Meditazione
Pubblichiamo l’audio della meditazione: Essere nel mondo pt.4 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.12
Domenica 18 agosto 2024
Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD
Ascolta la registrazione:
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VANGELO (Gv 6, 51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Testo della meditazione
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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!
Eccoci giunti a domenica 18 agosto 2024. Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal sesto capitolo del Vangelo di san Giovanni, versetti 51-58.
Continuiamo la nostra lettura e meditazione del libro di don Divo Barsotti.
Tuttavia, quale pretesa! Non solo possiamo domandarci «Chi di noi è senza peccato?», ma anche dobbiamo chiederci se il peccato del mondo è veramente più grande del nostro.
Ecco, adesso attenzione bene alle domande che pone perché, secondo me, sono domande che uno potrebbe mettere nel suo esame di coscienza.
Non siamo stati prevenuti da Dio con tanti aiuti soprannaturali, con tanti doni di luce e di grazia? Non siamo stati inseriti nel Cristo? Più grave del peccato degli uomini è la nostra infedeltà, la nostra grettezza e lentezza nel rispondere a Dio. Ancor maggiore è la violenza che abbiamo fatto noi all’amore di Dio.
Quanto dovremmo piangere su noi stessi! La nostra vita non dovrebbe essere che un lungo pianto che implora pietà. Ma il dovere dell’espiazione non esclude che, prima di tutto, si debba espiare per noi; anzi, esige che ci rendiamo conto che tutti dobbiamo presentarci davanti a Dio e che non dobbiamo caricarci dei peccati degli altri senza prima avere espiato i nostri. Dobbiamo avvertire la nostra responsabilità.
Quante grazie riceviamo ogni giorno! E dopo tanti anni di vita di pietà, di vita religiosa, come ancora siamo estranei a Dio! Davanti a Gesù, nel Sacramento, possiamo sentire qualche impeto d’amore, ma appena lasciata la chiesa ci assalgono pensieri estranei, preoccupazioni frivole che ci impediscono di rimanere umilmente alla presenza di Dio. Se ci ricordiamo di Dio è perché egli ci serva, più che per servirlo noi con purezza d’amore! Vogliamo ricavare un utile da quel che facciamo. E facessimo veramente qualcosa! Invece, quanti sono i nostri peccati! E come facilmente ce ne dimentichiamo, e come non ne pesiamo la gravità!
Presentiamoci al Signore, viviamo davanti a lui nel sentimento di una nostra miseria profonda, imploriamo pietà, espiamo i nostri peccati con una vita più pura, con una generosità più pronta, con una fedeltà più umile e viva. Ripariamo con un abbandono totale di noi stessi a Dio, alla sua giustizia, alla sua santità, al suo amore misericordioso. Che questo amore ci bruci, ci consumi, e così distrugga i nostri peccati.
Certo, siamo tenuti ad espiare per tutti, ma come osare farlo se non cerchiamo prima di essere come il Signore ci vuole, veramente puri da ogni peccato, mondi da ogni egoismo? Se la nostra vita cristiana ci impone di espiare per i fratelli, tanto più ci impone di realizzare una santità che ci renda propizio il Signore, una santità che ci faccia simili a Cristo, che ci ha uniti a sé sì da renderci un solo corpo con lui. Che cosa varrebbe la nostra preghiera se venisse da un cuore sozzo di peccato, se fosse pronunziata da labbra contaminate dal male? Non farebbe che rendere più grave la giustizia divina.
È stato un capitolo molto denso questo, l’abbiamo notato. Don Divo ci propone un esame di coscienza serio sulle nostre responsabilità, sulle nostre risposte. E questo esame di coscienza parte da un dato di realtà, cioè parte da Dio. Quanto Dio ha fatto e fa per noi; quanto Dio ci ha prevenuti e ci previene con la sua grazia.
Ma, vedete, queste domande non servono per farci venire i sensi di colpa, perché qualcuno, magari, potrebbe dire, o pensare, che queste riflessioni di don Divo servano per far venire i sensi di colpa. Uno potrebbe dire che questa spiritualità un po’ barocca, un po’ rinascimentale, è una spiritualità che lascia il tempo che trova. Perché? Perché punta solo a far sentire l’uomo sbagliato, a farlo sentire fuori posto, a fargli venire l’angoscia, a fargli venire i sensi di colpa. E noi, invece, dobbiamo puntare sull’amore di Dio.
