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Amore e dolore pt.3 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.27

Mistica della riparazione

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: Amore e dolore pt.3 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.27
Lunedì 2 settembre 2024

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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PRIMA LETTURA (1 Cor 2, 1-5)

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.
Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

Testo della meditazione

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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a lunedì 2 settembre 2024.

Abbiamo ascoltato la prima lettura della Santa Messa di oggi, tratta dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi, capitolo secondo, versetti 1-5.

Continuiamo la nostra lettura e meditazione del libro di don Divo Barsotti. Siamo sempre nel capitolo “Amore e dolore”, che stiamo affrontando in questi giorni; leggiamo:

Se l’amore di Dio è dono di sé, che si esprime nella Morte, non è necessariamente immolazione. Dio è amore, non è dolore e sofferenza. Se amando gli uomini, Dio, nel Cristo, conobbe tutto il dolore della creazione, è perché stabilì l’unità con l’uomo peccatore. assumendo tutto il peso della sua miseria e del suo peccato. Il suo amore non vuole tuttavia altro che l’unione con l’uomo. Come nell’uomo, così in Dio sarebbe inconcepibile e insano un amore che di per sé tendesse alla Croce.

Se, amandoci, Gesù muore sulla Croce è perché nel cammino che lo porta alla unità con gli uomini trova il peccato e non può superarlo che prendendone su di sé il castigo. Dio, amandoci, deve superare la barriera del peccato dell’uomo e la supera gettando la Croce come un ponte fra le due rive. La Croce è un ponte che congiunge l’uomo a Dio, l’inferno al Paradiso. Così Dio si è unito a noi nella Passione del Cristo.

È importante questo che abbiamo appena letto, assolutamente molto importante. Allora, se l’amore di Dio è dono di sé, dice don Divo, non è necessariamente immolazione, poiché Dio è amore e non è dolore e non è sofferenza; quindi, non servirebbe di necessità l’immolazione. 

Abbiamo visto che il vero amore vuole una sola cosa — a parte che non esiste il falso amore, perché il falso amore è l’odio, non bisogna usare espressioni improprie. Esiste solo l’amore, e dire “vero amore” è fare una ripetizione — l’amore tende a una cosa sola, all’unione. Quindi l’amore di Dio tende all’unione con l’uomo. 

Don Divo scrive: «Come nell’uomo, così in Dio sarebbe inconcepibile e insano un amore che di per sé tendesse alla Croce». L’amore di Dio non tende alla Croce, quindi, va superata questa immagine di Dio assetato del sangue del Figlio che lo vuole vedere morire in croce affinché sia saziato nel suo desiderio di giustizia o nella sua collera; che, detta così, già vi fa capire quanto è sbagliata l’idea teologica che sta dietro.

Quindi, di per sé l’amore di Dio non tende alla croce, perché come abbiamo visto ieri, l’amore non tende a soffrire, così come non tende di necessità alla gioia, ma all’unità. Poi ci saranno i momenti della sofferenza e i momenti della gioia, ma non sono quelli la meta.

Allora, cosa è successo? E successo che l’amore di Dio tende all’unione con l’uomo, vuole l’unione con l’uomo — l’abbiamo perfettamente visto nei primi capitoli della Genesi, fino al momento cruciale che è Genesi 3 (il peccato originale) — perché è la sua creatura, fatta a sua immagine e somiglianza; in questo desiderio di unione, in questa volontà di unione, è successo che si è messo in mezzo il peccato, che non ha fatto Dio, ma che ha fatto l’uomo. A motivo della scelta dell’uomo, si è messo in mezzo il peccato, che di fatto impedisce, che di fatto distrugge, questa unione. Ora, don Divo dice che Gesù, morendo sulla Croce, ha preso su di sé il castigo legato al peccato. Ecco la ragione della Croce, ecco la ragione della sofferenza: il peccato dell’uomo; cosa che oggi non si sente più tanto. Quindi la morte in Croce, la Passione di Gesù non è il percorso naturale dell’amore di Dio verso l’uomo perché non avrebbe dovuto esserci! La Croce è, come dire, la soluzione che Gesù ha “dovuto” adottare — dovuto tra virgolette, perché non era costretto — per risolvere il problema nostro, che è il peccato.

Quindi l’unica causa della morte in Croce di Gesù è il peccato dell’uomo. Gesù, a motivo dell’amore che ha per noi, che è un amore che tende all’unione, per poter raggiungere questa unione, ha dovuto rimuovere la causa che la impediva, che è il peccato. In questo modo, ci dice don Divo, viene superata la barriera del peccato. E come si supera questa barriera del peccato? Si supera attraverso un ponte che viene costruito tra Dio e l’uomo, il vuoto che sta in mezzo è il vuoto causato dal peccato. Quindi, da una parte c’è Dio e da una parte c’è l’uomo, in mezzo c’è il peccato che li separa, il ponte che permette l’unione è la Croce. Mi sembra una spiegazione assolutamente corretta e logica; la Croce, quindi, è un ponte che congiunge l’uomo a Dio.

