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I santi segni. Romano Guardini, parte 33

S. Messa

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: «I santi segni. Romano Guardini, parte 33»
Mercoledì 7 giugno 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Mc 12, 18-27)

In quel tempo, vennero da Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e lo interrogavano dicendo: «Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che, se muore il fratello di qualcuno e lascia la moglie senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano sette fratelli: il primo prese moglie, morì e non lasciò discendenza. Allora la prese il secondo e morì senza lasciare discendenza; e il terzo egualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, quando risorgeranno, di quale di loro sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Rispose loro Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”? Non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a mercoledì 7 giugno 2023. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal capitolo dodicesimo del Vangelo di San Marco, versetti 18-27.

Proseguiamo la nostra lettura del libro di Romano Guardini: I Santi Segni. 

Oggi leggiamo questo nuovo santo segno che è: “Nel Nome di Dio”.

Noi uomini siamo divenuti grossolani. Di molte cose delicate e profonde non sappiamo più nulla, e la parola è una di queste. Pensiamo ch’essa sia qualcosa di esteriore, perché non avvertiamo più la sua realtà interiore. Pensiamo che sia qualcosa di labile, perché non ne sentiamo più la forza. Essa non urta più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e di timbro. Invece è un fine involucro per racchiudere alcunché di spirituale. L’essenza di una cosa, e la nota della nostra propria anima dinanzi a ogni cosa, s’incontrano nella parola e vi ottengono espressione. O meglio così dovrebbe essere. E certamente nel primo uomo era così.

Già da queste prime righe possiamo osservare quanto siano importanti e vere queste parole. C’è ormai una grossolanità diffusa, questa è proprio una malattia, è difficile trovare delicatezza, finezza. È difficile trovare profondità, addirittura non si sa più nulla — è vero — di cose profonde e delicate. 

«E la parola è una di queste», quanto è abusata la parola! Ed è abusata, perché è vero che «non avvertiamo più la sua realtà interiore», ed è vero che «non sentiamo più la forza, il potere e la potenza della parola». Ed è vero che «non urta più non colpisce più, è solo una  debole struttura di suono o timbro». E questo è un problema, perché ci dice dove siamo e dove dovremmo essere e non siamo. Nella parola si racchiude la nostra realtà spirituale: perché “noi parliamo dell’abbondanza del cuore”, dice Gesù. Da come uno parla, da come usa lo strumento della parola, si possono capire tante cose di quella persona. Nella parola «l’essenza di una cosa, e la nota della nostra propria anima dinanzi a ogni cosa, s’incontrano…». Cioè capite, è un momento importante quello nel quale noi parliamo.

Nella prima pagina della Sacra Scrittura si legge che Dio «condusse innanzi all’uomo gli animali» perché li denominasse. L’uomo con aperti sensi e anima veggente spinse lo sguardo attraverso la figura nell’essenza, ed espresse quest’ultima nel nome. E la sua anima rispose alla creatura. Si sentì toccata in qualcosa che stava in particolare relazione con l’essenza di quella creatura, giacché nell’uomo si presenta la sintesi e l’unità della creazione intera. E questi due elementi: essenza della cosa, fuori e la risposta a quest’ultima nell’uomo, dentro — elementi ambedue vitalmente uniti — espresse egli nel nome. Nel nome dunque si combinarono insieme un atomo del mondo e una nota dell’interiorità umana. E quando l’uomo pronunziò il nome, la fisonomia essenziale della cosa emerse nel suo spirito, e a questa intuizione corrispose nella voce quello ch’era stato risposto dal suo intimo. In tal modo il nome divenne un segno misterioso, per cui l’uomo prese possesso del mondo e di se stesso. Le parole sono nomi. E il parlare è l’arte sublime di usare dei nomi delle cose; di cogliere l’essenza delle cose e l’essenza della propria anima nella loro armonia da Dio voluta.

Guardate, io penso che queste parole di Romano Guardini siano talmente chiare, talmente vere, che in un certo qual senso, abbiamo solo bisogno di ascoltarle. Non c’è proprio tantissimo da aggiungere. Forse abbiamo bisogno di ascoltarle e abbiamo bisogno di fare un po’ un reset e ricominciare pensando al valore della parola, al ruolo della parola. 

