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A chi pensi? – Pedagogia del dolore innocente, beato don Carlo Gnocchi pt. 7

Don Gnocchi Pedagogia del dolore innocente

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: A chi pensi? – Pedagogia del dolore innocente, beato don Carlo Gnocchi pt. 7
Lunedì 17 giugno 2024

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

Per motivi di intenso traffico non ci è possibile rendere disponibile l’ascolto dei file audio direttamente dal nostro sito. Se hai dubbi su come fare, vai alle istruzioni per l’ascolto delle registrazioni.

VANGELO (Mt 5, 38-42)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio” e “dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello.
E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due.
Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a lunedì 17 giugno 2024. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal quinto capitolo del Vangelo di san Matteo, versetti 38-42.

Continuiamo la nostra lettura e meditazione del libro Pedagogia del dolore innocente del beato don Carlo Gnocchi. 

Mi ricollego a quanto abbiamo letto ieri:

ABBIAMO detto che il dolore dei bimbi non trae da sé il proprio valore di grazia, ma dalla sua intima inserzione su quello di Cristo.

Tale inserzione è automatica — in forza della grazia battesimale — fintanto che nel bambino è incosciente, cioè negli anni favolosi dell’infanzia e della puerizia, durante i quali lo Spirito Santo fa da tramite diretto tra il suo spirito e la Trinità; ma deve diventare sempre più cosciente e riflessa mano a mano che aumenta ed in lui si fa luce la ragione e la responsabilità personale.

E poiché tale «presa di coscienza» rientra nei compiti dell’educazione cristiana, noi possiamo parlare di una pedagogia soprannaturale del dolore.

Pochi sono gli educatori che la conoscono compiutamente e ne applicano i principi, con grave ed irreparabile danno per la vita soprannaturale delle anime e per la ricchezza mistica della Chiesa.

Ebbi di ciò la visione quasi fisica un giorno del dopoguerra, indimenticabile ed orientatore per sempre.

Dopo lo scoppio della bomba, Marco, l’unico superstite dei quattro bambini, che, ignari e spensierati, giocavano su di un campo minato, era stato immediatamente sottoposto all’intervento chirurgico: amputazione delle gambe, estrazione del bulbo oculare e regolarizzazione delle vaste e numerose ferite che ne crivellavano il fragile corpo palpitante.

Lo vidi qualche tempo dopo l’operazione, quando ancora le medicazioni quotidiane lo facevano tanto soffrire e gli domandai: «Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?».

«A nessuno», mi rispose con una punta di meraviglia nella voce.

«Ma tu non credi che ci sia qualcuno al quale potresti offrire il tuo dolore, per amore del quale tu dovresti reprimere i lamenti e inghiottire le lacrime e potrebbe aiutarti a sentir meno il tuo dolore?».

Marco fissò nel vuoto il viso devastato, guardando con l’unico occhio stranito, e poi, scuotendo lentamente la testa, disse: «Non capisco…» e tornò a giocherellare distratto con l’orlo del lenzuolo.

Fu in quel momento che io ebbi la precisa, quasi materiale, sensazione di una immensa irreparabile sciagura: della perdita di un tesoro, più prezioso di un quadro d’autore o di un diamante di inestimabile valore.

Era il grande dolore innocente di un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile ed insignificante, soprannaturalmente perduto per lui e per l’umanità, perché non diretto all’unica mèta nella quale il dolore di un innocente può prendere valore e trovare giustificazione: Cristo crocefisso; e, attraverso tutti quei lettini d’ospedale, in quei bimbi sofferenti, e per essi in tutti i bimbi sofferenti del mondo (quale massa di dolore era stata imposta ai bambini durante la guerra e nei tragici anni seguenti di tormentosa pace!) mi parve vedere allargarsi a dismisura questo dissennato dispendio, senza che gli educatori cristiani vi si opponessero sufficientemente, consci della preziosità di questo puro tesoro e dell’urgente necessità di ricuperarlo avaramente, per farne dono al Cristo ed alla Chiesa.

 Mi sembra che don Carlo descriva qualcosa qualcosa che accade anche oggi — e non solo per il dolore innocente, che è l’oggetto di questo libro e di questa pedagogia — ma anche del dolore delle persone che innocenti non sono più. Quanto soffriamo della nostra vita? Basta sedersi in confessionale e si viene investiti costantemente da una grandissima quantità di dolore. 