E quindi è sbagliato dire che l’amore di Dio tende alla Croce. L’amore di Dio tende all’unione, ma poiché quest’unione non è stata possibile — o, meglio, è stata infranta e non è più stata possibile — dopo il peccato originale, ecco la Croce, ecco il ponte; spero di essermi spiegato.  Don Divo scrive: «Così Dio si è unito a noi nella Passione del Cristo». Questa unione con Dio è stata resa possibile nella morte di Gesù; con la morte in Croce di Gesù è tornata possibile l’unione con Dio. 

Prosegue Don Divo:

E tuttavia l’unità dell’uomo con Dio nel Cristo, della natura umana con la natura divina, non fu mai più profonda come nella Morte sulla Croce! Così nella passione dell’uomo, nella sofferenza umana, Dio si dimostra ancora unito all’uomo, ed è proprio in questa sofferenza che si realizza e si esprime l’associazione più intima dell’uomo con Dio, la sua partecipazione al Mistero, la cooperazione dell’uomo al mistero di una universale salvezza. — Beh, più chiaro di così! — Rendiamoci conto di tutto questo, per imparare a vedere il dolore nostro e il dolore degli altri con occhi nuovi; — capendo come stanno bene le cose, allora si cambiano le lenti con cui si leggono — per imparare, per capire anzi, così come può esser capito da noi, quale grande grazia il Signore ci fa quando ci chiede qualcosa: è allora che egli ci innalza fino a sé, ci unisce più intimamente a Cristo, e ci fa, con lui, salvatori. — Stante tutto il discorso che ha fatto, questa è una logica conseguenza: è un dono, perché lui c’innalza a sé e ci unisce di più a Gesù — Indubbiamente viviamo questo mistero di corredenzione anche se non siamo sempre consapevoli di viverlo: è sufficiente che non ci sottraiamo alla grazia, che vogliamo essere nel Cristo; ma quanto è cosa migliore che noi si sia consapevoli di questa nostra eminente dignità, affinché il dolore che soffriamo non sia più accettato solamente con rassegnazione, ma divenga invece per noi l’espressione di un amore perfetto, come fu espressione di carità la Morte sulla Croce. Troppo spesso il nostro dolore non è pienamente valorizzato. Noi dobbiamo sapere che non vi è nulla di più grande.

Gesù, morendo, ha vinto la morte perché nella morte egli ha vissuto l’atto supremo della sua vita, l’atto più aito: la morte fu in lui il supremo atto rivelatore della sua carità, l’atto più efficace, perché, più di ogni altro, glorificò Dio e ottenne una universale salvezza.

Quindi lui dice: “viviamo questo mistero di corredenzione”; e allora capite anche tutta la questione della Vergine Maria e dei suoi sette dolori, e del suo soffrire sotto la Croce; quanto ha partecipato alla redenzione! Certo, lei lo ha fatto nel grado massimo che una creatura può vivere, noi in grado più piccolo; ma anche noi, come don Divo ci ha spiegato fino ad adesso, abbiamo questa partecipazione alla redenzione. E questo accade anche se non siamo consapevoli di viverlo o non lo siamo sempre. È sufficiente che non ci sottraiamo alla grazia e che vogliamo essere in Gesù — vedete “l’unità”. Però è cosa migliore se noi siamo consapevoli di questa eminente dignità, perché, in questo modo, il dolore non è più accettato con rassegnazione, ma diviene invece l’espressione di un amore perfetto; il dolore, come espressione di un amore perfetto, esattamente come lo fu per Gesù sulla Croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno”, capite? Dobbiamo innanzitutto viverlo noi, e poi insegnare a viverlo agli altri. Don Divo dice che «Troppo spesso il nostro dolore non è pienamente valorizzato — invece — non vi è nulla di più grande».

Oggi che si si porta avanti questa idea, questa proposta, questa logica dello “stacchiamo la spina”, certamente, in questa logica, il dolore non è pienamente valorizzato. Non è ritenuto come qualcosa che: “non vi è nulla di più grande”, ma, anzi, come qualcosa da temere, da fuggire, da stigmatizzare, da emarginare. E quindi, invece di integrare il dolore nella nostra vita — anche il dolore degli altri — proprio perché è qualcosa di grandissimo e può essere espressione della carità perfetta, noi costruiamo dei luoghi dove mettiamo le persone che soffrono in un modo terribile. 

Mi ricorderò sempre madre Teresa di Calcutta, quando scoppiò l’Aids e si scatenò inizialmente un panico generale, universale. Sapete, all’inizio la prima ipotesi fu che l’Aids si trasmettesse per via aerea, immaginatevi! Nonostante la retorica sui diritti umani, sulla dignità della persona e sull’assistenza ai malati, molti si allontanarono dai malati di AIDS, temendo il contagio di una malattia ancora poco conosciuta e molto temuta per i suoi effetti devastanti.

