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I santi segni. Romano Guardini, parte 34

S. Messa

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: «I santi segni. Romano Guardini, parte 34»
Giovedì 8 giugno 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Mc 12, 28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».
E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

Testo della meditazione

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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a giovedì 8 giugno 2023. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal capitolo dodicesimo del Vangelo di San Marco, versetti 28-34.

Continuiamo la nostra lettura del libro di Romano Guardini: I Santi Segni. 

Solo qualche volta ci scotiamo. Quando d’un tratto ci viene un richiamo da una parola tale che sembra echeggiare da abissi. L’essenza ci parla. Oppure la parola sta sulla carta, e dal segno nero s’accende come una luce. È il «nome» che si presenta, l’essenza, la risposta dell’anima. Qui riproviamo l’esperienza originaria da cui è scaturita la parola, l’esperienza in cui l’anima incontrò l’essenza della cosa. Proviamo la visione stupefacente, la stretta spirituale con cui l’uomo colse l’essenza del nuovo che gli sta dinanzi e lo coniò, attingendo al suo intimo, nella creazione del nome. Avanziamo in una distesa immensa, precipitiamo in un abisso, ed ecco che la parola ci ridiventa quell’opera prima a cui Dio chiamò lo spirito umano. Certo, una parola logorata, immiserita. Eppure presto tutto si disperde di nuovo e la macchina numeratrice tintinna di nuovo … Non lasciar perdere questi istanti.

Quindi, siccome non vogliamo triturare tutto nella macchina numeratrice, la quale tritura con il suo meccanismo tutte le suggestioni positive, tutte le intuizioni che ci arrivano da quelle parole essenziali, da quelle parole che ci scuotono dentro, ecco, allora cerchiamo di imparare ad essere persone che sanno ascoltare l’essenza che ci parla, quella luce che si accende. 

Purtroppo, guardate, siamo ormai tanto narcotizzati, istupiditi dalla banalità delle parole che diciamo e che ascoltiamo che, dovesse mai accadere che qualcuno ci dice una parola un po’ saporosa, non dico di rimprovero ma che abbia un certo qual gusto, in un certo qual senso nella nostra vita, noi immediatamente restiamo feriti, offesi, sofferenti, a quella parola costruiamo attorno un castello che non ha mai avuto, in una parola! Siamo talmente abituati a questa grossolanità, a questa vacuità della parola della vita, che siamo diventati radicalmente permalosi. Per cui nessuno può dire niente a nessuno, e questo, se ci pensate, è una cosa grave, molto grave. Prima di tutto perché le nostre relazioni diventano false, perché non è possibile che non abbiamo mai niente da dire, di correzione di suggerimento alle persone che abbiamo accanto, non è possibile. Perché nessuno è perfetto, quindi è chiaro che avendo accanto qualcuno, a un certo punto ci viene da dire: “Ma guarda ho notato questa cosa, non lo so, forse sarebbe meglio fare in un altro modo, come mai fai così?” E invece no! È come se noi vivessimo secondo l’imperativo delle tre scimmie: non vedo, non parlo e non sento. Ma questo perché? Ma semplice: io non disturbo te e tu non disturbi me, io non critico te, tu non critichi me. Capite? Io non correggo te e tu non correggi me. Ma questa si può chiamare amicizia? Questo si può chiamare fraternità? Questo si può chiamare amore? No, questa è una pantomima, non è niente.

È normale che uno, quando gli fai un richiamo, anche molto fraterno, molto tranquillo, molto amichevole magari rimane un po’così, un po’ci rimane male sul momento. Lo dice anche la Scrittura che la correzione sul momento ti lascia un po’ amareggiato, e va bene, non siamo umili, lo sappiamo, ma ci sono persone che hanno delle reazioni patologiche. Basta dirgli un niente che questi vanno su tutte le furie, sembrano posseduti. Cose terribili: sbattono i pugni, spaccano le cose, si mettono a gridare, diventano aggressivi, fuggono via, … e magari non è stato detto niente di che, neanche chissà quale correzione, ma semplicemente è stata fatta un’osservazione, una cosa molto piana. Ma ci sono delle reazioni spropositate. Questo è patologico!