C’è il dolore fisico: quante persone fisicamente soffrono tantissimo! Malattie rare, malattie incurabili, malattie che vanno e che vengono, malattie che ti deformano, malattie a cui non riesci a porre rimedio, malattie che ti spingono a passare le tue giornate a correre a destra e a manca, per il lungo, per il largo di tutta l’Italia – magari non solo – malattie che ti costringono a fare code, code, code, code e poi senti un dottore, ma quello non va bene, e poi ne devi sentire un altro, perché due pareri non sono sufficienti, ce ne vuole un terzo; ma il terzo ti dice una cosa che né il primo, né il secondo ti hanno detto, e allora ce ne vuole un quarto, per capire quale delle tre è più accreditata. E poi cominci a pensare: ma quattro saranno sufficienti? Perché poi ti chiama l’amica e ti dice: “Ah no, ma anch’io ho avuto questa malattia (o conosco chi l’ha avuta) guarda, c’è questo specialista bravissimo” – “Dove sta?” – “A mille chilometri di distanza”. Quindi prendi l’appuntamento, cerca un modo per raggiungere questo luminare di questa malattia, sperando che ti possa aiutare… un calvario! Un calvario! Non è solo un calvario la malattia in sé, ma, spesse volte, è un calvario persino, per prima cosa, individuare veramente la malattia: capire che cosa hai, capire cosa c’è che non va, questo è il primo calvario. Poi trovare le cause che, alle volte, è come cercare l’ago in un pagliaio: ognuno dice la sua. Poi trovare a chi affidarsi e, come ultima cosa, la cura – ma questa è l’ultima cosa – sperando che funzioni, perché non è detto.

Da tutto questo io ho tolto il tema enorme degli esami. Uno quanti esami deve fare per capire cosa non va! Spesse volte sono cose che non si capisce che cosa siano, si capisce solo che si sta male. Poi ti danno le medicine che, come tutti i farmaci, fanno bene da una parte e fanno male dall’altra, quindi a problema si aggiunge problema. Insomma, ci sono dei momenti nei quali le persone dicono: “Non ce la faccio più. Veramente non ce la faccio più”. Perché poi gli anni passano, nessuno di noi ringiovanisce, tutti invecchiamo, e quindi un qualcosa che sembrava una malattia venuta così, poi diventa qualcosa di cronico, che è ancora peggio. È dura!

E poi c’è un altro problema, un altro enorme problema: il denaro! Oggi curarsi è un lusso, curarsi bene è un bene per pochi. Già curarsi è un bene per pochi, curarsi bene è un bene per più pochi ancora.

Recentemente ho assistito a una scena… Avevo appena fatto un esame specialistico e stavo aspettando di fare il secondo, arriva una coppia di persone anziane con la figlia che li accompagnava, avevano già pagato il ticket, avevano già fatto una coda di un’ora e mezza, erano saliti in reparto, stavano aspettando, hanno consegnato tutto: il ticket pagato, la richiesta, le cose, e l’infermiera dice: “Ma io non vedo il vostro nome per oggi”. E loro dicono: “Com’è possibile? Noi abbiamo l’appuntamento per oggi, 4 giugno, alle 13:00”. Erano anche in anticipo. A un certo punto la caposala dice: “Ma guardate che voi questo esame ce l’avete per il 4 giugno del 2025!” 

L’esame era tra un anno! Gli avevano dato l’esame – un esame importante, perché riguardava un organo importante – tra un anno, a delle persone anziane! Allora loro, poveretti, veramente sconsolati, dicono: “Eh, ma scusi, ma noi abbiamo pagato! Ma giù al CUP non si sono accorti che noi avevamo l’appuntamento tra un anno? Come hanno fatto a farci pagare se abbiamo appuntamento tra un anno?” – Risponde la caposala: “Hanno sbagliato”. E allora loro dicono: “E adesso?” – “Niente, tornate giù, rifate la coda e vi fate ridare i soldi”. 

La figlia mi guarda e mi dice: “Non ci posso credere!”. Hanno fatto un’ora e mezza di coda per pagare il ticket, hanno aspettato in reparto e adesso devono scendere e fare un’altra ora e mezza di coda per farsi ridare i soldi.

Se poi apriamo il tema delle sofferenze psicologiche, delle sofferenze psichiatriche, delle sofferenze spirituali, si salvi chi può! Io non so dire se è meglio avere un problema fisico – una malattia fisica, proprio legata a un organo – o un problema psicologico, psichiatrico o di natura spirituale. Non lo so, perché veramente sono dolori su dolori su dolori in entrambi i casi.

