Meditazione
Pubblichiamo l’audio della meditazione: La paternità – Pedagogia del dolore innocente, beato don Carlo Gnocchi pt. 1
Martedì 11 giugno 2024
Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD
Ascolta la registrazione:
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VANGELO (Mt 10, 7-13)
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni.
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti.
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi».
Testo della meditazione
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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!
Eccoci giunti a martedì 11 giugno 2024. Oggi festeggiamo san Barnaba, apostolo.
Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal decimo capitolo del Vangelo di san Matteo, versetti 7-13.
Oggi iniziamo un nuovo ciclo di meditazioni, tra poco vi dirò il titolo.
Mi sembra che questo Vangelo sia veramente un ottimo apripista per questo nuovo ciclo di meditazioni, che ci vedrà impegnati per un po’ di tempo. Un ottimo apripista perché il beato di cui parleremo, e del quale leggeremo uno scritto molto importante, fece della sua vita, veramente, una predicazione che il Regno dei cieli è vicino. Si dedicò, in modo particolare, a curare gli infermi; diede gratuitamente; visse nella povertà e, allo stesso tempo, nella Provvidenza. C’è un legame sempre molto bello, intenso, tra povertà e Provvidenza; nel senso che tanto più si crede e si vive nella povertà, tanto più si sperimenta la Provvidenza. Povertà che vuol dire “non attaccamento” alle cose, al denaro, ma anche alle cose in generale. La povertà non è semplicemente andare in giro con gli abiti laceri, piuttosto che prendere il triciclo al posto di prendere l’aereo, non è solamente questo. La povertà è proprio l’uso (e non l’abuso) corretto delle cose, l’uso rispettoso del progetto di Dio e la cura delle cose. Capite che, ad esempio, c’è poca povertà nel trascurare la mia salute oggi e domani dover spendere centinaia e centinaia di euro per dovermi curare. Quando si vive bene la povertà, poi la Provvidenza interviene.
E, quindi, chi vive di povertà, non si dà ansia di:
oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone…
perché la Provvidenza provvede! La provvidenza metterà sempre al fianco del povero qualcuno che si occupi di lui o di lei. La vita del beato che tra poco inizieremo, ne è una testimonianza.
… perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento
Cioè, chi lavora per il Regno dei cieli, chi lavora mettendo Dio al primo posto, ha diritto al suo nutrimento. Ecco, questo è importante. Ed è giusto farci carico di persone che lavorano per il Regno di Dio.
Noi sprechiamo tanti soldi, veramente tanti, buttiamo via tanti soldi in cose veramente stupide. Tanti di noi usano male il loro denaro, usano male le loro cose, oppure le usano per situazioni sbagliate, per motivi sbagliati. E, invece, le dovremmo usare per chi lavora per il Regno di Dio. Pensate a san Giovanni Bosco, a san Giovanni Maria Vianney, quante cose meravigliose hanno potuto fare nella loro vita, grazie alla Provvidenza, che si è fatta presente in loro, attraverso persone molto concrete, che li hanno aiutati in mille modi. Perché, sapete, non c’è solamente il dare dei soldi, come vi ho detto prima, ma, ad esempio: quella signora anziana che è povera, non ha granché, però ha due galline, che le fanno dieci uova; e allora dà cinque uova, quattro uova, a colui, o a colei, che si dedica “a” (pensiamo a madre Teresa di Calcutta); questo è un modo di esercitare la Provvidenza. In questa maniera, ci renderemo anche conto di quanto siamo spreconi e di quanto usiamo male ciò che abbiamo, perché lo usiamo per i nostri egoismi; perché, quando si tratta di noi, non c’è un limite; quando si tratta degli altri (degli altri in questo senso del Vangelo: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino»), chissà perché, cominciamo a fare tutti i conti fino al centesimo.
Poi è bello anche questo “rimanere”:
In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti…
non dice: in qualunque città o villaggio entrate, andate, cercatevi una casa e chiedete di essere ospitati; no! Deve essere una persona degna, perché solo una persona degna può ospitare l’apostolo, il predicatore, non chiunque. Deve essere un uomo di Dio, una famiglia di Dio, deve essere una donna di Dio, non chiunque; e Gesù dice: allora lì rimani finché non sei partito. Non dormi una notte qui, una notte lì, no, resti lì, nel luogo che la Provvidenza ti ha indicato, ti ha trovato. E poi:
Se quella casa ne è degna (vedete come torna il tema dell’essere degno) la vostra pace scenda su di essa…
Bene, e allora, come tutti avete visto dal post nuovo — ieri non vi ho annunciato nulla, quindi è stata un po’ una sorpresa — oggi inizieremo questo nuovo libro, che si intitola: “Pedagogia del dolore innocente”, del beato don Carlo Gnocchi, che vedete nella foto del post, dove è ripreso in un momento ben preciso, mentre abbraccia un fanciullo.