Questa intima relazione però, col creato e col proprio Io, non fu durevole. L’uomo peccò, il vincolo fu spezzato. Le cose gli divennero estranee, anzi nemiche. Egli non le penetrò più con occhio puro, bensì cupidamente, da tiranno e insieme con lo sguardo malsicuro del colpevole. Esse però gli chiusero la loro essenza. E anche il fondo del proprio essere gli fuggì, perché aveva voluto attuarlo egoisticamente. Non visse più guardando infantilmente nella propria anima. Questa gli sfuggì ed egli divenne ignaro di se stesso e impotente di fronte a se stesso.

Il peccato originale causò tutto questo; quindi, c’è come una frattura, si è come spezzata un’armonia, un’intesa. E quindi si spezza anche questa intima relazione con sé stessi, con il creato e si avverte questa sorta di inimicizia, cioè questa fatica, sia con sé stessi che con ciò che ci circonda, questa estraneità. E questa incapacità di guardare sé stessi e tutto ciò che ci circonda, con un occhio innocente:

Non visse più guardando infantilmente nella propria anima.

 È come se mutasse lo sguardo, e questo sguardo diventa lo sguardo “mal sicuro” del colpevole, uno sguardo bramoso. Ed è vero, che è esperienza di tutti noi la fatica di percepire la nostra interiorità, che sembra sfuggirci. Da una parte siamo diventati ignari e dall’altra parte impotenti di fronte a noi stessi.

La parola «nome» non stringe ormai più per lui, in un’unità vivente, l’essenza della cosa all’essenza dell’uomo. In tale parola non lo investe più ormai il pensiero divino della creazione ordinata nella pace. L’uomo vi vede solo una figura lacerata e sconvolta, vi percepisce come un motivo stonato, soffuso di cupi presentimenti e di aneliti oscuri. E quando per avventura ode in modo giusto la parola, allora si arresta, presta ascolto, riflette, e non ne trova più il senso. La parola rimane confusa, enigmatica, ed egli sente dolorosamente che il paradiso è perduto.

Da una parte questa profonda estraneità, dall’altra come un’eco, di un ricordo lontano. Anche se non si riesce più a fare questa sintesi.

Ma neppure questo succede più. Noi uomini siamo divenuti così superficiali, che non proviamo più ormai il dolore per le parole distrutte. Abbiamo preso a pronunciare i nomi in modo sempre più rapido, più superficiale ed esteriore, pensando sempre meno alle essenze espressevi. Le abbiamo trasmesse ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra; non si sa che aspetto abbia, cosa ci sia sopra; si sa soltanto che per essa si riceve tanto. Così le parole sono corse celermente di bocca in bocca. Il loro intimo non ha parlato più; l’essenza della cosa non si è fatta più udire; l’anima non si è più rivelata in esse. Si ridussero ormai solo a parole-monete: indicarono la cosa, senza però rivelarla. Si ridussero a meri segni, che permettessero agli altri di intendere la propria volontà. Così il linguaggio coi suoi vocaboli, non è più un commercio pieno d’anelito con l’essenza delle cose, né un incontro di cose e anima. Non è più ormai nostalgia del paradiso perduto, bensì un frettoloso sonar delle parole-monete, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse.

Dopo queste riflessioni si vorrebbe dire: “Aspetta che tiro il freno a mano, mi fermo per un po’”. Perché è una fotografia veramente drammatica della nostra situazione, oggi vera più che mai. È vero che ci sono delle parole distrutte e non ne proviamo più dolore. Parole distrutte dall’abuso, parole svuotate della loro realtà più profonda e riempite di altro.

Pensate, la parola che a me sembra più distrutta è la parola “amore”, ed è infatti la parola più abusata, è la parola usata ormai per tutto. È una parola che ormai sembra non dire più niente, perché non parla più di sé stessa, ma veramente è usata come una moneta di scambio. Ormai l’egoismo è chiamato amore, fare quello che voglio è chiamato amore. Si usa la parola amore per situazioni, per realtà che non dovrebbero neanche essere pronunciate, probabilmente. È chiaro che poi, dire: “Ti amo” non dice più niente. Non c’è più una gerarchia, per cui uno dice: “Questa parola la posso usare solo per ciò che sta al primo posto perché ciò che sta al secondo già non va più bene”.

Pensate a parole talmente distrutte perché sono state cancellate volontariamente dal nostro patrimonio linguistico, e quindi concettuale, e quindi esistenziale. Pensate alla parola “sacrificio”. Pensate alla parola “penitenza”. Pensate alla parola “ascesi”. Pensate alla parola “Eucarestia”. Quando è stata l’ultima volta che avete sentito parlare di Eucarestia? Lasciando perdere le prime comunioni, normalmente, quand’è l’ultima volta che avete sentito parlare di Eucarestia? Oppure pensate alla Confessione: quand’è che si sente parlare di “assoluzione”? Pensate alla parola “morte”. Alla parola “giudizio”. E via di seguito. 