Se mi spacco una gamba, se soffro di mal di cuore, se ho un problema allo stomaco, è brutto, è terribile, è indescrivibile, però – passatemi il termine – almeno è “visibile”. Tutti vedono che ho una gamba rotta e vado in giro con le stampelle, la gente si alza per farmi sedere sul metrò, sul treno, mi fa spazio, mi aiuta, mi dà una mano, magari non tutti ma tu la vedi, una persona invalida, quindi è visibile. 

Una malattia psichiatrica non è così visibile, non sempre. E spesse volte è accompagnata da tanta umiliazione, da tanta vergogna, perché la gente non dice: “Quella persona ha problemi psichiatrici”, la gente dice: “Quello è pazzo!”. Se c’è un modo per uccidere interiormente una persona, è dirgl: “Quello è matto!”. Spegne proprio la luce negli occhi. E lì è ancora più difficile individuare il problema, trovare le cause, cercare gli specialisti, cercare quello adatto: questo non va bene, quello sbaglia la cura e ne devi cercare un altro, poi chilometri su chilometri su chilometri su chilometri.

Ah, ovviamente, mi sono dimenticato di dire prima che i signori che ho incontrato in ospedale avevano l’appuntamento per questo esame tra un anno, però, se avessero prenotato privatamente, a pagamento, lo avrebbero avuto il giorno dopo. Peraltro, guardate, io avevo fatto il medesimo esame prima di loro. In tutta questa querelle – e dammi il foglio, cerca la data, perché, per come, ma no, ma su, ma giù – la macchina che aveva fatto l’esame a me (e l’esame, sarà durato dieci minuti) è rimasta ferma. Nel tempo che hanno discusso sulla prenotazione che non si trovava avrebbero potuto dire: “Guardi, entri, che lo facciamo, non c’è nessuno!”. Invece di star qui a far tutti questa pazzia (scenda, si faccia stornare la fattura e ritorni tra un anno …), la macchina è lì, è ferma, non c’è coda, non c’è nessuno, avrebbero potuto dire: “Vada dentro, le faccio l’esame e poi va a casa”. No! Però, se paghi, lo fai il giorno dopo.

Non dico questo per far polemica, è solo una constatazione.

Poi, se entriamo nel campo di coloro che hanno problemi spirituali… per trovare il sacerdote incaricato di certi problemi spirituali, ci sono liste di attesa di almeno sei mesi. Non sto scherzando: sei mesi. Ma lì neanche se paghi, non c’è la ASL, il pagare, il privato, no, è che proprio il sacerdote ha una giornata di ventiquattro ore, deve dormire — mangiare magari lo saltano anche, perché ho visto anche fare questo a certi sacerdoti — però, a un certo punto, il corpo è quello, non ce la fai più e dici: “Guardate, sto morendo anch’io”, e quindi c’è un limite. La richiesta è talmente tanta, che la lista di attesa è di sei mesi. Io sto male adesso e verrò ricevuto a dicembre. E adesso a dicembre, io cosa faccio? Capite, i giorni che passano da adesso a dicembre? Da adesso a dicembre se va bene, se non ci sono poi casi più urgenti, se, se, se… Allora bisogna cercare l’amico dell’amica, qualcuno che magari conosce, qualcuno che magari conosce quel sacerdote, che magari riesce a chiamarlo, che magari per amicizia, che magari può fare uno strappo, che magari… capite? Perché poi, quando tu vedi una persona in casa tua che sta male e tu non puoi fare niente, perché non ci sono medicine da dare, non ci sono cure da fare, c’è altro che serve, cosa fai?

Voi direte: “Padre Giorgio, perché si è dedicato tutti questi minuti ad elencare queste cose?” – Perché ho cercato di elencare tutte le casistiche possibili di tutto questo dolore; sicuramente ho dimenticato qualcosa, però almeno le più grosse le ho citate. A tutte queste è rivolta la domanda di don Carlo: “A chi pensi in questi momenti di forte dolore?”. Ci sono situazioni nelle quali il dolore è talmente forte, che ti toglie il fiato, non riesci neanche a respirare, inizi ad ansimare; è un dolore talmente profondo che uno dice: “Mi uccide il cuore!”, non è sufficiente urlare. 

