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Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno pt.2 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.35

Mistica della riparazione

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno pt.2 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.35
Martedì 10 settembre 2024

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Lc 6, 12-19)

In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.
Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.

Testo della meditazione

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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a martedì 10 settembre 2024. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal sesto capitolo del Vangelo di san Luca, versetti 12-19.

Continuiamo la meditazione del libro di don Divo Barsotti, siamo arrivati al capitolo intitolato “Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno”. 

Poiché è mediante i cristiani che si fa presente la Redenzione e deve essere salvato il mondo, ne deriva che, se questa salvezza non si compie e la Redenzione di Cristo non distrugge, non elimina il peccato del mondo, tutto questo dipende certamente da noi (in quale misura ne dipenda, ne è giudice Dio). Se noi siamo il sale della terra, come può essere corrotta la terra, senza che questo sale sia divenuto scipito? Se il mondo è nelle tenebre, dal momento che noi siamo la luce del mondo, com’è possibile che queste tenebre non siano una precisa accusa contro di noi? Bastano pochi santi a salvare una nazione, basta un santo a salvare una città. Non è stato sufficiente il Curato d’Ars a ridare un’anima cristiana alla Francia? Quando entrò nella sua povera parrocchia, sembrava spenta la fede, non si faceva che ballare, mangiar la carne il venerdì, bestemmiare. Che cosa rimaneva di cristiano in quella piccola parrocchia di campagna? Quando morì, anche i più umili contadini, le persone più rozze non andavano mai a lavorare senza far visita in chiesa, senza ascoltar la Messa al mattino, senza ritornarvi ad ascoltare il catechismo la sera, e si accostavano ai Sacramenti. Non vi era più, in tutta la parrocchia, né bestemmia, né immoralità, né disprezzo per la legge divina, né noncuranza dei precetti ecclesiastici, ma in tutti un impegno di vita cristiana, anzi in tutti un impegno di perfezione evangelica. Questo ha operato un santo! Ma il Curato d’Ars non è riuscito soltanto a far santa una parrocchia, è riuscito in qualche modo a battezzare tutta la Francia. Egli è stato un richiamo, un vessillo alzato sulla nazione. Quante anime hanno sentito Dio e lo hanno veduto nell’umiltà di questo suo servo! Lo hanno contemplato, lo hanno riconosciuto in lui e hanno creduto. Attraverso l’esempio di perfezione che quest’uomo ha dato, la Francia ha ritrovato il suo Dio. Dopo la devastazione della Rivoluzione francese è impressionante davvero l’efficacia che ha avuto l’esempio di quest’uomo che privo di doti umane, confinato nell’ultimo angolo della Francia, in una borgata di poche centinaia di anime, da solo, ha ridato un’anima cristiana alla Francia; non solo, ma ha suscitato dei santi: la Beata Maria della Provvidenza, il Beato Giuliano Eymard e tante altre anime, dalla sua direzione spirituale hanno ricevuto un impulso che le ha portate alla santità. Un santo da solo è riuscito a far questo!

Il peccato della nostra città in che misura dipende da noi? Lo possiamo noi determinare? Non possiamo dire fino a che punto giunga la nostra responsabilità nel peccato degli altri, ma che vi sia una responsabilità nostra nel peccato degli altri, questo, sì, dobbiamo confessarlo umilmente. Siamo legati gli uni agli altri. Se veramente noi vivessimo una vita cristiana perfetta, certamente gli altri più o meno ne subirebbero il fascino, sarebbero come purificati dalla nostra presenza, sarebbero come sostenuti dalla nostra forza, sarebbero come svegliati dal loro torpore, acquisterebbero una maggiore potenza di amore per rispondere a Dio. Quale forza? Non so, tutto dipende dalla missione che ciascuno di noi ha ricevuto, perché ciascuno ha la propria missione. Ma se io non sono chiamato ad essere come un S. Francesco d’Assisi — ad essere una lampada per tutti i secoli e per tutte le genti — se non sono chiamato ad essere un Santo Curato d’Ars, sono chiamato tuttavia in quanto cristiano ad essere, insieme agli altri cristiani, luce del mondo, sale della terra. Non vi può essere dubbio: a noi è affidata la responsabilità della salvezza umana.

