregando la Priora, appena il maligno si presenta, d’imporvi qualche ufficio umiliante, o farlo da voi stesse meglio che vi sia possibile. Studiate di vincere la vostra volontà praticando cose che vi ripugnino: il Signore ve ne farà conoscere molte, e la tentazione cesserà. Dio ci liberi da chi pretende servirlo e coltivare insieme il proprio onore! Questo è un calcolo sbagliato, perché, come ho detto precedentemente, l’onore tanto più si perde quanto più si ricerca, specialmente quando si tratta di preminenze. — Attenti adesso Non vi è al mondo tossico — potremmo dire veleno — che più distrugga la perfezione, quanto la preoccupazione del proprio onore.

8 — Direte che si tratta di sentimenti naturali, e che non bisogna farne caso. Guardate invece di non andar troppo alla leggera. L’attacco a questi punti di onore cresce come la schiuma: non vi è mai nulla di lieve quando il pericolo è così grave come allora che si va alla ricerca dei torti che si crede di aver ricevuti. E sapete perché? Ecco una ragione che ne abbraccia molte altre. Il demonio comincia a tentarvi in una cosa tanto leggera che forse è da nulla. Ma il maligno fa che una consorella la giudichi assai grave. Ed ella allora crede di fare un atto di carità col venirvi a dire che non capisce come sopportiate tanto affronto, che l’offriate al Signore, che prega Iddio a darvi pazienza, e che di più non farebbe un santo. Il demonio insomma mette sulla sua lingua ragionamenti che vi fanno impressione, e così, supposto pure che vi siate determinate a soffrire in pace, ne uscite con una tentazione di vanagloria per una prova, che, infine, non avete neppur sopportata come avreste dovuto. La nostra natura è così fiacca, che anche quando la prova non è penosa, pensiamo sempre, sopportandola di far qualcosa di grande e non lasciamo di crederlo. A maggior ragione ne rimaniamo persuase se vediamo che per amor nostro lo credono le altre. Ma intanto l’anima perde un’occasione di merito, rimane più debole e lascia aperta la porta al demonio perché rinnovi l’assalto con maggiore violenza. Può avvenire anche questo: voi avete già presa la risoluzione di soffrire con pazienza, ed ecco che una vostra compagna vi viene a dire che siete un’insensata, e che in certi affronti è bene risentirsi… Per amor di Dio, sorelle, nessuna di voi si lasci andare a così indiscreta carità, mostrando compassione per dei torti immaginari! La vostra carità somiglierebbe a quella usata con il santo Giobbe da sua moglie e dai suoi amici.

E finisce così questo capitolo dodicesimo. Allora, cerchiamo di capire bene cosa ci ha detto Santa Teresa. Se vogliamo far vendetta del demonio e liberarci dai suoi assalti — un consiglio che lei ci chiede di non dimenticare — non dobbiamo soltanto avanzare noi nell’umiltà, ma cercare, attraverso i nostri atti esterni, di fare in modo che anche gli altri possano trarre profitto. E quindi, lei dice: datevi o fatevi dare degli uffici umilianti; lei dice:

Studiate di vincere la vostra volontà praticando cose che vi ripugnino. Il Signore ve ne farà conoscere molte e la tentazione cesserà.

Ci sono effettivamente delle cose che a noi proprio non piacciono, cioè delle cose che ci ripugnano, ci danno fastidio, proprio non le sopportiamo, delle cose da fare che per noi sono terribili o, comunque, che proprio non ci piacciono. Bene, lei dice: fatele e questo vi aiuterà. Vi aiuterà non solo a crescere voi nell’umiltà, ma anche a svolgere un servizio per gli altri. Se a me ripugna — non so — mettermi a cucire, piuttosto che mettermi a lavare i pavimenti, piuttosto che mettermi a… qualunque cosa, ecco, allora, senza che nessuno te lo dica, fallo! Oppure, magari, arriva qualcun altro a chiederti di fare una cosa che proprio ti pesa tantissimo: falla! È un servizio, vai contro te stesso e rechi un servizio agli altri. 