Uno dovrebbe avere il coraggio di dire: “Io ho una patologia interiore. C’è qualcosa nella mia anima, c’è qualcosa nella mia mente che non va bene, sono malato!”. 

Se mi viene la febbre io devo dire che ho la febbre, non posso far finta di niente. Voglio vedere se uno, a cui capita di avere 40 di febbre, dice: “Ah benissimo, allora adesso vado a fare una corsa di 5 km, poi torno e mi metto a fare un po’ di esercizi, poi mi metto a studiare quattro ore, poi mi metto a fare le pulizie, poi …” No, con 40 di febbre tu sei steso a letto e non ti muove neanche una gru perché, come minimi, hai la testa che ti esplode, poi tutto il resto. Con 40 di febbre nessuno si muove e, a chi gli si avvicina, cosa dice? “Sono malato” — “Eh, ma dobbiamo andare a fare la gita sul Monte Bianco”    “No, io sul Monte Bianco non posso venire perché ho 40 di febbre” — “Eh ma oggi c’era questa gita” — “No, non posso fare niente, ho 40 di febbre, sono ammalato, devo restare nel mio letto. Anzi stammi lontano perché potrei essere anche contagioso, non so che cosa ho, quindi…”. 

Quando da piccolini eravamo malati nessuno veniva a casa a giocare o a studiare, perché potevi avere l’influenza, potevi avere il raffreddore, potevi aver preso la faringite. Sono malato, me ne sto tranquillo nel mio letto, nella mia camera, mi curo, quando guarisco esco e ricomincio la socialità. Non vado a scuola con 40 di febbre, guai! Non vado giù in cortile a giocare con i miei amici, non si può! “Ah, ma ho la partita di pallacanestro”  — “La salti”, con 40 di febbre sei fermo.

Non si capisce  — lo si capisce molto bene, ma comunque  — per quale motivo nella vita interiore non vale la stessa legge. Sapete perché? Perché riesco a nasconderlo, questo è il punto! Se io riuscissi a nascondere i miei 40 di febbre, farei le cose di tutti i giorni senza che nessuno si renda conto, questo è sicuro! Ma siccome i 40 di febbre non li puoi nascondere, c’è poco da scappare. Ma se fossimo persone oneste, onesti innanzitutto con noi stessi e poi con gli altri, dovremmo dire: “Io sono malato interiormente. In questo momento devo curarmi, in questo momento io non posso fare le cose di sempre perché sono malato”. Questo non vuol dire avere una malattia psichiatrica, questo vuol dire avere una malattia interiore. Che poi riguardi di più lo spirito o riguardi di più la mente e la psicologia, questo è un altro discorso. Cioè un permaloso patologico, un permaloso cronico, è malato. È una malattia e deve curarsi. Perché è un peso insopportabile per chi gli vive accanto. È una piaga, è veramente una piaga, perché non si può fare niente, non si può dire niente, soprattutto non si può vivere una relazione onesta, trasparente, schietta, sincera, è come camminare sulle uova, non si può!

Immaginatevi poi se questa persona dovesse avere un qualche compito di responsabilità, a qualunque livello sia, a qualsiasi livello superiore al: “La mia responsabilità è pulire il lavandino”, ecco, va bene lì ci sta, ci può stare. Ma tutto ciò che va oltre questo è un problema. Se la mia responsabilità ha a che fare con gli altri  — pensa a un datore di lavoro, pensate ad un educatore, pensate a un genitore  — è una cosa gravissima! Dovrebbe avere quella onestà interiore che gli fa dire: “Scusate, non posso, mi piacerebbe, lo vorrei fare, ma io non posso farlo” non dire: “Intanto che lo faccio mi curo”,  eh no! Esattamente come la febbre! Non è: “Intanto io faccio footing, intanto io faccio la scalata dell’Everest, intanto io vado a scuola, intanto…”. No! Tu intanto stai a casa tua fermo e ti curi. Quando sarai guarito, allora tornerai a fare le cose che facevi prima.