È un testo bellissimo, è innegabile, bellissimo; vediamo di commentarlo, anche se mi sembra talmente chiaro… Dunque: «se questa salvezza non si compie e la Redenzione di Cristo non distrugge, non elimina il peccato del mondo, tutto questo dipende certamente da noi», “in quale misura non lo sappiamo, lo sa Dio, però dipende da noi”; perché se siamo il sale della terra — lo dice Gesù, eh! — come può la terra essere corrotta? Vuol dire che questo sale è diventato insipido, non sa di niente, per questo che la terra è corrotta.

Noi diamo sempre la colpa agli altri, noi diamo sempre la colpa al mondo, noi diamo sempre la colpa alla televisione, noi diamo sempre la colpa all’immoralità; ma un esame di coscienza vero su quanto e se siamo veramente il sale della terra, ce lo facciamo ogni tanto o no? Perché, se io butto del sale nell’acqua della pasta e, alla fine, quando la scolo, la pasta è insipida, i casi sono due: o ne ho messo troppo poco, o quel sale non era sale, ha perso il suo essere sale. Una cosa è sicura: se la pasta che io servo è senza sapore, la colpa non è della pasta; questo è sicuro! Nessuno ha mai incolpato la pasta perché è insipida, infatti si dice che è insipida; la colpa è di chi ha messo il sale o del sale stesso, quindi: o non ho messo il sale, o ne ho messo troppo poco, o non era sale, o quel sale ha perso il gusto, ha perso sapore, si è insipidito. Ma di sicuro non sarà mai colpa della pasta, di sicuro non sarà mai colpa dell’acqua, di sicuro non sarà mai colpa della pentola e di sicuro non sarà mai colpa del fuoco. Noi invece cosa facciamo quando scoliamo la pasta ed è insipida (considerate il paragone), noi diciamo: la colpa è del fuoco, la colpa è della pentola, la colpa è dell’acqua, la colpa è della pasta; non è mai responsabilità mia, che sono il sale, non è mai responsabilità mia se quella pasta è uscita sciapa, no, è sempre colpa degli altri.

«Se il mondo è nelle tenebre, — e noi continuamente diciamo che siamo nelle tenebre, il mondo è nelle tenebre, tutto è nelle tenebre — dal momento che noi siamo la luce del mondo, com’è possibile che queste tenebre non siano una precisa accusa contro di noi?» 

Vedete, ma son domande logiche! Se la mia casa è al buio, la colpa è dei muri? È della porta? È del frigorifero? È del letto? È delle persone che stanno dentro? No, la colpa è che non c’è la luce. Se la luce non c’è, quella casa è al buio, punto. Non ha colpa la casa, cioè i muri! Che colpa hanno, i muri? Anche qui, noi diamo la colpa ad altri e ad altro. “Il mondo è nelle tenebre, la realtà è nelle tenebre, tutto è nelle tenebre”; comodo! È comoda questa espressione, è comoda questa teoria, è comoda questa idea, perché la colpa è sempre fuori di noi, non è mai dentro di noi. Eh, cari, “dolce l’uva”, si dice dalle mie parti. E invece don Divo dice giustamente: se il mondo è nelle tenebre, queste tenebre sono una precisa accusa contro di noi, non contro il mondo, non contro la realtà che sta nelle tenebre, qualunque essa sia; ma contro di noi, che siamo luce, siamo investiti di questa identità, di questa missione, però non lo facciamo, però non ci accendiamo. Io posso avere tutti i lampadari che voglio, posso avere tutte le luminarie che voglio, sì, ma se non le accendo non fanno luce!