È vero, questo: noi dobbiamo puntare sull’amore di Dio; noi dobbiamo puntare su quanto Dio ci ha amati in Gesù, nella morte in croce di Gesù.
Ma perché Gesù è morto in croce? Questa è la domanda che dobbiamo fare! Qual è la ragione della morte in croce di Gesù? La ragione della morte in croce di Gesù è una sola: salvare l’uomo dal peccato originale, innanzitutto, e dai suoi peccati, da tutti i peccati. E poi da tutte quelle ribellioni che l’uomo ha fatto, fa e farà; da tutte quelle offese a Dio, eccetera; questa è la ragione, non c’è un’altra ragione. Gesù non si è suicidato, Gesù non è morto — non so — per motivi politici, ma per liberare l’uomo dal peccato, punto. E questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Quindi, quando facciamo memoria dell’amore di Dio, noi non possiamo non fare memoria insieme del “non amore” dell’uomo, che ha condotto Gesù a dover morire in croce.
E allora, voi capite il senso di questo ragionamento di don Divo — ma, la stessa cosa la dice anche santa Teresa di Gesù e la stessa cosa dicono tutti i santi — devo guardare la mia miseria; ma non guardo la mia miseria, i miei peccati, per angosciarmi, deprimermi e disperarmi, no no, tutt’altro. Li guardo innanzitutto perché sono reali e, come vi dico sempre, noi dobbiamo partire dalla realtà, dobbiamo avere un chiodo fisso; il chiodo fisso è il principio di realtà: noi non viviamo come gli struzzi, noi non viviamo in quinte, seste, settime dimensioni, noi non viviamo allucinati né schizofrenici, non siamo sociopatici, quindi: la realtà.
Noi dobbiamo essere nella realtà; bella o brutta, chiara, o scura, non ha importanza: la realtà, il principio di realtà. E allora, questo principio di realtà ci dice: io sono un peccatore — devo partire dall’essere peccatore — ma il mio essere peccatore mi viene svelato non dall’analisi psicanalitica, mi viene svelato dal confronto tra me e la vita di Gesù, soprattutto nella Passione. È guardandomi in Gesù che io mi scopro peccatore, mi vedo veramente peccatore. Non lo vedo perché mi metto su un lettino e mi faccio psicanalizzare. Allora, il mio essere peccatore mi serve, come dice Santa Teresa, come rampa di lancio. Quindi: prendo consapevolezza, conosco bene me stesso, vedo il mio essere peccatore in relazione alla passione di Gesù, e da qui cosa faccio? E da qui parto per amare Gesù di più, da qui parto per rinnegare il peccato, da qui parto per dire: “Signore, voglio darti la mia vita!”. Funziona così!
E allora, da qua, cosa si scopre? Si scopre che siamo infedeli, siamo gretti, siamo lenti a rispondere a Dio; che, spesse volte, facciamo violenza all’amore di Dio; siamo stati violenti, non siamo stati delicati! C’è proprio chiusura, c’è infedeltà, c’è piccolezza di cuore — è tutto vero, quello che scrive — e quindi non si corrisponde veramente a Dio. Ecco perché lui dice: «Quanto dovremmo piangere su noi stessi!» Un pianto, anche qua, non autoreferenziale, non è un piagnucolarsi addosso, non è un ripiegarsi, ma è un pianto che implora pietà. Molto bella questa espressione: «un lungo pianto che implora la pietà».
Quando è stata l’ultima volta che abbiamo pianto i nostri peccati? Chiaramente — dice Don Divo — la prima cosa che dobbiamo fare, quando ci presentiamo davanti a Dio — è espiare i nostri peccati, avvertire la responsabilità dei nostri peccati. Questa è in assoluto la prima cosa da fare. E quindi, nonostante grandi grazie ricevute ogni giorno, tanti anni di vita religiosa e di pietà, eppure siamo ancora estranei a Dio. Abbiamo un impeto d’amore, andiamo in chiesa, partecipiamo alla processione, facciamo il ritiro — non lo so cos’altro — grandi impeti d’amore, ma poi ci assalgono i pensieri strani, poi ci vengono le preoccupazioni frivole, e quindi queste ci fanno perdere la presenza di Dio.