Quando uno è malato, c’è un tempo di sospensione importante, che va rispettato. Capisco che uno possa sentirsi inattivo, messo da parte, che venga da dire: “No, ma io mi posso curare, intanto faccio le altre cose”. No, non lo puoi fare, non si fa così, non funziona, la natura ci insegna che le cose non funzionano così. Proprio la nostra natura umana ce lo insegna, la natura delle cose ci insegna che non funziona così. Quando c’è una malattia interiore bisogna avere quella onesta “interiore” di dire: “Prima mi devo curare, prima questa malattia va risolta”. Magari uno non può risolverla al cento per cento, va bene, però almeno riesce a perimetrarla meglio, riesce a identificarla meglio e riesce a trovare quegli strumenti per poterla fronteggiare, per poterla arginare, per poterla gestire, per poterla indirizzare.

Capite che se la permalosità si sposa con l’aggressività e la violenza, e spesse volte succede, si salvi chi può! Chi ti vive intorno, cosa ti dice? “No, io non dico niente, non faccio niente perché ho paura della tua reazione”. Capite? Questa è una cosa grave. Ho paura che tu possa spaccare qualcosa, dare in escandescenza, fare il matto, diventare posseduto di non so che cosa, non va bene. Ma questo da dove viene? Viene da questa para-realtà allucinatoria che noi viviamo. Quindi una para-realtà fatta di cose che non esistono, fatta di finzione, fatta di ipocrisia, fatta di un falso rapporto con gli altri, con le cose, che rimandano solamente parole vuote, parole-monete  — come le chiama Romano Guardini  — rimandano solo parole-monete. Parole che sono parole di scambio ma non sono parole che ti scuotono dentro. Alle volte, sapete, ci fa bene che qualcuno ci prenda, ci dia una scrollata e ci metta un po’ al muro, ci fa bene! Alle volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia due sberle, scusate l’espressione.

Quando da ragazzo andavo in montagna con i miei genitori, mi trovavo a giocare insieme agli altri ragazzi che facevano le loro vacanze estive in quello stesso posto, come fanno tutti i ragazzi. Avevamo conosciuto una pastorella con il suo gregge, aveva la nostra età più o meno, e siccome la vedevamo lì in mezzo al prato col gregge, allora l’avevamo conosciuta e c’eravamo presentati. Questa ragazza aveva i denti davanti, i due incisivi un po’ separati da uno spazio. Succede! Anch’io adesso li ho un po’ separati, non tantissimo come quando ero ragazzo, però un po’ce li ho ancora. E allora quando si è ragazzi si è un po’stupidi. Io mi ricordo che un giorno, forte un po’del nostro essere tutti insieme, per fare un po’ lo “stupidotto” della situazione, mi sono messo lì e l’ho presa in giro perché aveva i denti davanti con lo spazio. Questa, senza dire né uno né due, mi ha tirato un pugno in un occhio! Ci sono rimasto… Non me l’aspettavo assolutamente! Mi è arrivato un pugno in un occhio solenne che me lo ricordo ancora adesso. Ecco, voglio dire, è vero, io ho sbagliato a prenderla in giro, però tirarmi un pugno in un occhio perché le ho detto che aveva i denti separati, è un po’ eccessivo. Poi siamo diventati amici, eh, poi da questo evento siamo diventati amicissimi. Però ecco… Non mi sembra il caso di arrivare a questi estremi, che se una persona mi dice qualcosa io le tiro un pugno in faccia.