E allora lui fa l’esempio del santo Curato d’Ars. Noi pensiamo che per salvare una città, per portare sale, per portare luce, per sconfiggere il peccato, ci voglia chissà quale evento, chissà quali numeri — noi siamo nell’eresia del numero, “la follia dei numeri”, tutta la nostra vita si basa sui numeri. E invece don Divo dice: no, guardate che ne è bastato uno, il santo Curato d’Ars, che ha ridato un’anima cristiana alla Francia! In quella povera parrocchia non c’era più fede, la gente di quella parrocchia non pensava che a ballare, mangiare carne il venerdì e bestemmiare. Ecco, non è proprio la Magna Carta dell’essere cristiani! Magari oggi direbbero che questi non sono neanche più peccati… Forse sono ancora peccati, queste cose, non lo so, me lo direte voi… E lui dice: «Che cosa rimaneva di cristiano in quella piccola parrocchia di campagna?». E noi oggi diremmo: “Dai, don Divo, non essere esagerato! Vedete, don Divo è sempre esagerato. Dai, don Divo, non essere fondamentalista, su! Tu devi essere inclusivo, eh! Tu cominci a parlare di bestemmiatori, di quelli che vanno a ballare, di quelli che mangiano la carne il venerdì… adesso, dai, non esageriamo! Non è che muore nessuno se mangiamo la carne il venerdì, o diciamo qualche bestemmia, a chi è che non scappa, su! Cioè, voglio dire, una bestemmia… insomma, dai, sai, uno è nervoso, poi c’è il caldo, poi mi è caduto il bigodino, poi magari ho lanciato male il pallone, poi mi sono pestato un dito nel frigorifero, poi sono inciampato e ho picchiato il ginocchio, mi è scattato il rosso quando non me lo aspettavo; cioè, una bestemmia… dai, a chi è che non gli scappa, una bestemmia! Adesso, almeno una bestemmia ogni tanto, bisogna pur dirla! Cioè, nel senso: siamo fragili, siamo deboli, siamo feriti — sapete che noi siamo tutti feriti, siamo pieni di ferite, tutti feriti; oggi chi non è ferito non è normale, se sei normale, sei ferito, se non sei ferito, non sei normale; quindi, cerchiamo di andare tutti in giro col petto in fuori per far vedere tutte le nostre ferite. Quindi, insomma, adesso non è che dobbiamo diventare integralisti!

Quindi, don Divo si chiede cosa rimanesse di cristiano in quella parrocchia. Chissà se don Divo fosse vivo oggi e vedesse quello che c’è…. Quando il santo Curato d’Ars morì, c’è stata questa cosa strana: che nonostante fosse (per il pensiero comune di oggi) un po’ eccessivo, un po’ fondamentalista, un po’duro, un po’ rigido, però: «Quando morì, anche i più umili contadini, le persone più rozze, non andavano mai a lavorare senza far visita in chiesa…»; ma guarda un po’! Che strano! Non è inclusivo, però, dopo che lui ha vissuto lì, guarda un po’ che vita cristiana! La gente prima di andare a lavorare andava a fare la visita in chiesa. Oggi chi va in chiesa a fare una visita prima di andare al lavoro? Chiese deserte… Oggi, prima di andare al lavoro, noi riempiamo i bar, per l’amor del cielo: vuoi non farti le tue cinque colazioni prima di pranzo? Cioè, voglio dire …  “Dai su, non esageriamo, non esageriamo, non diventiamo troppo rigidi”.

Quindi, questi contadini, prima di andare a lavorare, andavano a fare la visita in chiesa. Poi, non andavano a lavorare senza ascoltare la Messa al mattino.

“No, vabbè, adesso, posso andare a Messa tutte le mattine? Dai! C’è il treno, poi la sera vado a letto tardi, devo vedere la tele, poi devo fare scrolling sul cellulare e vedere tutte le cose, tutti i video possibili e immaginabili; insomma, Messa al mattino tutti i giorni non si può!”

Poi, questi contadini quando ritornavano dai campi — che non è esattamente come quando uno viene fuori dall’ufficio che ha battuto il computer con i suoi bei ditini, ma questi contadini che si sono spaccati la schiena, magari sotto il sole cocente, per otto-dieci ore — e cosa facevano? Dopo aver ascoltato la Messa al mattino, andavano a sentire il catechismo la sera. Capite? Questi andavano a fare catechismo la sera, tutte le sere c’era un po’ di catechismo. Questi, sudati morti, schiena spaccata dai campi, andavano a fare il catechismo alla sera, e poi partecipavano e si accostavano ai sacramenti.

Tu trova una persona che, una volta alla settimana o al mese, va a fare catechismo la sera; che dopo cena, dopo essersi lavato, rinfrescato, ristorato, esce per andare. A me qualcuno dice: “No padre, no, no, no. Guardi, io proprio adesso di andare dopo cena fuori, prendere la macchina, andare a fare la catechesi… No, no, no, no, no, padre, assolutamente, non se ne parla”. Che uno dice: “Mamma mia, signora, quanti anni ha?”; magari questa signora, poverina, ha centoventi anni e uno dice: no, vabbè, poverina. Ma no! Magari hanno sessant’anni, neanche, o magari ne hanno cinquanta. “No, no, però non ce la faccio. No, no, adesso devo un po’ pensare a me stessa (o a me stesso) quindi…”

E questi contadini invece andavano, nonostante lui fosse così rigido, così duro, così integralista, così esigente; perché predicava, faceva le Messe, l’adorazione eucaristica, le confessioni, i vesperi con il turibolo tutte le domeniche.