Pensate alla parola “Gesù”. Se voi notate, ci sono persone che hanno imbarazzo a dire la parola “Gesù”. Sono proprio imbarazzate, come se non riuscissero. Allora magari, se proprio devono, usano “Cristo”, ma “Gesù” proprio no! 

Ci sono persone che quando dicono la parola “Gesù”, quasi si trasfigurano, si vede proprio sul loro volto una dolcezza… e persone che non riescono neanche a dirla, non la pronunciano mai. E questa cosa vuol dire tanto.

E quindi la parola diventa qualcosa che trasmettiamo come una moneta e qui non posso non pensare ai messaggi dei vari WhatsApp e quant’altro che ci scambiamo. Parole usate come monete. Come merce di scambio. Parole che corrono da una bocca all’altra. E quindi queste parole non parlano più. L’essenza delle cose non la udiamo più. L’anima non si rivela più in esse, in queste parole: sono parole-monete.

Alle volte uno si chiede: “Ma qui, in quello che sto leggendo adesso, in questo messaggio, in questa lettera, in questa registrazione audio che mi ha lasciato questa persona, ma qui si sta rivelando l’anima o è semplicemente uno scambio? O è semplicemente il mercato delle parole?”.

La televisione mi sembra proprio che sia il mercato delle parole, che uno dice a un certo punto: “Adesso basta, non ce la faccio più, sono talmente stanco che non ce la faccio più”. 

E poi le parole gridate. Quanto si grida! Delle parole che soverchiano altre parole. Delle parole usate per ferire, per fare il male, per tagliare. 

Oppure le parole mancate; ci son persone che non son capaci di ringraziare, non sono capaci di farsi presenti. Mi diceva una coppia: “Padre, abbiamo fatto gli inviti di matrimonio…” — oppure anche un’altra famiglia che aveva mandato gli inviti per la prima comunione dei propri figli — e mi dicevano, in entrambi i casi: “Padre, alcuni non hanno neanche risposto. Ma neanche «No!». Ma neanche «Sì!»”. E uno dice: “Sarebbe stato sufficiente, anche: «Grazie!», niente. Hanno ricevuto, perché sappiamo che hanno ricevuto, ma non hanno risposto, non rispondono. Non sappiamo neanche se ci saranno oppure no”. Rendiamoci conto a che livello siamo arrivati. Siamo raggiungibili all’istante ovunque, da chiunque eppure non sappiamo rispondere. Possiamo parlare con chiunque, in qualunque parte del mondo, e non siamo in grado di dire “sì, no, grazie”. Guardate che è terribile. Uno si chiede: “Ma perché non rispondono? Perché non mi dicono una parola? — appunto, vedete, questa assenza della parola… — Perché non dicono: «Grazie dell’invito, grazie che hai pensato a me, grazie che hai pensato a noi, guarda, mi dispiace, purtroppo siamo impegnati e non riusciamo ad esserci»? Cosa ci vuole?” Niente. Niente. E allora dicevano: “Cosa facciamo padre?” — Io rispondevo loro: “Niente. E cosa volete fare? Nulla. Non si può fare nulla”. E allora dicevano: “Ma almeno per i nostri figli, un pensiero di augurio, un saluto, son persone che conosciamo, che ci conoscono, ma possibile che non gli viene il pensiero neanche di fare una telefonata? O di mandare un messaggio, se proprio non vogliono telefonare, dove fanno tanti auguri, dove dicono «Ti ricorderemo», non dico un regalo ma, voglio dire, almeno un augurio, una parola… niente!”. Niente! Niente! Terribile, veramente terribile. Proprio un livello di superficialità e di egoismo, di grossolanità, che ormai ci ha fatto proprio oltrepassare il confine dell’umano, a tal punto che siamo diventati disumani, perché questo comportamento è disumano, perché neanche il cagnolino si comporta così. Quando il cagnolino vede che tu gli dai un biscotto, dopo ti fa le feste. Noi no, niente!