Lui qua parla di quando ti strappano le bende. Oggi lo strappo della benda non avviene più in modo così cruento,  ma dopo che il dottore ti ha accarezzato, ti ha coccolato (se trovi quello giusto) e ti ha messo tutta la soluzione fisiologica possibile e immaginabile per ammorbidire, ha aspettato, ha fatto, però, a un certo punto, arriva il momento che la prima benda va tolta. E poi c’è la ferita da pulire. O pensiamo ad esempio alle piaghe da decubito!

Tutti i casi nei quali ad un certo punto il paziente dice: “Benissimo, datemi un asciugamano, me lo metto tra i denti, perché qui altrimenti è finita”.

… a chi pensi?

Noi cristiani dobbiamo dare un senso a tutto questo, oserei dire uno scopo, perché sennò il dolore ti fa impazzire, non riesci più a pensare ad altro, e non riesci a vedere un futuro. È come uno che è legato mani e piedi con le catene; non ne vieni più a capo, non ne esci più, ti sembra di essere all’inferno.

Pensate a questo bambino, Marco, che lui cita, senza gambe, senza un occhio e tutte le bende e i dolori di quello che ha subito; da lì questo bambino sarà vissuto quanto? Cinquanta, sessanta, settant’anni anni? Che vita ha fatto, senza gambe e senza un occhio? Che vita affettiva avrà avuto? Magari avendo perso anche i genitori. Capite l’abisso di dolore?

Io vi dico: no, io non lo capisco. Io posso capire solo ciò che ho provato, e basta. Io non dico mai a un ammalato, mai dico ad un sofferente (proprio una scelta mia, fatta in piena consapevolezza) non dico mai: “Ti capisco”. Se non l’ho provato, non dico: “Ti capisco”, e anche quando l’ho provato, ci penso due volte a dire: “Ti capisco”, perché io ho provato il dolore, ma non sono nei tuoi panni, non so tu come arrivi a provare quel dolore, quanto sei preparato a quel dolore. Uno può essere più forte e uno può essere più sensibile. E poi, io potrei avere avuto accanto tante persone che mi hanno amato, che mi hanno compatito, che mi hanno aiutato, che mi hanno sostenuto; quella persona lì vive il mio stesso dolore ma magari è solo come un cane, non ha nessuno. Quindi io ho sofferto meno di lei, seppur abbiamo avuto lo stesso problema; perché, un conto è soffrire da soli, e un conto è soffrire con accanto qualcuno, son due cose diverse!

… a chi pensi?

Ecco, secondo me ci deve essere qualcuno al quale offrire il proprio dolore, qualcuno che potrebbe aiutarti a sentire meno male, o, comunque, a dare un senso a tutto questo. Noi dobbiamo essere i primi a non perdere questo tesoro, perché tutta questa sofferenza non è, come dice il mondo, “inutile”, questa sofferenza è un tesoro; è un tesoro – dice don Carlo:

più prezioso di un quadro d’autore o di un diamante di inestimabile valore

Ecco, arrivare a pensare così: che grazia! E “non deve cadere nel vuoto, inutile e insignificante. Non deve perdere il valore suo soprannaturale per lui, per l’umanità, perché deve essere indirizzato a Cristo crocifisso”; questo è il punto. Quindi impariamo, quando abbiamo questi dolori terribili, a ripetere: “Gesù, Maria vi amo, ve lo offro. Gesù, Maria, vi amo, ve lo offro. Signore, ti offro questo dolore per la conversione dei peccatori, per riparare tutte le offese”. Ricordate, a Fatima, cosa disse la Madonna? E qui lui dice: “«senza che gli educatori cristiani vi si opponessero sufficientemente» per recuperare questo tesoro e farne dono a Cristo”. Ecco, oggi abbiamo bisogno anche di questo: di educatori cristiani, di sacerdoti, di suore, di frati, di genitori, di catechisti, che sappiano opporsi alla dispersione del dolore, alla consegna all’insignificanza della sofferenza. Devono opporsi, dobbiamo opporci, dobbiamo dire: no, un momento. È vero, bisogna combattere il dolore, bisogna fare di tutto per evitare la croce, per l’amor del cielo; non dobbiamo stare lì come dei persi a dire: “Sì, va bene, soffro e sto male, non mi curo”. Ti devi curare, ma poi arrivi ad un certo punto in cui alle volte la cura non c’è, non è sufficiente, non la puoi trovare subito. Cosa ne facciamo di questo dolore? Lo offriamo; questo tesoro deve essere raccolto e la sua giustificazione, il suo valore, lo prende in Gesù crocifisso. Ecco, allora diventiamo veramente operatori, educatori cristiani nel vero senso della parola. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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