Lascio a voi la lettura della sua vita, vi dico solo che si dedicò in modo particolare, tra le altre cose, a questi fanciulli mutilati dalla guerra, e fondò una vasta rete nazionale per il ricovero e il recupero di questi fanciulli invalidi.
La “Pedagogia del dolore innocente” appare, in prima edizione, a poche ore dalla morte dell’autore e costituisce il testamento spirituale di questo apostolo dei “mutilatini”. Don Gnocchi nasce a San Colombano e muore a Milano nel febbraio del 1956.
Leggendo questo testo, vedrete che capiremo sempre di più il perché può esserci utile, anche se nessuno di noi, probabilmente, è un ragazzo o un bambino mutilato di guerra — però vedrete che ci aiuterà ad approfondire una tematica molto importante.
Quindi cominciamo:
Molti e profondi sono i problemi che il dolore pone alla mente umana, anche se illuminata, e guidata dalla Fede; ma uno certamente tra i più delicati e conturbanti è costituito dalla apparente capricciosità nella sua distribuzione tra gli uomini. Se il dolore infatti, come è facile e quasi naturale ammettere, è pena ed espiazione della colpa, dovrebbe pesare maggiormente su quelli, tra gli uomini, che più gravemente hanno peccato. Invece avviene di constatare molto spesso il contrario e, fino dai tempi del salmista — che più volte se ne lamenta con accenti di drammatica potenza — i peccatori trionfano e i giusti soffrono, spesso a cagione della loro stessa giustizia.
Tipico e più conturbate di tutti è il caso dei bambini che soffrono.
Quante volte infatti, dinanzi alla pena di un bimbo morente o sofferente, avviene di raccogliere espressioni come queste: «Mio Dio, perché fai soffrire questo innocente; perché non colpisci me che sono peccatore?» e quante altre volte io ho colto sulle labbra dei bimbi, al momento di un’operazione dolorosa, l’espressione ricorrente ed uguale in tutti, perché dettata dalla coscienza: «Perché mi fate soffrire? Io non ho fatto nulla di male!»
Vale la pena di studiare questo caso-limite, perché io credo che, quando si arriva a comprendere il significato del dolore dei bimbi, si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e chi riesce a sublimare la sofferenza degli innocenti è in grado di consolare la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore.
Gli agenti infatti che operano nel dolore di un bimbo sono fondamentalmente gli stessi che provocano la sofferenza di un adulto e le forze capaci di confortarla ed elevarla sono uguali in tutti e due i casi.
Don Gnocchi ci dice che il dolore, la sofferenza, pone molti e profondi problemi alla nostra mente, anche se siamo persone credenti. Uno dei problemi più grossi è «l’apparente capricciosità nella sua distribuzione tra gli uomini», nel senso che, non di rado, si vede che i peccatori trionfano, stanno bene, stanno sempre bene, e i giusti soffrono, spesso a motivo della loro giustizia. I giusti soffrono non perché sono giusti, ma a causa della giustizia che loro seguono. Proprio a motivo del loro essere giusti, soffrono e soffrono tanto. Mentre gli empi, a motivo della loro empietà e a motivo della loro ingiustizia, apparentemente stanno benissimo. Tu li vedi dall’esterno e vedi persone che trionfano. Anche nei salmi è scritta questa constatazione dolorosissima. Dolorosissima perché verrebbe da dire: “No, scusa un attimo, dovrebbe essere il contrario! Siccome il giusto segue la giustizia, a motivo della sua giustizia dovrebbe trionfare; l’empio, che segue il male, che segue l’empietà, dovrebbe soffrire”; e invece no.
E questo sconvolge, questo turba. In particolar modo, ciò che turba tantissimo è la sofferenza dei bambini, che sono gli innocenti.
Ecco qui il titolo del testo: quale pedagogia, quale insegnamento possiamo trarre dal dolore innocente? A noi verrebbe da dire: “Ma Signore Gesù, colpisci me, fai soffrire me, che sono un peccatore e che merito comunque — tanto o poco — di soffrire, per il male che ho fatto nella mia vita; ma questo bambino che male ha fatto?”