Santa Teresa dice: state attenti al proprio onore. Perché questo onore distrugge la perfezione, la preoccupazione del proprio onore è il veleno, è il tossico che maggiormente distrugge la perfezione. E quindi dobbiamo stare molto attenti, perché noi siamo tanto, ma tanto, ma tanto preoccupati di quello che gli altri dicono di noi. Perdiamo tanto tempo e tante energie dietro queste cose. Ed è una tentazione, sapete? È una tentazione, perché ci brucia quando veniamo offesi nell’onore, quando vediamo il nostro onore oltraggiato; quando qualcuno ci butta la sabbia in faccia; quando veniamo ingiustamente attaccati, calunniati o perseguitati, oltraggiati, appunto, insultati: ci viene naturalmente da reagire, e da reagire anche con violenza. Ci viene da fare gli offesi; ci viene da ripetere all’infinito: mi hanno detto, mi hanno fatto, mi hanno fatto, mi hanno detto, mi hanno detto, mi hanno fatto, mi hanno fatto, mi hanno detto. Questa è la natura che reagisce. E vedete come distrugge la perfezione!

Proprio non tanto tempo fa, ho fatto questa riflessione: sapete che, qua e là a me capita di leggere qualche commento, o magari qualcuno mi segnala qualche commento alle meditazioni che tengo, diciamo così, un po’ irrispettoso o, magari, un po’ impreciso, un po’ così, banale, brutto. E che, leggendo, uno dice: “Beh, ma non è proprio così, non è proprio giusta questa osservazione”; perché ci sono osservazioni, che sono delle critiche che sono assolutamente costruttive, vere, che uno quando le legge o le ascolta, dice: “Eh sì, effettivamente a questa cosa non ci avevo pensato”, oppure “Effettivamente questa cosa l’ho sbagliata” oppure “Effettivamente questa cosa l’ho detta male” oppure “Me la son dimenticata, non ho detto tutto quello che dovevo dire” e via di seguito, cioè: uno sbaglia e ci sono delle critiche che sono veramente belle, perché ti fanno proprio capire che (è la comunione dei santi) qualcun altro, ha visto più a lungo di te e quindi ti corregge.

Ci sono delle critiche che invece sono brutte, sono così immotivate, imprecise, parziali; e quindi, la reazione dell’amor proprio — che non è altro che quello — è quella di dire: “Ecco, allora adesso chiariamo”. È sempre così, no? “Chiariamo, puntualizziamo, svergogniamo l’impreparazione dell’altro, perché ne va del mio onore, perché non è giusto scrivere o dire certe cose”. E proprio poco tempo fa, è successo un qualcosa di simile, non è che capita sempre, qualche volta succede, e mi è venuta proprio la tentazione di dire: “Beh, domani, quando farò la meditazione, tratterò anche di questa questione, cioè, cercherò di spiegare questa questione e così di risolvere questa critica sciocca che è stata mossa, perché sbagliata, imprecisa, immotivata, parziale, e quant’altro”. E poi mi sono detto: “Si, ma per fare questo devi rinunciare a predicare il tema che stai affrontando perché, se devo dedicare tempo a criticare una critica, a far fronte a una critica, non posso predicare altro”. E allora mi sono detto: “Ma cosa è più importante? Criticare una critica o predicare, in questo caso, Santa Teresa?”. E allora mi è venuto in mente quello che Santa Teresa dice a proposito dell’onore, e mi son detto: “No. È più importante predicare Santa Teresa. Quella critica… ma lasciala lì! Tanto, cosa cambia? Dedicati alle cose sante, dedicati ad affidare il tuo onore — chiamiamolo così — a Dio, e tu dedicati alla gloria di Dio”.

Ecco, devo dirvi che ho fatto questa piccola esperienza, che, quando arrivano queste critiche, uno sul momento sente un po’ di prurito — diciamo così — di fastidio e gli sembra come se ci fosse solo quello. Se però si fa questo passo che dice Santa Teresa e si rinuncia — è molto bella questa espressione: «Dio ci liberi da chi pretende servirlo e coltivare insieme il proprio onore»; verissimo — se si fa questo passo e si dice: “No, non voglio coltivare il mio onore, perché voglio servire Dio”, guardate, passa un’ora — faccio un’ipotesi, così per dire — passa un tot di tempo e ci si è dimenticato tutto. Tutto quel prurito, diciamo così, quel fastidio che quella critica, che quell’intervento sbagliato, aveva mosso, non c’è più, non te lo ricordi neanche più, dopo tre giorni non ti ricordi neanche più che cos’è successo. Perché è vero, è vero quello che scrive Santa Teresa — ma non perché lo dico io, ma penso che sia esperienza di tutti voi — cioè, servire Dio e coltivare il proprio onore, non è possibile: o fai l’uno o fai l’altro. O coltivi il tuo onore, e allora ti difendi, e allora devi apparire, e allora devi tutta una serie di cose, oppure lo servi, una delle due. Ed è vero che questo onore, e la preoccupazione di questo onore, distrugge la perfezione. 

