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”Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio…” (Mt 7,5)

La trave e la pagliuzza

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: ”Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio…” (Mt 7,5)
Lunedì 26 giugno 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Mt 7, 1-5)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a lunedì 26 giugno 2023. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal capitolo settimo del Vangelo di san Matteo, versetti 1-5.

Che cosa ci dice il Signore in questo Vangelo? Il Signore ci richiama all’importanza di concentrare la nostra attenzione su noi stessi. Perché? Perché giudicare gli altri è una via di fuga. Potremmo dire che coloro che giudicano gli altri, soprattutto se poi lo fanno parlandone, sono dei fuggitivi, sono coloro che in realtà non si sono mai veramente messi davanti a sé stessi. Perché ci sono persone, purtroppo, che sono tanto spietate con gli altri — ma veramente disumane, sono proprio capaci di giudizi taglienti, ferocissimi e cattivi — e lo sono tanto quanto non guardano mai sé stessi. Sono tanto spietati con gli altri, quanto con sé stessi sono assolutamente indulgenti. Con sé stessi la frase è: “Sì vabbè, sì però, sì ma dai. Va bene, ma non è così grave!”. Con gli altri sono talmente spietati da andare a voler vedere una pagliuzza, da voler andare a togliere la pagliuzza dall’occhio dell’altro. Ed è verso queste persone che Gesù dice: “State attenti!”. Dobbiamo stare attenti a non cadere in questa deriva.

Del resto, noi cosa sappiamo degli altri? Per poter esprimere giudizi così cattivi, cosa sappiamo degli altri? Noi siamo capaci di dire cose terribili, che secondo noi sono verissime, quando magari con quella persona o non abbiamo mai parlato, o sono anni che non parliamo più, anni che non andiamo a parlare con questa persona, che non chiediamo conto a questa persona, che non abbiamo un confronto con questa persona. Perché la frase, l’assioma, la tesi che sta dietro, auto-giustificativa per i giudicanti, è: “Si, ma tanto con quella persona non si può parlare”; “Sì, ma tanto quella persona non ti ascolta”; “Sì, ma tanto quella persona ha sempre ragione, lei”; “Sì, ma tanto non si viene a capo mai di niente”. Ma questo non autorizza nessuno a diventare un giudice spietato. 

Anche in tribunale, dove il giudice per professione deve giudicare l’accusato, fosse accusato anche dei crimini più efferati, ma proprio i più efferati in assoluto — non so, di stragi, di pluriomicidi, di rapimenti, dei crimini più terrificanti — anche se viene sorpreso in flagranza di reato (cioè con le mani nella marmellata), quando si fa un processo, e si deve fare un processo, lui ha diritto di avere un avvocato difensore. Quando l’accusa ha detto tutte le sue prove, ha portato tutto ciò che serve a corredo della tesi dell’accusa, lui ha il diritto di difendersi. Addirittura, può anche mentire; certo, a suo rischio e pericolo, però può anche dire: “No, non è vero”. È un suo diritto. È un suo diritto potersi difendere. E anche se questa persona è stata sorpresa con una pistola in mano, con in mano il coltello sanguinante del sangue della vittima, il giudice ascolta e deve ascoltare tutta la difesa di questa persona. Anche se si pensa: “Sì, ma la sta inventando”. Non fa niente, va ascoltata. “Ah, ma quello è una pessima persona”. Non ha importanza, va ascoltata comunque. Nessuno può giudicare neanche il criminale più efferato senza un giusto processo.

Noi invece non facciamo così. Noi mangiamo vive le persone con la nostra lingua biforcuta, le spolpiamo vive senza nessuna pietà, e soprattutto senza contraddittorio, e soprattutto senza ascoltarle, e soprattutto senza notificare l’accusa.

Se io vengo accusato di omicidio, devo essere avvisato, capite? Se c’è qualcuno che mi accusa di aver ammazzato qualcuno, devo essere avvisato. Entro nel registro degli indagati e io devo sapere che stanno facendo delle indagini su di me, devo sapere che c’è un procedimento in corso. E quindi verrò interrogato. Prima di finire davanti al giudice, ci sarà già un interrogatorio: “Dove è stato? A che ora? Con chi era? Il suo alibi? Conosceva la vittima?”, cioè ci sarà già un’iniziale interrogatorio. Non è che io la mattina mi sveglio e mi trovo in galera con l’accusa di omicidio plurimo e tre ergastoli. E io dico: “Ma cosa è successo?” — “Ah no, niente, abbiamo fatto tutto noi”. Non si fa così, questo è illegale. Anche per la giustizia umana, questo è illegale. E invece tra noi “credenti” facciamo esattamente così. Una persona si trova condannata a morte senza saperlo, senza aver avuto la possibilità di dire: “No, scusate, però guardate che…”, senza che nessuno gli abbia chiesto conto.