Ecco perché vi dico sempre: finita la Messa, dove si colloca il comportamento di chiacchierare con le persone, di rispondere al telefono, di correre fuori per salutare la gente, salutare la mia amica? Questo è vivere alla presenza di Dio?
Poi c’è qualcuno che dice, per esempio: “Eh, vabbè, allora cos’è? L’unico giusto è Don Divo? E tutti gli altri sono sbagliati? Allora noi fino adesso cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto tutto sbagliato?” — “Si! Esatto”.
Ma perché dobbiamo avere così tanta paura di rispondere “sì” a queste domande?
“E vabbè, allora fino adesso ho sbagliato tutto?” “Sì, fino adesso hai sbagliato tutto, e allora?”
“Eh, vabbè, allora l’unico giusto è lui!”; ma io non so se lui sia l’unico giusto. Sta di fatto che lui è giusto. E non è che siccome tutti ragliano, allora l’unico che non raglia è sbagliato. Se tutti ragliano, ragliare è giusto? No. Lo fanno tremila persone; ma potrebbero farlo anche tutti, c’è uno che non raglia? Bene, quello è l’unico giusto.
“Eh, vabbè, allora…”. Eh, vabbè, allora… niente! Allora sei quello che sei, punto.
“E allora? Noi siamo in tanti”; eh, siete in tanti! Sembrano un po’ i discorsi dei bambini dell’asilo; sapete, i bambini dell’asilo ragionano così: sono proprio discorsi infantili, sono proprio discorsi gretti, un po’ così, ecco — non vado oltre perché non voglio essere offensivo — però sono proprio discorsi molto brutti, uno deve prendere una grande distanza da chi fa questi discorsi.
“Eh vabbè, allora fino adesso?”. Eh, fino adesso è un bel problema! “Fanno così anche tutti gli altri!”. E quindi? Questo cosa ci rappresenta? “Fanno così tutti gli altri”; ma quello che c’è scritto, quello che dice Don Divo, è vero o è falso?
Questi sono gli uomini e le donne “eh vabbè”, ci sono tantissime persone, ci siamo dentro anche noi preti, qui: “Eh, vabbè, allora? Eh, ma tutti gli altri? Eh, ma allora io? Eh, ma abbiamo sempre fatto così…; eh, vabbè, e allora?”. Sono tutti quelli che fanno così, sono gli uomini “eh-vabbè”.
Poi invece ci sono questi, che non so proprio come definirli, mi viene da chiamarli “triglie lesse” perché, se fossero solo triglie, sarebbe già qualcosa; ma queste sono proprio lesse, con l’occhio spanato, già cucinate, pronte perché il gatto se le mangi, con la lisca, la coda e la testa, tutto. Questi sono gli uomini e le donne “triglie lesse”, che vanno a fare le domande più incredibili agli uomini più improbabili… ci vuole un’intelligenza…! Bisogna mettersi proprio d’impegno… Conosci il principio di realtà, per cui ti rendi conto di chi hai davanti, o no? Io prendo, vado nel centro di Milano, dai lavoratori dell’Anas — che, tutto il rispetto, sono importantissimi — al 18 di agosto, magari intorno alle due e mezza del pomeriggio, quando questi, poveretti, sono lì sul cemento a lavorare, io vado lì e gli dico: “Scusi, non è che per caso lei potrebbe ballarmi il balletto di Tchaikovsky? No, perché sa, io ho visto Nureyev che lo faceva, lei perché non lo fa?”. Queste sono le triglie lesse! Uno le guarda e dice: “Scusate, potete chiamare la neuro-deliri? Questo è andato fuori di testa!”. Tu vai a chiedere a uno che affonda le gambe nel catrame, che — poverino — ha un corpo deformato dal lavoro che fa, tu gli vai a chiedere: “Scusi, lei potrebbe parlarmi il balletto di Tchaikovsky che faceva Nureyev? Lei non è in grado di ballarlo?”.