Poi, “non vi era più, in tutta la parrocchia, nessuna bestemmia, nessuna immoralità, nessun disprezzo per la legge divina e nessuna noncuranza dei precetti ecclesiastici”. Non so se ci rendiamo conto di quello che scrive don Divo. Voi trovatemi una parrocchia, oggi, dove tutto questo non c’è. E uno dice: “Eh, certo, è colpa dei parrocchiani”, no! Attenti, la colpa non è delle pentole, dell’acqua, del fuoco e della pasta, la colpa è del sale. Se un prete — che poi il santo Curato d’Ars non era dottore in teologia (che adesso son tutti dottori in teologia), poverino, ha fatto fatica a finire i cinque anni di teologia per diventare prete — ha fatto quello che ha fatto da solo — perché, quando è arrivato lì, non c’era il consiglio pastorale parrocchiale con tutti i santi intorno, i dodici apostoli, tutte le Madama la marchesa con il Rosario in mano — se lui da solo è riuscito a fare tutto questo e a far sparire tutti questi peccati, come mai, noi preti non riusciamo, nelle nostre parrocchie, in questa stessa cosa? È colpa dei fedeli? No! La colpa non è nella pentola, nell’acqua, nel fuoco o nella pasta. Cerchiamo dentro di noi; noi siamo come il santo Curato d’Ars? Cominciamo da lì. E i cristiani impegnati, adulti nella fede, di cui ci circondiamo, sono sale della terra e luce del mondo? Sennò è inutile che andiamo in giro a puntare il dito e a fare i predicozzi agli altri, dicendo: “Perché non venite? Perché non lo fate?”. Ma tu che esempio dai? Io che esempio do? Io ci sono per le Messe, per le confessioni, per l’ascolto delle persone, per la predicazione, per l’adorazione eucaristica, eccetera eccetera eccetera?

“Eh, no, ma sa, noi oggi abbiamo tante cose da fare!”; No, perché invece il santo Curato d’Ars se ne stava tutto il giorno in casa a lavorare all’uncinetto, lo sapevate? Stava tutto il giorno in casa! Poi, quando era stanco, si metteva a lavorare a maglia. Vi prego! Cerchiamo di non dire idiozie. Il santo Curato d’Ars confessava dalla mattina alla sera e tutti i malati andava a trovarli lui, nessun altro lo aiutava. Non c’erano né suore, né laici impegnati, nessuno, faceva tutto lui. Confessava come padre Pio, il giorno e quasi notte. Quindi non veniamo a cantar storie!

Ma, scrive don Divo che c’era «in tutti un impegno di vita cristiana, anzi in tutti un impegno di perfezione evangelica. Questo ha operato un santo!» Certo! Stessa cosa che ha fatto S. Caterina da Siena, stessa cosa che ha fatto S. Teresa d’Avila, stessa cosa che ha fatto Madre Teresa di Calcutta. “Ma il Curato d’Ars non ha fatto solo questo in parrocchia, ma ha battezzato tutta la Francia in qualche modo”. «Egli è stato un richiamo, un vessillo alzato sulla nazione. Quante anime hanno sentito Dio e lo hanno veduto nell’umiltà di questo suo servo!».

Il problema è questo: ma chi ci incontra, vede Dio? O vede un bamboccione? Chi ci incontra, vede Dio o vede un pagliaccio che fa un po’ di versi religiosi?

«Quest’uomo che, privo di doti umane, confinato nell’ultimo angolo della Francia, in una borgata di poche centinaia di anime — la sua parrocchia era minima, ma poi arrivano da tutta la Francia — da solo, ha ridato un’anima cristiana alla Francia; non solo, ma ha suscitato dei santi… Un santo da solo è riuscito a far questo!».