Non posso dimenticare Padre Pio, non posso non ricordarlo… E chi è che gli ha chiesto conto? Chi andava a fare il contraddittorio per dargli la possibilità di difendersi? Non funziona! Questo è un comportamento gravissimo contro la carità e non ha giustificazioni. La persona deve saperlo e bisogna ascoltarla, bisogna dargli la possibilità di dire la sua versione e di verificarla con onestà, con onestà intellettuale, per capire se veramente questa persona è colpevole, diciamo così. Ecco perché Gesù dice:

Non giudicate

Non è la vostra professione, non è vostro compito, perché voi non potete guardare nel cuore dell’uomo e non sapete che cosa c’è dentro il cuore di un uomo. Non sapete quali sono le ragioni profonde che portano una persona a fare certe scelte. La sua vita è per te così importante e interessante? Benissimo, vai a parlargli. Può succedere, magari nella vita di una persona pubblica o di una persona cara, che uno resti sconvolto da un comportamento. Benissimo, vai e parla. 

Quando qualcuno mi scrive o mi chiama e mi chiede, per esempio: “Vorrei sapere perché il mio parroco fa così, così, così, così e così. Perché dice così, così, così e così?”. E io rispondo sempre: “Mi scusi, il suo parroco è deceduto?” — “No no no. Il mio parroco è vivo e vegeto.” E io dico: “Scusi, ma gliene ha parlato?” — “No”. E dico: “Ma perché no?” —  “Ah no, perché poi mi reagisce male, perché poi mi tratta male, perché poi…” — “Ma lei è sicuro? Quindi mi faccia capire: lei viene a chiedere a me, che non lo conosco, che non l’ho mai visto, che non so che faccia abbia, perché lui fa così. Ma io come faccio a saperlo? Ma vada da lui! Però lei pensa che se va da lui, la tratta male; ma lei come fa a essere sicuro di questo? Può darsi, ma può anche non darsi. E poi dipende anche da come le cose si dicono. Da come le cose si chiedono.” — “No, ma lei cosa ne pensa?” — “Io non penso niente, perché non posso esprimere un giudizio su una persona che non conosco in base al racconto di un altro, che potrebbe anche essere un tantino viziato”. 

Perché, capite, nessuno di noi ha l’oggettività pura nella testa. È chiaro che ogni racconto è un’interpretazione. E ogni racconto, di fatto, è anche un parlare di sé stessi. Non è che sia proprio così facile distillare l’oggettività dei fatti.

Abbiamo un po’ perso questa sana abitudine di andare e confrontarci, e di smettere di giudicarci a vicenda, e di tagliare i panni addosso agli altri, e di farci i nostri ragionamenti, i nostri “viaggioni” mentali “pensando che, credendo che…” — “Ma vai e parla e chiedi!” — “Mi risponde male” — “Va bene, offri al Signore la tua sofferenza, almeno hai tentato un atto di carità, di giustizia, di verità. Almeno c’è la buona volontà!”.

Ma non possiamo vivere con i mostri nella testa, con i fantasmi in testa. Noi abbiamo tutto il dovere di andare a verificare. 

Abbiamo il diritto di dire: “No, ma io non me la sento”  e allora in quel caso dobbiamo tacere. Non dire niente. Non esprimere non solo un giudizio, ma neanche un parere, devi dire: “Io non ho gli elementi per farlo”. Va bene, questo è un comportamento onesto. Perché almeno una persona dice: “Io non sono in grado, non ce la faccio, ho paura, ho vergogna, ho non so che cosa, va bene, non vado a parlargli, però sto zitto”. 

E invece no. Noi ascoltiamo i racconti — che sono comunque sempre interpretati — e, in base a quelli, poi ognuno ricama su quello che vuole; e poi quel racconto, che era lungo cinque centimetri, nel giro di due giorni è diventato lungo due metri. Perché ognuno ci aggiunge un pezzo, perché sapete, fa sempre bene, è sempre bello aggiungere un po’ di colore. Stiamo attenti, perché non farebbe piacere a nessuno finire in questo tritacarne. A nessuno farebbe piacere sapere che altri parlano di te, dicono di te, senza che tu possa dire niente, cioè con te assente. Non fa piacere a nessuno, nessuno dice: “Ah sì, questo è quello che desidero per me, per la mia vita”. Non esiste, non esiste nessuno che pensa così.