E quindi queste parole che continuano a girare, a girare, a girare ma sono solo parole-monete. Indicano una cosa, ma non la rivelano, ha ragione Guardini, non rivelano. Sono solo meri segni, «non è più un incontro di cose e di anima — bellissima questa espressione — non è più nostalgia del paradiso perduto, ma una macchina numeratrice». La macchina numeratrice fa un rumore incredibile, distribuisce monete ma non sa niente di queste monete. Invece di mandare tutti ‘sti milioni, miliardi di messaggi, di avere sempre questo cellulare in mano, di continuare a scrivere, scrivere, scrivere…

Vi ho già raccontato che tanti anni fa, durante una catechesi del lunedì sera — c’erano tantissime persone, saremo stati cento o centocinquanta, veramente tantissime persone — a un certo punto è arrivata una ragazza. Mi ricordo ancora il suo nome, guardate, l’ho vista una volta sola, di tantissimi non ricordo più il nome, ma di questa ragazza non dimenticherò mai il nome. Vi racconto cosa è successo perché vi fa ridere così sorridete un po’, fa ridere, ma fa piangere. Questa ragazza è entrata, io ero già seduto, pronto per iniziare, e ho notato una persona nuova. Questa ragazza è entrata, si è seduta in terza-quarta fila… me lo ricordo come se fosse oggi, potrei farvi il disegno, anche se sono passati cinque o sei anni, se non di più. Io faccio la mia catechesi, lei sta lì tutto il tempo fissa a guardarmi e poi quando ho finito lei ha alzato la mano e, tra le tante cose che ha detto, questa ragazza a un certo punto dice: “Ma questi qui, che sono qui e scrivono, e scrivono, e scrivono… — rivolta a tutta la gente — ma cos’è che scrivono?”

Io sono scoppiato a ridere, perché guardate veramente non riesco a renderlo come lo diceva lei. “Questi scrivono, scrivono, scrivono, ma cosa scrivete? Ma cosa continuate a scrivere?”

Io ho detto: “Sì, ha ragione!”, perché di tutte le cose che noi scriviamo, ma quante volte siamo andati a rileggerle una volta? Quante volte? Andiamo agli esercizi spirituali, andiamo ai ritiri, andiamo alle conferenze, andiamo a non so a quali cose… scriviamo, scriviamo, scriviamo e poi…?

“E scrivono, e scrivono, e scrivono… Ma cos’è che scrivono? Ma a cosa serve?”. Ho pensato: “Probabilmente questa ragazza l’ha mandata il Signore”. Perché è vero. Quaderni su quaderni, file su file, e poi? Ma quando mai siamo andati a riprendere quelle pagine? Ma quando mai siamo andati a rileggere quegli appunti? Ma quando mai ci sono serviti per una meditazione, per crescere, ma quando?

“E scrivono, e scrivono …” — anche oggi facciamo così — “E scrivi a questo, e scrivi a quello, e scrivi a quell’altro… E scrivi su, e scrivi giù…” e poi? Alla sera tutto questo scrivere, ma a che cosa è servito? A parte disturbare, ma al di là del disturbare, a cosa è servito? Che cosa ho comunicato all’altra persona? In che cosa sono stato mezzo, strumento di conoscenza, di profondità, di spiritualità, di umanità, di arricchimento? E invece dovrebbe essere «un incontro di anima e di cose». Si dovrebbe sentire una nostalgia del Paradiso.

Domani andremo avanti perché questa parte è un po’ lunga, ma è l’ultima, con questa noi finiremo questo libro. Abbiamo letto tutto il libro I Santi Segni.

Allora, come vi ho detto ieri, oggi ho da dirvi e da chiedervi una cosa. Dunque, oggi 7 giugno inizia la Novena al Sacratissimo Cuore di Gesù perché la solennità si celebrerà venerdì 16 giugno, che peraltro è anche la ricorrenza della canonizzazione di Padre Pio da Pietrelcina, avvenuta nel 2002. E io consiglio la recita della Novena Irresistibile al Sacratissimo Cuore di Gesù, l’avrete già visto sul sito o comunque lo vedrete. E quindi il 16 giugno quest’anno sarà una data molto densa, molto carica: il Sacratissimo Cuore di Gesù, poi la ricorrenza della Canonizzazione di Padre Pio e, il giorno dopo, sabato 17, è la memoria del Cuore Immacolato di Maria, quindi bellissimo!

E in quel giorno, il 16 giugno, io concluderò il mio iter accademico, nel senso che farò la mia difesa dottorale. Concludo questi tre anni di studio intenso, molto intenso, e avrò proprio questo momento importante, che si chiama appunto la difesa della propria dissertazione dottorale. Alle 9 del mattino del 16 di giugno avrò questo momento, dalle 9 alle 10:30, dura un’ora e mezza, un po’lunga. Vi chiedo una preghiera, vi chiedo proprio di dedicare questa novena, la Novena Irresistibile al Sacro Cuore di Gesù — che Padre Pio, pensate, recitava ogni giorno — non è lunga, è molto, molto bella tra l’altro, sembra quasi una poesia.