Dovremmo proprio imparare a lasciar perdere, lasciar correre, non concentrarci su queste cose. E non dobbiamo mai pensare che siano sentimenti naturali. O meglio, sono sentimenti naturali, però non vanno presi alla leggera, perché sono — lei dice — «come la schiuma». E qui lei approfondisce ancora meglio quanto vi ho appena detto; io vi ho anticipato quello che poi lei dice nel paragrafo ottavo, che abbiamo già letto. Lei dice:

non vi è mai nulla di lieve quando il pericolo è così grave come allora che si va alla ricerca dei torti che si crede di aver ricevuti.

 Non di quelli che magari effettivamente sono arrivati, ma di quelli che io credo di aver ricevuto. Veramente! Il pericolo è grave, ed è come la schiuma: cresce. Perché nella nostra testa comincia tutta una serie di ragionamenti sul torto o sui torti che io penso di aver ricevuto; che magari non sono neanche veri, perché alle volte sono veri (sono falsi, ingiusti, ma sono veri, cioè, sono veramente arrivati) alle volte, invece, no, non ci sono, sono semplicemente frutto della mia sensibilità, frutto della mia testa. Io credo di essere stato offeso, credo che l’altro abbia mancato verso il mio onore, ma in realtà non è vero, non ha fatto niente di male. Ci sono proprio come questi percorsi interiori per cui io vado alla ricerca di torti che credo di aver ricevuti. 

Dobbiamo stare attenti anche a chi abbiamo accanto. Perché magari la cosa in sé è leggera, ma la persona che abbiamo accanto la giudica in modo grave. Pensando di fare un atto di carità, cosa fa, questa persona? Dice: “Oooh, ma come fai a sopportare un affronto così grave? Guarda: devi proprio offrirlo al Signore! Prega Dio di darti la pazienza. Un santo non riuscirebbe a fare più di te”. Questo è il demonio! Questo è il demonio, che mette sulla lingua dell’altra persona dei ragionamenti che ci impressionano. Uno dice: “Ma io non ci avevo neanche pensato che fosse così grave, e invece, se mi dice che è così grave, che devo offrirlo al Signore, che non sa come faccio a sopportare tanto affronto, che devo pregare che mi dia la pazienza, che un santo non riuscirebbe a fare più di me, meglio di me, vuol dire che è grave”. 

Quella persona si è resa strumento del demonio, ha offerto la sua lingua al demonio. Quindi, se uno era partito a voler soffrire, ne esce con una tentazione di vanagloria.

E stiamo attenti che, anche quando siamo di fronte a prove non penose, alla fine ci convinciamo di sopportare delle sofferenze terribili. Quindi, quell’occasione di merito che avevamo, diventa di fatto una porta aperta al nemico, perché ci attacchi. Quando prendiamo una risoluzione a soffrire con pazienza, stiamo attenti a chi ci viene a dire che siamo insensati e che è bene risentirsi. 

Inoltre, stiamo attenti ai torti immaginari; stiamo attenti all’indiscreta carità. I torti immaginari sono quelli che non esistono, sono quelli che sono nella mia testa, nella testa degli altri, che mi vengono a dire: “Oh, che torto terribile che hai ricevuto. Eh, ma che affronto che ti ha fatto”, tu dici: “Mah, io non mi sono accorto di niente” — “No, no, guarda, è una roba terribile”. E uno sta lì a pensare, poi alla fine si convince, e dice: “Eh, sì, sì, io non me n’ero accorto, ma ha ragione. È stato proprio un torto terribile”. Questa è una carità maligna, indiscreta. 

I torti devono essere reali, peraltro, non immaginari; stiamo attenti ai torti immaginari, alle offese immaginarie, alle sofferenze immaginarie: che io credo che mi stiano facendo chissà che cosa; invece, non sta facendo niente nessuno; è la mia sensibilità sbagliata che sta leggendo quello che non c’è. 

E stiamo attenti a quelli che si avvicinano e cercano di svegliare in noi una sensibilità che magari è sopita, come la moglie e gli amici di Giobbe. 