Gesù dice: “Stai attento a non fare l’ipocrita”. Il presunto difetto nell’altro noi lo vediamo sempre grande come un palo della luce e pensiamo che quella cosa sia uno dei crimini contro l’umanità. Poi magari in realtà quello lì, non so, in realtà ha tagliato un albero o ha mangiato un gelato in più. Ma tu cosa fai? La tua vita personale che cosa dice? La tua vita intima cosa dice di te? Infatti, si vede… i più grandi persecutori di Padre Pio non è che splendessero proprio di santità. Gesù li chiama ipocriti, perché loro stanno peggio di coloro che vogliono curare; è come se io dovessi farmi curare, neanche da un dottore ma da un infermiere malato! Uno dice: “Guarda, prima curati tu, sistemati e, quando poi sarai a posto, potrai venirmi a curare, perché non mi sembra il caso.” E poi anche qua… Ma perché gli devi togliere questa pagliuzza? La domanda è: perché la guardi? Perché è così importante, visto che è piccola? E poi perché la vuoi togliere? Cioè, parafrasando Santa Teresa di Gesù: perché ti dà così tanto fastidio che il tuo fratello, la tua sorella, che è credente in Gesù, che crede in Gesù come te, abbia dei difetti, abbia dei limiti? Ma perché, tu ti senti Dio? Tu ti senti un supereroe? Perché? È importante chiedersi questo. Perché, se l’altro non è perfetto io sono inquietato da questo? Perché pretendo nell’altro la perfezione, quando io invece… E Santa Teresa è molto forte su questa cosa, lei dice che molti abbandonano la via della perfezione appena intrapresa proprio perché si sentono addosso tutte queste critiche, tutti questi giudizi di persone che non perdonano loro niente; perché siccome si sono incamminati sulla via della santità, dice Santa Teresa, si pretende che siano perfetti dall’oggi al domani. Ma neanche Dio lo pretende! Ma non lo vuole neanche Dio, neanche Dio lo chiede questo!

Ma noi, che ovviamente siamo più di Dio, pretendiamo che l’altro sia esattamente tutto ciò che noi non siamo. Perché? Ma, vedete, perché abbiamo dentro un irrisolto che è grande come il mondo; perché siamo dei frustrati, siamo dei frustrati! Siamo dei poveri uomini, ma nel senso più brutto del termine. Pretendere la perfezione negli altri è la cosa più ingiusta che ci sia. Primo, perché non lo pretende neanche Dio, ma il Signore ci invita, ci accompagna e ci perdona Lui, perché è Lui che poi offendiamo. E, secondo, perché io non lo sono, e quindi come posso pretenderlo negli altri? E, se per caso lo fossi, cioè se per caso già vivente fossi Santo, se avessi già un livello di santità elevato… state tranquilli che i santi sono proprio gli ultimi che pretendono la santità negli altri, perché sanno qual è il peso di questo. Qui c’è una densità di ignoranza veramente grave.

Vi faccio questo esempio. Succede, quando si è ragazzi, magari studenti universitari, che un ragazzo o una ragazza debba dare un esame, oppure debba prepararsi agli esami. Mettete adesso, il mese di giugno. Sappiamo tutti che giugno e luglio sono mesi bollenti, non solo per la temperatura esterna — a parte che quest’anno il Signore ci ha regalato e ha regalato agli studenti, almeno venti giorni di un clima meraviglioso per studiare — ma questi due mesi tendenzialmente sono i due mesi dove ci sono gli appelli per gli esami dell’università, primo appello, secondo appello, poi c’è un tempo di pausa e poi si ricomincia a settembre, ottobre a fare gli altri, ci sono le altre sessioni. Poi questo è il mese della maturità, oppure degli esami delle elementari per chi dalla quinta elementare va alla prima media, oppure dalla terza media alla prima superiore. 