Ora don Divo si chiede: «Il peccato della nostra città in che misura dipende da noi?» Lui dice: “non possiamo sapere quanto dipende da noi, ma di sicuro dipende anche da noi, c’è una nostra responsabilità, perché siamo legati gli uni agli altri. Se noi veramente vivessimo una vita cristiana perfetta, gli altri, più o meno, sarebbero affascinati, sarebbero purificati dalla nostra presenza”; è vero! Quando sei alla presenza di un bravo sacerdote, di un bravo cristiano, non ti viene voglia di fare lo stupido, non ti viene voglia (anzi sei in imbarazzo) di dire parolacce e fare discorsi volgari; ti incute timore, dà esempio, ti vien voglia di essere migliore, di essere diverso. Don Divo dice che una persona così dà forza a chi ha intorno, sveglia dal torpore e ti spinge ad avere più forza per rispondere con amore a Dio.

«Tutto dipende dalla missione che ciascuno di noi ha ricevuto, perché ciascuno ha la propria missione». Quindi lui dice: non tutti siamo chiamati ad essere il santo Curato d’Ars o S. Francesco d’Assisi, ma tutti siamo chiamati ad essere luce del mondo e sale della terra. Questa responsabilità è affidata a ciascuno di noi.

E questa è la mia risposta a una domanda che ho ricevuto qualche giorno fa, e sulla quale ho voluto un po’ riflettere e meditare. Poi, ho deciso oggi di parlarvene. Sono voluto partire dalla risposta e arrivare adesso alla domanda. Qual è la domanda a cui faccio riferimento? Ci sono state diverse famiglie, diverse mamme, papà, che mi hanno interpellato, che mi hanno scritto, dicendomi: vorremmo un suo parere cristiano sulla violenza di quel giovane verso la sua famiglia. Un consiglio per essere dei genitori attenti verso i loro figli, perché siamo preoccupati da questo mondo tanto violento.

Io la risposta ve l’ho data attraverso don Divo. Per questa domanda, ascoltate la risposta che vi ho già dato in questi venticinque minuti. È vero, io sono andato a leggere un po’ sui quotidiani quello che è accaduto a Paderno Dugnano, ma anche quello che è accaduto, poco tempo prima, a Terno D’isola, perché non è che siccome le cose sono accadute un mese fa o due mesi fa, allora sono seppellite.  Noi siamo abituati a seppellire tutto: ci colpisce oggi quello che succede ieri, e poi l’altro ieri è già andato, già dimenticato.

Sono due casi diversi. Non mi soffermo, ovviamente, perché non c’è niente da dire, sulla gravità degli atti compiuti, perché sono veramente gravissimi, incommentabili, sono veramente terribili; io sottolineo quello che hanno detto gli imputati, cioè ciò che hanno detto i due assassini. Ecco, questo va sottolineato, secondo me. Per esempio, mi soffermo su quanto ha detto uno di loro; per rispetto non faccio il suo nome, perché non mi sembra il caso, anche se è di pubblico dominio. Non faccio i nomi delle persone che compiono questi reati perché, comunque sia, mi sembra giusto evitarlo. A noi non interessa “chi ha fatto cosa”, queste morbosità non ci interessano. A noi credo che interessino le ragioni che sono state date, le motivazioni.

Per esempio, per quanto successo a Paderno, questo ragazzo giovanissimo dice: «Non è successo niente di particolare, sabato sera. Ma ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo». Quindi non c’è un evento scatenante; “Stavo pensando. Stavo covando l’idea di sterminare i miei e la mia famiglia”; e qui già uno si ferma e dice: ma i nostri pensieri hanno un valore? Mi viene questa riflessione, non so; io non ho mai trattato questo argomento, forse, nelle mie meditazioni ma, probabilmente sbagliando, l’ho dato per scontato. Ma guardate che i pensieri non sono irrilevanti, non è che un pensiero vale l’altro. Non è che siccome le cose le penso e non le faccio, allora non faccio i peccati. Ci sono i peccati di pensiero! Se io penso, con la mia mente, di ammazzare una persona, ma non nel senso che mi passa un’idea nella testa, perché è un momento così… sapete, la nostra mente ogni tanto ci fa degli scherzi, ti passano dei pensieri stupidi nella testa, ma non sto parlando di questo, sto parlando di covare. Questa persona dice “stavo covando da tempo, ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo”; no, scusate un attimo, stiamo attenti. Io non è che parlo di lui, io parlo di noi: uso lui per parlare di noi, uso proprio la sua testimonianza perché serve a noi, non per parlare di lui, perché io non so niente di questa persona e questo ragazzo non l’ho conosciuto e non posso certamente entrare nella sua coscienza.