L’immagine che è stata scelta per il post, che ci accompagnerà per un po’ di tempo, tra le tante che ho visto, mi è sembrata la più bella, sia per il sorriso di don Gnocchi, sia per questi occhioni, questo sguardo veramente innocente di questo bambino. E allora, don Gnocchi dice che vale la pena di studiare questo caso limite — perché siamo veramente in un caso limite: il dolore innocente — perché comprendere il significato del dolore dei bimbi, ti dà la chiave per poter comprendere ogni dolore umano e ti dà la possibilità di essere capace di consolare: «la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore». Perché, di fatto, ogni uomo adulto è stato un bambino e ogni bambino — se tutto va secondo la normalità, diciamo così — diventerà un adulto. Purtroppo, poi, c’è anche il caso di bambini che muoiono, però, nella normalità, grazie al cielo, la maggior parte vive, sennò non ci sarebbero adulti.
Quindi, quando noi incontriamo un bambino, e soprattutto un bambino sofferente, possiamo già dire: “Ecco, questo bambino, un giorno, sarà un uomo adulto, e quindi è importante che io sappia essergli accanto, sappia aiutarlo nelle sue sofferenze e nel suo dolore”, e, così facendo, veramente imparo la chiave per comprendere che, quando incontrerò un adulto, non dovrò mai dimenticare che è stato un bambino.
Ogni persona adulta porta in sé il suo essere stato fanciullo; dentro di noi, c’è sempre quel bambino che vive. Poi, ovviamente, diventando adulti, ci irrobustiamo, impariamo a difenderci, impariamo a fare ragionamenti complessi e tutto quello che viene con l’età adulta; ma quando poi siamo “al sicuro”, quando poi siamo un po’ tranquilli e possiamo essere noi stessi, risentiamo l’eco di quella nostra infanzia. I ricordi più profondi, più significativi — alle volte, purtroppo, anche più dolorosi ma, tante altre volte, i più belli — appartengono alla nostra infanzia. Ed è importante avere a cuore quest’età dei fanciulli, perché è l’età nella quale si mettono tutti quei semini necessari per far crescere un fanciullo nel modo corretto e farlo diventare un uomo o una donna ben formato, equilibrato, sano, capace di relazione, di rispetto, e via di seguito.
Il compito del consolare, il compito della consolazione (non dimentichiamo che lo Spirito Santo viene definito da Gesù “il Consolatore”) è importante. È importante consolare l’altro e, quando lo facciamo noi, stiamo mediando in modo meraviglioso l’azione dello Spirito Santo. Il Consolatore ci dona la grazia della consolazione per poter essere anche noi dei consolatori. È difficile essere dei consolatori!
La foto che ho scelto, l’ho scelta anche in funzione di questo, perché si vede, proprio come don Gnocchi guarda, tiene, questo fanciullo: proprio come un papà! Chiaro che non era suo figlio, fisicamente, ma spiritualmente gli era proprio figlio, lo tiene proprio come un figlio.
Don Gnocchi aveva una grazia incredibile, di saper veramente consolare, cioè: togliere il fanciullo dalla disperazione, togliere il fanciullo dall’essere abbandonato, dare al fanciullo l’appartenenza di un padre. Dio solo sa quanto è importante, infatti abbiamo “Dio padre”. Solo Dio sa quanto è fondamentale, per un essere umano, avere un padre; sapere di essere figlio di un padre.
Perché, capite, un padre è un po’ come l’aria: tu non ci pensi, però, senza, muori. Non stai tutto il giorno a pensare: “adesso sto respirando l’aria”. Tu fai tutte le tue cose grazie all’aria: mangi, dormi, lavori, corri, riposi, parli però non ti fermi ogni cinque secondi a dire: “Oh, grazie all’aria; oh, che bello, c’è l’aria” — “Come stai oggi?” — “Ah, oggi sto benissimo” — “Come mai?” — “Perché sto riflettendo sull’aria. Pensa che grazia, l’aria, attraverso la quale io sto parlando, attraverso la quale respiro, attraverso la quale il mio corpo è vivo…”. Noi non pensiamo mai all’aria! Ci sono giornate intere, forse mesi e anni, che noi passiamo senza pensare all’aria che respiriamo.
Questo è il padre: è come l’aria; tu non ci stai a pensare dalla mattina alla sera ma, senza, muori. È fondamentale come l’aria che respiriamo, perché il padre è proprio colui che custodisce, garantisce la tua identità. Tu sai che “vieni da”. Infatti, nei tempi antichi, si diceva: “Tizio, figlio di Caio”; non esisteva il cognome, si diceva “Tizio, figlio di…”. Nominare il padre diceva la tua identità; a differenza di coloro che venivano esposti e che erano “NN”, figli di nessuno.