La data non l’ho scelta io, è stata scelta dai miei professori e io, pensate, non mi ero neanche accorto che il 16 di giugno fosse la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e la canonizzazione di Padre Pio, io proprio non me n’ero accorto, zero. È stata un’altra persona che me l’ha fatto notare quando ho comunicato la data e lì mi si è aperto il cuore, perché ovviamente sono due ricorrenze a me molto, molto care, sia il Sacro Cuore di Gesù, sia Padre Pio, a cui son tanto, tanto legato.

Ecco, vi chiedo quindi, chi può, di dire questa novena con me e per me. Pregare per un esame, pregare per una laurea, pregare per l’interrogazione, non è un atto scaramantico o col quale uno chiede a Dio di intervenire per coprire le pigrizie del candidato: “Questo non l’ho fatto, allora Gesù pensaci tu”. Non ha questo significato, ha proprio il significato di affidare a Dio questo momento importante della vita di una persona, di chiedere a Dio la Sua benedizione, di chiedere a Dio la Sua Luce, di chiedere a Dio il dono dello Spirito Santo, dell’intelletto, della scienza, di aprire la mente del giovane, del candidato, affinché tutta la fatica che ha fatto possa dare i suoi frutti, e l’agitazione e magari un po’ la paura dell’ultimo minuto non facciano brutti scherzi.

Devo dirvi che, a differenza di tutte le volte passate, questa volta, anche se è un po’ il momento solenne di tutti questi anni di studio di teologia — perché sono stati veramente tanti — non ho paura. Solitamente ero sempre molto agitato, molto, molto spaventato, e li ho sempre vissuti con molta apprensione, perché non mi sentivo mai pronto. Ma ecco, questa volta invece non so, non avverto queste sensazioni, non avverto questa agitazione, mi sento molto tranquillo. Soprattutto quando ho saputo che il 16 di giugno era il Sacratissimo Cuore di Gesù e la canonizzazione di Padre Pio, mi son proprio sentito in un caldissimo abbraccio, quindi non ho questa tensione interiore. Però io da sempre, da quando andavo a scuola da ragazzo, quando avevo un compito in classe, un’interrogazione o comunque tutti i giorni, finita la Santa Messa, andavo sempre all’altare della Vergine Maria del Santo Rosario, alla sera, per ringraziare e per affidare alla Vergine Maria il giorno dopo; anche se non avevo interrogazioni, compiti in classe però l’affidavo sempre, poi quando avevo un compito in classe, interrogazioni, in più ero molto agitato, avevo un motivo in più per chiedere l’intervento della Vergine Maria. E poi il giorno dopo è il Cuore Immacolato di Maria; quindi, voi sapete quanto io sia legato ai Primi nove venerdì del mese, quindi al Sacro Cuore di Gesù e ai Primi cinque sabati, quindi al Cuore Immacolato di Maria. Sono due date veramente molto, molto belle, molto importanti per tutti e per me in particolare, per la storia della mia vita.

Quindi ecco, io mi affido alle vostre preghiere, dico ancora più grazie a chi può se mi può ricordare proprio dalle 9 alle 10:30. Quindi recitare questa novena e poi, quel giorno, credo che la recita del Salterio di Gesù e di Maria sia il modo migliore di pregare per me.

Vi faccio una promessa, questa proprio ve la faccio di cuore, che appena finirò tutto — tempo di concludere le cose, anche burocratiche, perché è un momento abbastanza articolato — scriverò su Telegram, vi manderò un audio o uno scritto su Telegram, così vi dirò com’è andata, in modo tale che sappiate. Perché uno prega, prega, però poi dice: “Mi piacerebbe anche sapere queste preghiere come vanno a finire!”. Lo farò, anche se ci saranno tante cose da fare, fosse anche un messaggio molto molto breve, però credo che la riconoscenza, che è veramente la memoria del cuore, debba essere sempre onorata. Quindi guardate Telegram dalle 10:30 in poi ogni tanto e vedrete che apparirà un mio audio, probabilmente lascerò un audio perché è più veloce, perdonatemi se sentirete sotto tutto il trambusto delle voci dei ragazzi dell’università, però volendola fare subito si sentirà un po’di vociare, però la mia voce sicuramente si sentirà. E niente, ecco io già anticipatamente vi ringrazio e mi affido davvero di cuore alle vostre preghiere. Poi il 16 vi dirò com’è andata.

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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