“Oh ma padre, ci viene a parlare dell’esame di quinta elementare?” — “Ma tu ti ricordi quando li hai fatti?” Gli esami sono proporzionati all’età e alla capacità della persona. Per una bambina, per un bambino di quinta elementare, il suo esame di quinta elementare o il suo esame di terza media, è esattamente come l’esame di quello che in quinta liceo deve fare l’esame di stato. Perché è proporzionato alla sua età, alla sua preparazione, alla sua capacità, per quell’età è il massimo che è possibile chiedere e che può dare. È chiaro che a una bambina di quinta elementare non faccio fare l’esame di laurea, è logico. Però non vuol dire che l’esame di laurea sia più difficile di quello di quinta elementare per chi lo sostiene. No, perché in quinta elementare quelle sono le tue capacità. Va bene, spero che sia chiaro questo, perché adesso arrivo al dunque. 

E allora cosa succede? Arrivano questi tempi, arrivano questi esami, arrivano questi momenti, questi grandi passaggi nella vita, quinta elementare/prima media, ti cambia il mondo, cambi la scuola, cambi i compagni; poi arriva il momento terza media/prima superiore, non ne parliamo, spesse volte tragedia pura, perché da una scuola che ti accompagna in tutto e per tutto, passi al liceo e ti viene addosso un treno, che devi arginarti tu da solo, devi cominciare a gestire tante materie; quando poi arriva l’esame di quinta liceo e da lì passi all’università, si salvi chi può! Perché lì ancora di più, ancora più difficile.

Allora arriva il tipico buontempone — io dico buontempone per essere assolutamente gentile ed educato — che, mentre questi ragazzi sono lì, poverini, che impazziscono tra la tensione, la paura, il caldo, l’agitazione, “Quale prova uscirà, che cosa mi chiederanno, devo studiare il mondo, non sono preparato, non c’è la farò mai”, e vengono tutti i dubbi del mondo, studiano di notte, di mattina, smettono di mangiare, … e mentre loro sono in mezzo a tutto questo arrivano i sapientoni di turno — che, guardate, a me fanno venire una rabbia, una rabbia che voi non avete un’idea — arrivano i sapientoni di turno e cominciano: “Eh, ma cosa vuoi che sia?”. Una volta ho assistito a questa scena davanti a un ragazzo che, poverino, era agitatissimo, spaventatissimo, e doveva superare l’esame di quinta liceo classico. E c’era questo “padrón de la melonéra” — si dice in milanese, andate a vedere cosa vuol dire — che arriva e comincia: “Eh, ma cosa vuoi che sia? Perché ti agiti? Non sai che cosa ti aspetta poi nella vita, ma queste cose sono stupidaggini, ma sono cose da niente, mica come io che …” — e comincia tutta la prosopopea della sua storia — “Ma si, ma non ti devi mica agitare, queste cose sono bazzecole, non si può agitarsi in questa maniera. Ma no, ma aspetta, ma il giorno prima dell’esame vieni con me che andiamo a ballare, a cantare, a danzare, a nuotare, …”. 

Immaginatevi un ragazzo che il giorno dopo ha la prova scritta di greco, il giorno prima voi ve lo immaginate a Gardaland sulle montagne russe? Poverino, è impossibile, no? Va bene, questi qui si mettono a fare i maestri di vita: “Ma lo studio non è tutto, nella vita quello che conta è la pratica, tu non devi stare a guardare queste cose, guarda che in realtà tu devi prendere una distanza”. Se poi se sono credenti, si salvi chi può: “Quello che conta è la preghiera, guarda che il Signore vuole…” e cominciano a fare i profeti, del primo, del secondo e del terzo testamento e avanti di seguito.