Madre Teresa, invece, fece l’opposto. Invece di allontanare o isolare i malati, aprì centri di cura e accoglienza per coloro che erano affetti da AIDS, come il ‘Gift of Love’ a New York. Madre Teresa di Calcutta venne, con le sue suorine, e, in barba a tutti, alla faccia di tutti, fu l’unica ad andare a vivere in mezzo a quelle persone. Capito? Questo è il cristiano, non i blablabla, i quaquaraquà e quelli che si mettono a sentenziare le belle massime altruistiche di attenzione all’altro, stando poi seduti alla propria scrivania o dentro la propria reggia! 

I cristiani sono quelli che prendono e partono e fanno e si sporcano le mani e rischiano la vita; questi sono quelli che veramente vivono l’amore per il prossimo; non io che esco e vado a dare la monetina al povero per la strada. No, no, no, no, troppo facile! Non sono io che mi metto lì a sentenziare, dietro a un televisore o dietro a un giornale, dicendo: bisogna fare questo, bisogna fare quello, bisogna fare quell’altro, è giusto fare così, è giusto fare cosà, prendete, partite e fate. No! Comincia a farlo tu; comincia a essere tu di esempio. Tu credi in queste cose? Benissimo. Allora fai come madre Teresa. Perché capite, siamo tutti capaci di governare la casa degli altri, poi però, quando succedono queste cose, tutti da leoni si trasformano in conigli e scappano. Invece Madre Teresa prese, partì e andò là, e furono tutti ben felici di aver le suorine di madre Teresa e poi andò anche madre Teresa stessa per un certo periodo. Poi, quando si scoprì che l’Aids non era trasmissibile per via aerea, allora decisero di riportarli negli ospedali. Eh sì, però intanto quel periodo lì se lo sono fatte le suore, e nessuno sapeva se e quanto fosse vero o se era falso.

Anzi, quando madre Teresa andò da questi malati, cercando di “allettarla” — come se con madre Teresa ce ne fosse bisogno — le avevano preparato, in questo lazzaretto — perché di fatto era un lazzaretto — tutti gli elettrodomestici del caso, tutti i frigoriferi, i forni, i letti super mega belli. Madre Teresa quando entrò disse: “Prendete tutte queste cose e portate fuori tutto; via, non vogliamo niente, né i frigoriferi né le cose, niente, via, tutto via. Noi vivremo qui come vivevamo a Calcutta e dormiremo per terra sulle nostre stuoie, non c’è bisogno di nessun letto”. Cari miei, questa è la santità, mica star lì a fare quaquaraquà e a metterci a pontificare sulla vita degli altri. Madre Teresa non pontificava sulla vita di nessuno; lei faceva. E poi, soprattutto, aveva esattamente questa idea cristiana — e non quella che “ognuno la pensa come vuole”. No! Perché Gesù Cristo è uno solo, non sono mille Gesù. Gesù è uno, e il Vangelo è quello, la strada indicata da Gesù è quella — e quindi lei accompagnava a morire tutti, e insegnava loro a morire da esseri umani e da cristiani. Nessuno che ha avuto accanto madre Teresa è morto da solo, è morto abbandonato, è morto disperato; nessuno!

Ci fermiamo qui. In questo tempo dominato da una cultura di morte — perché di fatto c’è una cultura di morte che è terribile, a tutti i livelli — si portano avanti delle propagande, delle idee, che solo al tempo di Giovanni Paolo II — tanto per andare indietro di qualche anno — erano state fortemente condannate e stigmatizzate. Giovanni Paolo II è stato il papa della vita, si è schierato contro tutte le culture di morte, contro tutti i progetti di morte e contro tutte le più demoniache proposte di morte, tra le quali, appunto, c’è proprio questa: “La vita, se è segnata dal dolore e dalla sofferenza, non ha senso”. Ma per un cristiano questa cosa è inaccettabile! È semplicemente inaccettabile, perché vuol dire prendere la Passione di Gesù e buttarla fuori dalla finestra, vuol dire prendere la Passione di Gesù e strapparla dal Vangelo. Altrimenti Gesù perché è morto in Croce, che significato ha, quella morte? Del resto, non è la prima volta che Gesù ha versato il sangue. Gesù ha versato il sangue nella sua circoncisione, ma quel sangue non ci ha redenti, ci ha redenti il sangue della Croce. Quindi, vedete, il problema non è il sangue, il problema non è il versare il sangue, non è Dio “assetato di sangue”. Vedete che stupidaggini che veniamo a dire; che sono anche delle bestemmie, peraltro.

Il problema non è il sangue ma è la carità! È la carità perfetta con la quale Gesù ha versato il sangue sulla Croce che ha fatto la differenza, che ha gettato il ponte tra Dio e l’uomo, che ha risolto il problema del peccato e che ha permesso nuovamente l’unione tra l’uomo e Dio. È stata quella carità, vissuta in quel preciso momento della sua morte in Croce. Quindi impariamo a valorizzare il dolore, e anche noi a portare avanti questa bellissima idea, concezione, visione, assolutamente cristiana che scrive don Divo: “noi dobbiamo sapere che non vi è nulla di più grande del dolore pienamente valorizzato, espressione di un amore perfetto”.

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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