Provate a vedere la necessità che ha di andare alla ricerca del proprio padre chi, per varie ragioni, non l’ha mai conosciuto. Anche se magari sono passati trent’anni e non l’ha mai visto, anche se sa che è un carcerato, anche se sa che è stato un criminale, fa niente; vedere chi è mio padre, poter incontrare mio padre, poterlo guardare in faccia…
Don Gnocchi ha assunto questo compito consolatorio proprio perché si è messo esattamente nella sua funzione sacerdotale di essere padre, e non ha avuto cura solo dell’anima di questi fanciulli, ma anche della loro fisicità, del loro corpo. È una figura veramente meravigliosa. Ecco, io mi fermo qui e voi capite già che queste poche righe hanno aperto veramente dei mondi bellissimi, io sono sicuro che già queste prime battute, in tanti di voi, hanno avuto un suono forte.
Anche per questo io non mi stancherò di continuare — magari non so se ogni giorno, ma forse sì — di richiamarvi agli esercizi spirituali di luglio; perché, a questo proposito, abbiamo parlato dell’importanza dell’adorazione eucaristica, l’importanza delle conferenze, l’importanza della confessione, l’importanza del silenzio, tutte cose importantissime; ecco, oggi abbiamo scoperto una nuova importanza: l’importanza di incontrare — forse, magari, a Dio piacendo — un padre con il quale parlare, che si prende a cuore te.
Noi lo capiamo quando incontriamo un sacerdote, che ci incontra nel profondo, che ci comprende, che ci guarda come se fossimo gli unici, che si prende proprio a cuore la nostra situazione, la nostra vita e la nostra anima, noi lo capiamo, lo sentiamo. Sentiamo che veniamo raccolti come un fiore. Quanti fiori ci sono… ma quanti vengono raccolti? Quanti?
Quando ero piccolo — piccola confidenza — mi ricordo che, una volta, con la mia nonna, stavamo passeggiando al mare e, lungo una strada, c’era un fiore reciso, che probabilmente doveva essere caduto da un mazzo non ricordo più di preciso che fiore fosse, se era una rosa, ma era un bel fiorellino. Ci siamo passati accanto e io sono rimasto colpito da questo fiore bello, buttato lì per terra, ma non ho detto niente. Mia nonna mi ha lasciato andare avanti un po’, poi si è fermata e mi ha detto: “Giorgio, cosa facciamo, la lasciamo lì, quella rosa?” E io ho detto: “Eh, ma nonna, è caduta per terra! Ma poi non sappiamo di chi è. Non è bella come le rose che troviamo dal fiorista, è tutta sporca, è caduta per terra, magari qualcuno l’ha calpestata, magari ci è passato sopra un cane, una bestia, non lo so. Ma dove la vuoi mettere? Cosa ne facciamo?” Allora siamo tornati indietro e siamo stati lì a guardare questa rosa — chissà chi passava cosa avrà pensato — e poi lei mi ha guardato e mi ha detto: “Giorgio è vero che è una rosa caduta per terra, un po’ sporca, un po’ buttata lì, però è sempre una rosa; non lasciamola lì, raccogliamola e portiamola a casa, la puliremo e la metteremo in un vaso e lasciamole fare il suo decorso, e vedrai che fiorirà e diventerà bella”. E io mi ricordo che ho raccolto questa rosa, questo fiore, e abbiamo fatto esattamente come diceva la mia nonna. Ma, guardate, se sapeste quanto mi sono affezionato a quel fiore, non avete un’idea! Tutto è partito con: “che schifo questo fiore, buttato per terra lì, buttato lì, in mezzo alla polvere, alla sporcizia della strada”, e, quando siamo andati a casa, e l’abbiamo messo nel vaso, è diventato il fiore della casa. Quindi, ogni giorno: tagliargli un pezzettino di gambo, poi cambiargli l’acqua dieci volte al giorno, perché vivesse di più, poi mettergli dentro l’aspirina — una volta si usava l’aspirina, chissà poi se funziona veramente. Insomma, questa rosellina è vissuta per un bel po’, e mi ricordo che proprio abbiamo curato e gustato questa rosellina, questo fiore.
Ecco, io credo che il padre sia colui che ci raccoglie da dove siamo. Noi capiamo di avere di aver incontrato un padre, come questi mutilatini hanno incontrato don Gnocchi, quando veniamo raccolti così. Quella rosa per terra, in mezzo alla strada — neanche in mezzo, attaccata al marciapiede, buttata lì nel nell’angolo di marciapiede, sporca — è pur sempre una rosa, e resterà sempre una rosa; anche se sporca, anche se è stata violata, anche se è stata maltrattata, anche se è stata calpestata, è una rosa.