Mentre vedevo questo povero ragazzo che non sapeva più cosa rispondere, vuoi per l’agitazione che aveva per l’esame imminente, vuoi l’età ovviamente inferiore a questo padrón de la melonéra che sorgeva dai rovi come le serpi,… Ho assistito a tutta questa scena, perché a me piace permettere ai lumaconi di sbavare fino a che ne hanno, perché è importante che la bava del lumacone (sapete quello rosso che striscia per terra, ce ne sono tanti in giro di questi individui…) è bene che la tiri fuori tutta, il più possibile, bisogna farle sbavare per bene; quando hanno sbavato per bene tutto, tutta la loro ignoranza e tutta la loro saccenza, allora io mi sono permesso, mi sono avvicinato — mentre questo ragazzo mi guardava come per dire: “Adesso io cosa rispondo? Cosa dico?” — e ho detto: “Scusi, vorrei fare una domanda” — “Sì, sì, padre, mi dica, mi dica, vero che ho ragione?” — Ho detto: “Guardi, io voglio fare solo una domanda: lei è laureato in? È dottore in…?” — “No, no padre, no, no. Dottore, in che senso? Dottore medico? No, no, no.” — “Lei ha fatto il dottorato in…? In quale scienza? Non so, ha fatto il dottorato in medicina, ha fatto il dottorato in ingegneria, ha fatto il dottorato in architettura, lei ha fatto il dottorato in che cosa?” — “No, no” — “Allora è laureato. In che cosa è laureato?” — “No, ma io non ho la laurea.” — “Ah, ho capito, quindi lei ha il diploma di scuola media superiore, che liceo classico ha fatto? Che liceo scientifico ha fatto?” — “No, no” — Dico: “Scusi, lei che titolo di studio ha?” — “Ah no, ma io ho fatto la terza media!” — “Ok”. Allora ho guardato questo ragazzo e gli ho detto: “Guarda, andiamo, andiamo a casa. Lasciamo perdere, lascia perdere. Andiamo.” — “Ma perché, padre?” — “No no, guardi, non apriamo neanche il discorso. Non c’è niente da dire. Lei, che ha fatto a malapena la terza media, si permette di venire a dire a questo ragazzo, che sta per sostenere gli esami di quinta liceo classico tutto quello che ha detto! Ha solo da vergognarsi! Lei dovrebbe stare zitto, togliersi il cappello e, muto, guardare con ammirazione questo ragazzo, che è arrivato dove lei non è stato in grado di arrivare, punto. Fine del discorso, e adesso andiamo”. 

Queste persone dettano dall’alto della loro ignoranza consigli di vita quando loro non sanno neanche di cosa si sta parlando, proprio non lo sanno, perché non l’hanno proprio vissuto. Se tu una cosa non l’hai vissuta e non l’hai patita e non l’hai portata sulla tua pelle, almeno abbi la decenza di stare zitto. Dovremmo stare zitti! 

E questo non vale solamente per lo studio, questo vale per la vita di tutti i giorni. Questo vale per quando noi ci mettiamo a fare i sapientoni di vita vicino a una persona che ha il cancro. Che noi, dall’alto della nostra esperienza di malati oncologici guariti, sappiamo sentenziare, sappiamo dare consigli a quello che sta morendo di cancro, proprio noi, che se abbiamo il mal di testa prendiamo cinque tachipirine, perché, sapete, non si sa mai. Noi che non siamo in grado di sopportare un mal di denti, al malato di cancro abbiamo molti consigli da dare. È la stessa cosa! 

Ci dovrebbe essere quel senso di pudore, di vergogna anche, sì, proprio di pudore, che dovrebbe spingere a dire: “Guarda, io non so neanche di cosa stai parlando. Io non ho fatto il liceo classico, non ho idea di cosa voglia dire per te adesso essere a questo punto. Mi dispiace di vederti così preoccupato, se posso esserti d’aiuto in qualche modo… non ti posso aiutare a fare la versione di greco perché non ho gli elementi per aiutarti, non posso aiutarti a ripetere filosofia, perché non so neanche da che parte si apre il libro, va bene, però… non so, se hai bisogno ti faccio una tisana, ti tengo compagnia, facciamo una passeggiata insieme se hai voglia, se sei un po’ triste chiamami che ne parliamo, magari, insomma, parlandone, ti sfoghi un po’e cerchiamo di trovare una quadra della situazione… Non sei solo…”.

Questo si fa! Si sta accanto! Si accompagna la persona. Che bello quando le nostre mamme, le nostre nonne, ogni volta che avevamo il compito in classe di disegno ci stavano accanto. Non è paragonabile al compito in classe di greco, o all’esame di anatomia o di analisi uno di medicina ma loro sapevano che per noi il compito in classe di grammatica alle elementari era dramma puro. E cosa ci dicevano? “Guarda, vai tranquillo, io pregherò per te”. E pregavano davvero! Non è che lo dicevano e poi non lo facevano! No, no, pregavano davvero, e ti aspettavano a casa come se fossero loro a essere andate a fare il compito in classe o l’esame. E quando uno tornava con il suo bel voto, col suo successo portato a casa, gioivano anche loro, poi ti preparavano il dolce, ti facevano la pastasciutta che piaceva a te o ti facevano trovare a casa il gelato, oppure ti dicevano: “Ma io ero sicura che tu ce l’avresti fatta”, cioè tu ti sentivi proprio accompagnato, partecipato, sostenuto in questa cosa. E poi vi ricordate quando si discuteva la laurea o l’esame delle superiori, magari ti accompagnavano fino alla porta, dove poi entravi con la commissione — almeno ai miei tempi era così — e ti aspettavano fuori. Oppure alla laurea, erano dentro ad ascoltarti, poi, alla fine di tutto, l’applauso, la dichiarazione che eri diventato dottore in architettura oppure in non so che cos’altro, loro erano lì con gli occhi lucidi a dire poco, singhiozzanti, felicissimi, e poi la festa, e poi la cena, e poi il pranzo. Sembrava il matrimonio non so di quale tribù di non so dove che dura, non so, un mese, ecco. Tutta questa partecipazione… poi magari loro avevano la quarta elementare.