Devo imparare a gestirmi, devo imparare anche a sentire delle parole che siano oltre il quotidiano, fatto di tante sdolcinature inutili. E poi, questa logica dello smussare gli angoli così che viviamo tutti bene, no! Ma viviamo tutti bene se viviamo nella sincerità, nella schiettezza. E invece non abbiamo il coraggio di dirci la verità, perché la verità fa male, la verità fa paura. E quindi sarebbe opportuno che uno dicesse: “No, io adesso devo mettermi un po’ in sesto, ho bisogno di ricentrarmi e di togliere questo mio modo di reagire che non va bene.

Quando insegnavo mi ricordo che, verso gli ultimi giorni di scuola, all’ultima lezione, i ragazzi mi hanno chiesto di poter fare una foto finale di fine anno in classe e ho detto di sì. Quindi sono venuti, io ero seduto in cattedra, mi si sono messi seduti intorno — sapete, i ragazzi sono molto molto espansivi, diciamo così —  e mi hanno conciato come se fossi un bambolotto, non so, una cosa… Mi hanno messo su gli occhiali da sole a specchio, mi hanno tirato su il cappuccio, mi hanno vestito come non so che cosa, sull’abito mi hanno messo su il mondo, poi mi si sono stretti attorno come se avessimo la possibilità di fare una foto proprio stringatissima. Ho ancora le foto, non le pubblico perché non mi sembra il caso. Se voi vedete questa foto non si capisce bene chi è l’alunno e chi è il professore. E ogni tanto le vado a guardare queste foto e dico: “Mah… è servito anche questo”. Cioè: dentro una relazione non può esserci solamente la serietà, il rigore o la severità. Abbiamo lavorato tanto in quell’anno, si sono impegnati, sono stati rispettosi, è stato un anno molto intenso. Però alla fine si capisce che c’è un po’ la voglia di rompere gli schemi, e anche di esprimere il proprio affetto, la propria riconoscenza. E io penso che si debba lasciarsi raggiungere, non si può avere questo atteggiamento interiore, appunto permaloso, per cui… Quando si capisce che una persona le cose le dice o le fa senza cattiveria, senza volontà di offendere, senza volontà di male, ma proprio con desiderio di sincerità… 

Noi dovremmo cercarle queste cose, dovremmo cercare rapporti autentici, non rapporti falsi, non rapporti pilotati, dove siccome io ho il potere  — perché oggi va un po’ di moda questa cosa  — ho il potere, quindi lo uso, faccio pesare questo potere che ho sulle persone e te lo faccio sentire, questo potere. Perché sapete, è una sensazione che ad alcuni piace  — anche questo è patologico  — ad alcuni piace avere questo potere per cui ho la vita degli altri tra le mie mani, ho il destino delle persone tra le mie mani, come può essere un professore, per esempio  — ma non solo lui  — che può decidere se tu verrai promosso, se tu dovrai recuperare, se tu verrai bocciato. Avere la vita degli altri tra le mani e farlo pesare, anche questo è patologico, non va bene questa cosa, perché poi l’altro che cosa fa? L’altro si modella sulla tua patologia e poi, alla fine, ti prende in giro. Ma siamo talmente stupidi che non riusciamo a capire che nella menzogna, dentro questi comportamenti che fomentano la menzogna, che fomentano la farsa, non riusciamo a capire che chi li paga siamo noi, sono io che pago la scelta di una vita inautentica fondata su parole-monete. Un genitore che non consente al figlio di poter essere sincero, di potersi raccontare per quello che fa per quello che è, è brutto, perché non porta da nessuna parte.

E concludo con questa espressione di oggi quando dice:

Non lasciar perdere questi istanti.

Cioè non lasciar perdere questi istanti di verità, non lasciar perdere questi istanti nei quali questa parole ti apre un mondo tuo interiore e personale importante. Non disprezzare questi momenti, cercali, anzi. Consenti agli altri di potersi esprimere, perché è un vantaggio per tutti, tuo per primo. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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