Ecco, leggendo queste ultime parole di Santa Teresa, a me vengono in mente delle situazioni familiari dove ci sono delle persone, “amiche” tra virgolette, che in realtà sono come gli amici e la moglie di Giobbe, del marito o della moglie, che vanno a instillare torti immaginari che il coniuge avrebbe fatto. Vanno a instillare dubbi. Vanno a dire: “Tu sei un insensato, un’insensata. Tu non devi sopportare, soffrire con pazienza, questo torto che ti viene fatto”. Che magari è reale e tu avevi deciso di offrirlo al Signore. “No, ti devi risentire!”. E così i matrimoni si disfano, per colpa di queste persone che vivono una carità indiscreta o, peggio, che sono malvagie, che portano divisione. 

Stiamo attenti a coloro che ci vogliono allontanare dalla risoluzione di soffrire con pazienza. Uno dice: “Si, va bene, mi hanno fatto un torto, ma io lo voglio offrire al Signore…” — “No, no” — si stracciano le vesti — “No, sei un insensato, sei un pazzo, ma cosa stai dicendo? Tu devi risentirti, tu devi fargliela pagare!”. 

Oppure, ci mettono nella testa torti che noi neanche abbiamo percepito e che magari non sono neanche reali, non sono mai successi. 

Oppure siamo noi che chiediamo consigli, diciamo: “Ma mi sembra che…” — e l’altro che dice: “Eh, sì, sì, è una cosa gravissima”, quando invece potrebbe dire: “Ma no, ma lascia perdere. Ma lascia stare, ma non star lì, lascia correre, via, via, via, via, andiamo a mangiare un gelato, non ti mettere a pensare a queste stupidaggini; son stupidaggini, lascia perdere”.

La risoluzione di soffrire con pazienza è sempre la migliore, sempre. Ci vuole tanta carità eroica. Poi, certo, alle volte è giusto, anche doveroso, fare giustizia. Però quella giustizia non deve mai andare contro la voglia di soffrire, la voglia di soffrire con pazienza. E, quando qualcuno ci chiede consiglio, impariamo ad aiutare a offrire con pazienza, invece di spingere verso il risentimento, verso torti immaginari, verso una ribellione, verso la guerra: “Fagliela pagare, fagliela pagare!”.

Ci sono purtroppo, alle volte, addirittura anche dei genitori, che vanno a mettere il becco in mezzo ai matrimoni. Quindi, con la propria figlia parlano male del marito, oppure col proprio figlio parlano male della sua moglie, e mettono uno contro l’altro. Oppure un genitore che mette il figlio contro l’altro genitore: non si fanno queste cose, assolutamente. Questa non è carità. “Ma non ti sei accorto cosa ti ha fatto?” — “E cosa mi ha fatto?” — “Eh, guarda che ha fatto questo, questo e questo!”. E quello là, poverino, magari neanche se n’è accorto, ma neanche ci pensava, oppure non stava bene, non stava bene e quindi ha reagito così. E noi subito lì a buttare benzina sul fuoco, invece che dire: “Ma sì, ma capita a tutti di essere stanco, capita a tutti che è un momento “no”, che è una giornata “no”, ma guarda tutte le altre volte, si è sempre comportato bene, ti vuole bene, ti ha sempre aiutato. Ma insomma, santa pazienza, avrà un problema di salute, non starà bene, stanotte avrà dormito male, sarà nervoso, sarà stanco, sarà sofferente, sarà preoccupato. Cioè, lascia perdere, prova a vedere: se da qui a un mese capita ancora altre cinque volte, allora ne riparliamo. Magari, da qui a un mese, non capita più, non capita più neanche da qui a un anno, è stato una tantum”.