Oppure, come è successo a me un po’ di tempo fa — anche questa è una cosa incredibile, sono rimasto basito — ero in un supermercato, al banco dei salumi e, mentre io ordinavo un etto di bresaola, parte una discussione tra il salumiere e una signora su un termine in greco antico. Io ovviamente mi sono completamente perso, ho sbagliato a ordinare gli etti, ho fatto la figura dello scemo, perché poi ho dovuto fare altri ordini, sono andato fuori di testa, non riuscivo più a fare tre per due, perché io ero lì basito, che li guardavo e dicevo: “Ma io non ci credo! Non ci credo! Questi stanno imbastendo una discussione sul significato di un termine in greco antico? Qui al supermercato, alle undici del mattino, mentre stai comprando due etti di mortadella; con uno che di mestiere fa il salumiere”. Non vi dico quali scempiaggini uscivano da quelle bocche, che “il greco antico” (nel senso della lingua) aveva l’urlo di Munch sul volto, si stava rotolando nella tomba delle lettere, stava gridando: “Aiuto, aiuto, aiuto, aiuto!”.
Ma noi facciamo queste cose; questi sono coloro che sono detti “triglie lesse”, che vanno a chiedere le cose più delicate, più importanti, più decisive, più speciali, a chi ti rendi conto da solo, guardandolo in faccia, che non sa neanche di cosa tu vuoi parlare, che vive una vita completamente “altra”, non dico giusta o sbagliata, dico “altra”. No, niente, non c’è capacità di distinzione, non c’è discernimento. Non si è capaci. E quindi uno tratta una mela esattamente come tratta un fico d’India. Dopodiché — voglio dire — la tua bocca è tempestata di diamanti, che sono gli spini del fico d’India.
Guardate che persone così ce ne sono tantissime. E poi arrivano a casa… Avete presente quei cani che vanno a tampinare gli istrici? Pensano che gli istrici siano una gallina! Queste sono le triglie lesse: sono quei cani che pensano che gli istrici siano una gallina, quindi vedono l’istrice e cosa fanno? Gli saltano addosso, con il muso bello dentro, in quel manto bianco e nero, convinti di affondarlo nelle piume di una gallina. Questi poi tornano a casa che neanche respirano più, perché hanno gli spini nel naso, oltre che negli occhi, nelle labbra, nella lingua, nei denti, nelle gengive, nelle zampe, una scena da apocalisse, proprio; che poi bisogna stare lì a strapparglieli a uno a uno. Che dico: ma sai distinguere un istrice da una gallina? Evidentemente no, no!
Allora questi poi ti mandano i messaggi, le e-mail, ti chiamano: “Sono sconvolto, sono sconvolta, perché sono andato a chiedere, ma poi mi hanno risposto, mi hanno trattato male…”. E la prossima volta imparerai a non mettere il muso nel dorso di un istrice, pensando che sia una gallina. Figlio mio, se non riesci con gli occhi a distinguere un istrice da una gallina, ti sei preso una bella bastonata sul muso e adesso te ne renderai conto, di che cosa vuol dire.
Non con tutti si può parlare di tutto. Sveglia! Finiamola di fare questa parte dei fresconi. Principio di realtà, principio di realtà!
E quindi, poi Don Divo Barsotti dice che ci ricordiamo di Dio di più perché lui serva a noi che perché noi serviamo lui (verissimo), per l’interesse che ne abbiamo; ci dimentichiamo spesso i nostri peccati e non ne pesiamo la gravità: “Ma sì, vabbè”; c’è il signor “Vabbè, voglio dire”: “Ma cosa vuoi che sia, mica è morto nessuno, mica ho ucciso nessuno”! No? Speriamo di no! E quindi avanti a banalizzare, avanti a dire: “Ma no, ma sì, vabbè, ma fa niente”. Allora, se andiamo avanti così, cos’è grave? Anche l’assassino trova una ragione al suo delitto, anche il ladro trova una ragione del suo delitto, anche quello che ammazza una persona per strada, la lascia lì agonizzante perché l’ha presa dentro con la macchina e se ne va, trova una ragione a questo comportamento. Tutti troviamo una ragione per quello che facciamo. Secondo voi, Hitler e Stalin non avevano una ragione per quello che facevano? A me sembra che ce l’avessero. È sufficiente avere una ragione per dire che quello non è peccato? È sufficiente avere una ragione per dire che non è una cosa grave?