Ecco, vedere nel cuore, nel volto di questi ragazzi, di queste ragazze che don Carlo Gnocchi ha curato, vedere nel loro volto che, nonostante il flagello della guerra, nonostante il flagello di tutto quello che questi bambini, questi ragazzi, possono aver vissuto e subito, vedere che quella rosa è pur sempre una rosa, quel fanciullo è pur sempre un fanciullo, quel ragazzo è pur sempre un ragazzo, è pur sempre un figlio di Dio, questo fa di un uomo un padre; e allora lo raccoglie, e allora lo porta a casa, dà una casa a quel fiorellino.
Ogni uomo è un fiorellino, anche l’uomo più abbrutito, anche l’uomo più calpestato, anche l’uomo più violato, anche l’uomo più maltrattato, anche l’uomo incattivito dal dolore è un fiorellino, resterà sempre un fiorellino, quindi: raccoglierlo e averne cura.
Magari ti punge, perché, sapete, ha le sue spine, quindi ci si punge anche, però se si va oltre le spine… si dice “Ahi”, vabbè, però non lo si lascia cadere perché ti punge, lo continui a tenere in mano, perché ormai è diventata la tua rosellina, il tuo fiorellino. E quindi lo porti a casa, lo lavi, lo pulisci, lo sistemi, lo rimetti in ordine, gli tagli un pezzo di gambetto, gli tiri via le foglie che sono brutte, gli dai l’acqua fresca, gli fai vedere che c’è una freschezza, che c’è un’acqua fresca, gli dai un po’ di medicina; gli ridai vita, gli ridai la sua dignità, gli ridai la sua identità di essere figlio di un padre.
Ecco, questo è un po’ il mio augurio, io non lo so se, negli esercizi spirituali di luglio, accadrà questo per qualcuno di voi, io ve lo auguro, e credo che questo sia la cosa più bella che possa accadere. È vero che noi sacerdoti, alle volte — e lo dico con grande rammarico, perché è sbagliato e io mi metto per primo in questo, sono proprio il primo della lista — purtroppo siamo alle volte talmente tanto presi, tanto di corsa, tanto tirati di qua e di là, tante cose sempre per la testa, che ci vorrebbe una nonna Anna accanto, che dicesse: “Fermati, ma non hai visto che c’è lì una rosellina per terra?” — “No, ma io devo correre, devo andare, devo fare, non ho tempo, aspetta dopo ritorno!” — “No, adesso ti fermi, lasci tutto, e torni indietro”. Del resto, questo fiorellino per terra, che mi è capitato da bambino, chissà, forse da parte di Gesù, voleva essere una sorta di simbologia della pecorella perduta! “Da grande, da sacerdote, dovrai imparare ad andare a cercare la pecora sperduta, l’agnellino, là, in mezzo ai rovi”.
Ed è vero che alle volte, purtroppo, noi, io per primo, diamo più l’immagine di quello che corre. Mi ricordo quante volte mi è stato detto: “Padre a vedere lei, mi sembra di vedere una trottola: e corri di qui, corri di là…” Non è una bella cosa, purtroppo. Non siamo stati ordinati sacerdoti per diventare delle trottole, non siamo stati ordinati sacerdoti per diventare scoiattoli, che saltano da un albero all’altro. Credo che il nostro compito sia un altro; don Gnocchi lo ha perfettamente intuito e applicato alla sua vita.
Perdonatemi se son stato così lungo — è tanto tempo, credo, che non facevo una meditazione così lunga — però mi sembrava doveroso, come primo momento, come primo incontro con questa figura, dire qualche parola in più. Sapete, stiamo trattando veramente il cuore di tutto: il dolore innocente.
Del resto, quante volte c’è un dolore innocente anche nella vita delle persone adulte! Quante volte, vedendo le persone adulte soffrire in quel modo, ti si rompe il cuore, perché dici: “Ma perché tutto questo dolore, poveretto!” Ti verrebbe voglia di prenderlo, abbracciarlo — o abbracciarla — stringerlo forte e dire, come fa don Gnocchi: “Sono qui — si ferma il mondo — sono qui per te, sono qui con te, e ci sarò sempre”. Questo, dovrebbe essere! Pregate, perché — non penso agli altri, penso a me, perché sicuramente gli altri saranno più bravi di me in questo — impari, sempre di più, ad incarnare esattamente quello che vi ho appena detto.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.