Quando una persona torna a casa la sera tardi dal lavoro, non è quello il momento di andare lì a tampinarlo, a fare i discorsi di metafisica; io l’ho sempre detto: di sera dovremmo chiudere la bocca! L’ho sempre detta questa cosa: noi dovremmo imparare, quando arriva la sera, a chiudere la bocca. Perché, veramente: la sera è cattiva consigliera; non è il momento di fare chiarezza. Iniziamo alle volte di sera delle discussioni che durano ore, andiamo a letto tardissimo, sconvolti, abbiamo litigato… Ma a cosa è servito? Siamo stanchi, siamo esseri umani, siamo persone, fatte di carne, di ossa, di sangue. Siamo stanchi, il nostro corpo è stanco, tutta la giornata sulle spalle, la testa è stanca, abbiamo pensato tanto, abbiamo tanti pensieri per la testa, magari delle preoccupazioni, ma la sera è il momento della calma. Santa pazienza, ci sono delle situazioni, guardate, ma le ho viste anch’io, ‘sto povero uomo, ‘sta povera donna, la mamma, il papà, torna a casa la sera tardi — o comunque la sera — si mettono a cena, a mangiare, e arriva quell’altro, che è il marito o la moglie, o alle volte i figli — vabbè, ma i figli si può anche capire, però — arriva il marito o la moglie, e cominciano, mentre sto poveretto sta mangiando — perché sapete, magari o mangia da solo perché è arrivato tardi, o da sola, oppure sono tutti insieme, però c’è una giornata sulle spalle — e questo comincia a fare mille domande, a sottoporgli mille questioni: “E perché questo, e perché quell’altro, e dobbiamo fare questo, dobbiamo fare quell’altro, hai pagato questo, hai pagato quell’altro, e sei andato di qui, sei andato di là, hai fatto di qui…?”. Mamma, ma santa pazienza, ma stai un po’ zitto o stai un po’ zitta, ma lascialo stare, lascialo mangiare in pace!

Vedete anche qui la sapienza dei monaci? Mangiavano in silenzio: io trovo questa cosa di una sapienza incredibile. 

Lasciagli fare la “decompressione”. Entra in casa, quasi non si è ancora cambiato le scarpe: “Senti, devo dirti questo, questo, questo, questo, quest’altro; bisogna fare questo, questo, questo, quest’altro. Hai fatto questo, questo, questo…”. Eh miseria! E quello dice: “Guarda, mi rimetto le scarpe e vado fuori, vado sul marciapiede a meno tre e mi mangio pane e cipolla ghiacciata lì, da solo”. Ma non è possibile! Ma lascialo stare! Dopo litigano; eh, ma certo, ci credo che litigano. Come poteva essere diversamente? Dopo “è cattivo, non mi capisce”… Un po’ di cervello nel far le cose! Quello dovrebbe essere il momento della calma, dello smorzare tutte le tensioni, un momento di relax, un momento della bellezza dello stare insieme, del gusto di tornare in famiglia, dovrebbe essere un luogo di pace, di calma, di serenità. Ma le cose gliele dirai in un altro momento, santa pazienza, ma non in quel momento lì. Soprattutto, non quando si mangia, non è quello il momento. Quando si mangia è il momento anche delicato, dove uno dovrebbe — dovrebbe, perché ormai… — un po’ anche gustare i cibi, mangiare con calma, in pace. Magari a mezzogiorno non è riuscito a mangiare niente, ha mangiato mezzo finocchio crudo, ha mangiato in piedi, ha mangiato al freddo, ha mangiato di corsa… E arriva a casa e dice: “Mah, c’è un po’ di caldino, adesso mi preparo una bella minestra di ceci e poi mi metto un po’ più tranquillo”.

Impariamo ad usare la testa, impariamo ad aver rispetto dell’altra persona. Guardate, diverse volte nella mia vita ho visto queste scene e non ne ho mai capito il senso. Veniva l’ansia a me, pensavo che se fossi stato io quello che doveva mangiare avrei detto: “Guarda, io non mangio più, lascio lì, metti via tutto, mi siedo, fammi tutte le domande che vuoi, fai tutto quello che vuoi, che tanto mi è passata la fame”. Perché è una mancanza di rispetto, con la scusa del dire: “Eh, ma non c’è tempo”, “Eh, ma non c’è altra occasione”, “Eh, ma non c’è un’altra situazione”, “Eh, ma bisogna risolvere le cose”, “Eh, ma bisogna fare qui, bisogna…”. Con queste scuse, roviniamo la vita delle persone e roviniamo i rapporti con le persone. Perché non siamo capaci di stare lì seduti, accanto a qualcuno, mentre sta pranzando e cenando, (se noi l’abbiamo già fatto) e stare lì a fare compagnia, se vogliamo fare compagnia, semplicemente come presenza, oppure servirlo, o servirla. Perché poi, capite, siamo lì a fare millecinquecento domande, a fare millecinquecento questioni: “E perché non hai fatto questo?”, “Perché non hai fatto quell’altro?”, “E perché mi hai risposto così?”, “Perché mi hai…”; e tu intanto sei lì che cerchi di mangiare. Invece di essere lì e servire la persona. Vuoi stare con la persona? Allora la fai sedere e la servi: gli vai a prendere questo, gli vai a prendere quell’altro, gli porti via il piatto, gli scaldi la roba, eccetera.