Però, capite, c’era dentro quell’umanità, quel senso di umanità… Io tutti gli esami che ho dato nei primi cinque anni di teologia, per il baccalaureato in teologia, li ho dati tutti accompagnato dai carcerati, tutti. Li facevano prima loro di me. Appena arrivavo in carcere, settimana dopo, erano attaccati alle sbarre che mi aspettavano: “Allora, come è andata — e magari facevano fatica anche a dirlo — com’è andata antropologia… com’è che si chiamava, Antropologia teologica, cos’è che era?” — Perché poi magari se lo dimenticavano, perché gli esami a volte avevano dei nomi un po’ complessi — “E quell’altro che avevi invece giovedì alle nove, com’è andato?” — Poi ti trovi questi… che invece si mettono lì a: “Ma tu, guarda, tu devi essere distaccato”. Poi questi sono lì che se la fanno addosso — scusate il termine, ma quando ce vo’ ce vo’ — perché hanno paura della loro ombra. Questi poi sono quelli che non sono capaci di fare di un discorso dalla A alla Z senza incepparsi centocinquanta volte. “Guarda, soggetto-verbo-predicato, riesci a metterli insieme? Tanto per fare un discorso di senso compiuto, che sia comprensibile a tutti, ce la fai? No, perché sennò anche le formiche, quando ti sentono, abbassano le antenne e scappano dentro nel buco, pur di non sentirti, tanto sono terrorizzate dal tuo modo di parlare”.

Capite perché non dobbiamo giudicare? Capite perché dobbiamo stare al nostro posto? E capite perché non dobbiamo sentirci tuttologi di tutto e di tutti? E per quale motivo è giusto avere quell’atteggiamento umile come diceva quell’autore, se non ricordo male penso che fosse Pirandello, che diceva: “Prima di giudicarmi, cammina con le mie scarpe per un po’, poi vediamo”. Certo! Perché è facile sparare sentenze sulla vita degli altri, quando io sono qua con la pancia piena. Vediamo cosa sono capace di fare al posto suo e con le sue possibilità! Ecco, tutto questo per dirvi: stiamo al nostro posto. E se proprio dobbiamo o vogliamo, allora diciamolo, chiamiamo la persona, diciamoglielo davanti, confrontiamoci, apriamo un dibattito, facciamo un dibattito con la persona. Nessuno ha mai mangiato nessuno perché è andato a dire qualcosa a qualcuno. Magari, al momento, può succedere che la persona rimanga un po’ così. Però state tranquilli, guardate, tutti apprezziamo la schiettezza e la sincerità, tutti l’apprezziamo. Magari sul momento no, può darsi che qualcuno faccia fatica, però ci ritorna, ve lo garantisco. La sincerità è apprezzata da tutti; certo, unita alla carità, ci mancherebbe! Però il tentativo sincero è sempre una cosa buona e non tocca a noi dire: “No, ma con quella lì, con quello lì, è una speranza perduta”, “No ma con quello lì è una battaglia persa”, “No, ma tanto, comunque”…

“No, ma tanto, comunque” niente! Perché Dio questo ragionamento con te non lo fa mai e ogni volta ti riperdona sempre, anche se tu il giorno dopo fai gli stessi peccati per cento anni. Quindi chi siamo noi per togliere quella speranza che Dio — non un altro uomo, ma Dio che è il Creatore, che è l’Infinito — da a noi? Se Dio da a noi questa possibilità, chi siamo noi per toglierla agli altri? Chi siamo noi per negarla agli altri? Ecco, questo Matteo 7, 1-5 ci sia veramente di grandissimo monito.

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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