Quindi, lui dice: “Presentiamoci al Signore, viviamo con un sentimento della nostra miseria profonda, imploriamo pietà, espiamo i nostri peccati in una vita pura, ripariamo, con un abbandono totale di noi stessi a Dio, alla giustizia di Dio, alla Santità di Dio, al suo amore misericordioso”. Avete visto? “Alla giustizia, alla Santità e all’amore misericordioso”. Questo viene per ultimo. Qui ci sarebbe da fare un ritiro spirituale su questo passaggio: giustizia, quindi Santità, quindi amore misericordioso. Interessante, questo passaggio. Ma io non posso farlo, per motivi di tempo.
E don Divo dice che questo amore brucia nei nostri cuori, così che ci consuma e disturba i nostri peccati. Ciò che di fatto distrugge il nostro peccato, è solo l’amore di Dio. Non c’è altro. L’amore per Dio, questo distrugge i nostri peccati. Ma noi siamo tanto bravi da tenere in casa una bella immagine del Sacro Cuore di Gesù e, accanto, — per esempio —un Buddha. Perché no? Che problema c’è? Il signor “Vabbè”: “Eh, vabbè, dai, su, non esagerare, non essere sempre esagerato. Non devi essere “escludente”. Bisogna essere diversi!”. Sapete voi che termini usare, al posto di “escludente”.
“Siamo tenuti a espiare per tutti, ma prima dobbiamo essere come il Signore ci vuole”.
È inutile che io mi metta lì, a dire: “Signore, vengo a espiare i peccati degli altri” — “E i tuoi?” — “No vabbè, ma io non ne faccio” — “Ah, beh, allora siamo a posto!”
“Sono venuto a espiare i peccati degli altri”. — “Uhm, bene. E tu fai la volontà di Dio?” — “Mah, cioè, nel senso che… boh, se è la mia, se la volontà di Dio è quello che faccio, sì: no, non è proprio così, la volontà di Dio non è esattamente quello che io voglio fare, è un po’ diversa”.
Quindi, dobbiamo realizzare la Santità, la nostra Santità. E qui lui pone una domanda molto interessante: «che cosa varrebbe la nostra preghiera se venisse da un cuore sozzo di peccato, se fosse pronunziata da labbra contaminate dal male?» Noi parliamo tanto, noi parliamo veramente tanto e, di fatto, facciamo quello che vogliamo.
A volte mi capita di fare una catechesi — facciamo un esempio — sul colore rosso, e noto che alcune persone nei commenti non argomentano in modo strutturato. Non dicono, per esempio: “Il colore rosso non va bene per queste, queste e queste ragioni.” Quando io affermo, faccio un esempio, che il colore rosso è un bel colore, fornisco delle motivazioni, porto delle fonti. Non dico che siano assolute, ma ci sono.
Qualcuno potrebbe rispondere dicendo: “No, non è vero che il colore rosso è un bel colore, perché…” e a sua volta porta delle fonti, affermando che è meglio il colore verde per queste, queste e queste ragioni. Tuttavia, spesso la risposta che ricevo è del tipo: “Va bene, tu dici che il colore rosso è il più bello di tutti i colori? Sì, ma a me non interessa. Io scelgo il colore verde, lo preferisco e sono convinto della mia scelta e non me ne pento.”
Ma che tipo di risposta è questa? Non è una vera risposta. Non c’è nessuna argomentazione dietro. È una scelta arbitraria, infondata. Questo riflette il nostro cammino spirituale, che spesso non è fondato su ragioni profonde o su fonti autorevoli, ma piuttosto su ciò che ci piace, su ciò che “sentiamo” o “pensiamo”. Tuttavia, non è basato su fonti o su ragioni solide. Quali sono, dunque, le ragioni per cui scegli il colore verde?
Leggete, ma non solo i commenti; alle volte c’è proprio da leggere la vita, le parole che dicono le persone, perché sono importanti.
Infine, Don Divo si domanda che preghiera sia una preghiera che viene da un cuore sozzo di peccato e da labbra contaminate dal male: è una preghiera che rende più grave la giustizia divina, non è una preghiera che intercede. Il cuore deve essere pulito, io mi devo essere confessato bene e frequentemente, le labbra non possono essere contaminate dal male, le labbra devono essere nel bene.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.