La carità: dobbiamo stare attenti alla carità, non all’eresia del fare; non all’eresia del mettere tutte le cose in ordine: è un’eresia anche quella! Prima c’è la persona: impariamo ad avere rispetto delle persone. Quando uno sta riposando, sta riposando. Quando uno sta mangiando, sta mangiando. “E allora, quand’è che io parlo con mio marito? E allora, quand’è che io gli ricordo, per la trecentesima volta, che deve aggiustarmi la lampadina?” — “In un altro momento” — “Quale momento? E lì non c’è, e lì è via, e lì non posso…”. Te lo cercherai, ma non diventare tu occasione d’inciampo contro la carità, non diventare tu un peso insopportabile, non creare tu divisione, non creare tu pesantezza, non diventare tu “moglie e amico di Giobbe”. Non fomentare torti immaginari: “Hai visto cosa ha fatto quello del primo piano? Hai visto che ti ha parcheggiato la macchina in modo da…. Ecco, hai visto che… Ecco, guarda qua, bisogna assolutamente che tu… Eh, ma hai visto questa cosa?”

Guardate veramente questa parte di Santa Teresa, questo paragrafo settimo e ottavo, bisogna proprio meditarlo bene. Sia per drenare la nostra testa da tutte queste schiume appiccicose e malefiche, che ci portiamo dentro su di noi, sia verso gli altri; perché venga fuori una vera carità, venga fuori un vero amore per il prossimo, che parte dal rispetto. Quella persona sta mangiando, quella persona sta riposando, quella persona sta parlando al telefono…: fermo!

Quando ero bambino — adesso non c’è più questo rispetto, quasi più — mi ricordo che, quando i miei genitori parlavano con qualcuno, era per me vietatissimo non solo intervenire o fargli una domanda (se avevo bisogno di qualcosa), guai! Ma neanche essere lì presente, perché lui o lei stavano parlando con una persona e io non ero autorizzato ad ascoltare. Oggi, invece, tu stai parlando con qualcuno e questi urlano, e ti chiamano, e pretendono, e dico: “Ma… sono al telefono! Ma… sto parlando!” Non gli interessa, ma neanche se ne accorgono. Tu stai parlando e quell’altro urla dall’altra parte. “Ah, scusa, non avevo visto” — “No, ma scusami, secondo te parlo da solo? Sono mica pazzo, ma non mi senti che sto parlando? Non hai visto che sto parlando? Non hai visto che ho in mano il telefono? E se ho gli auricolari, non hai visto che sto parlando? Allora, o pensi che sono pazzo e parlo da solo, oppure altrimenti, se sto parlando, stai zitto!”. Ci vuole così poco.

Dopo noi pretendiamo di avere il rapporto con Dio: ma se non siamo in grado di avere un rapporto con le persone, come facciamo ad avere un rapporto con Dio che non vediamo? Se non sappiamo aver rispetto delle persone che vediamo, come facciamo ad avere rispetto di Dio che non  vediamo?

Dobbiamo imparare — guardate, credetelo — questo modo di stare con le persone. È fondamentale. Questa carità, questa vera carità: uno sta parlando e tu stai zitto. “Ma io ho bisogno” — “Aspetti! Aspetti, non muore nessuno. Attendi il tuo turno” — “Ma io devo dirti una cosa! — “Non la dici! Perché è mancanza di carità e, facendo così, crei nervosismo”.

Oggi, invece, tu parli con una persona e senti, dall’altra parte, quell’altro che urla, quell’altro che piange, quell’altro che ti impedisce di parlare, ma dico: ma che pretese sono? Ci vuole il rispetto delle persone; della persona — della tua mamma, del tuo papà, di chi per esso — e dell’altra persona, che in quel momento ha bisogno di parlare, ha bisogno di chiedere una cosa; quindi, tu ti devi mettere al tuo posto, in silenzio, e aspettare.

Chiediamo a Santa Teresa questa grazia, perché è veramente importantissima. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

Post Correlati