Io mi domando e vi dico: stiamo attenti ai pensieri perché, se io penso, se sto a pensare a un omicidio, io ho fatto un peccato mortale contro la carità; attenzione. Cioè, non è che dopo mi alzo e dico: ah, vabbè, ho avuto un pensiero così, vabbè, adesso vado a fare la Comunione e a dire il Rosario. No, no, no, no! Se io faccio un pensiero voluto e cosciente, quindi persistente, cioè un pensiero che ha una sua durata nel tempo, che dura non un secondo, ma che dura tre-quattro-cinque minuti, questo qui è un atto della mente voluto, che si configura come peccato mortale contro la carità. Non posso andare a fare la Comunione, devo andare a confessarmi. E cos’è che confesso? Confesso che ho avuto un pensiero che ho accolto volontariamente, sul quale ci sono rimasto e nel quale ho pensato di ammazzare mia madre, di ammazzare mio padre, di ammazzare mio fratello, di ammazzare la mia ragazza. Lo devo dire, e lo devo andare a confessare immediatamente; su queste cose non scherziamo.

Qui non è questione di essere integralisti, fondamentalisti e non so che cos’altro, ma il pensiero non è irrilevante rispetto alla mia azione; noi siamo soggetti pensanti! Cioè, prima che arrivi un’azione, di norma ci deve essere un pensiero. Ora è chiaro che se io continuo a pensare una cosa alla fine la faccio, quindi devo essere responsabile dei miei pensieri. Stiamo attenti a cosa pensiamo, perché già il pensiero incide sulla nostra coscienza e, senza arrivare all’omicidio, posso avere: pensieri di vendetta, pensieri di lussuria, pensieri di adulterio, pensare di andare a portar via la donna di un altro, l’uomo di un altro, pensieri di rubare, pensieri di impurità, pensieri di guardare cose pornografiche. “Ah no, ma poi non l’ho fatto, quindi sono a posto”; non è vero, non è vero assolutamente! Se tu questo pensiero l’hai fatto e l’hai accolto e l’hai tenuto in te e quindi la volontà è entrata e quindi il tempo ce l’hai dedicato, tu hai commesso un peccato, più o meno mortale, comunque grave se la materia è grave, nei confronti di quella realtà, quindi ti devi andare a confessare, punto, e devi dire che hai fatto un peccato di pensiero in questa materia circa questa situazione.

Ringrazia Dio che non sei arrivato all’atto, ma il fatto che non ci sei arrivato, questo non vuol dire che non hai fatto il peccato. Non è che è peccato solamente ciò che è pratico, e ciò che è pensiero non è peccato; attenzione! Io quando ho letto questo mi sono venuti i brividi e ho pensato che, effettivamente, non ho mai predicato su questa cosa perché la davo per scontata. Mai dare per scontato niente.

Poi questo ragazzo continua: «Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo in mezzo agli altri. Non avevo un vero dialogo con nessuno, era come se nessuno mi comprendesse».

Allora, qui ovviamente uno dice: ah, la colpa allora è di quelli che gli sono stati accanto, perché non sono stati capaci di accoglierlo. Un momento, pensiamo a noi: noi, nella nostra vita, possiamo avvertire dei momenti, più o meno grandi, più o meno profondi di solitudine, sì, va bene. E noi cosa facciamo per vincere questa solitudine? Scusate, ma gli altri, che vivono accanto a me, non hanno la sfera magica o la scrutatio cordis, per cui mi leggono nell’anima; capite? Non è così! Ma come fanno due genitori, santa pace, un papà e una mamma, a riuscire a capire che cosa c’è nella testa di un’adolescente? Ma io, quando ero adolescente, non ci capivo neanch’io cosa c’era nella mia testa, ma come facevo a pretendere che mio padre e mia madre leggessero dentro di me? Ma stiamo scherzando? Ma non ci capivo io, dovevano capirci loro? Cioè, questi poveri genitori, anche loro, ma cosa ci potevano fare? Perché vedete, la colpa è sempre dei genitori; calma, alle volte può essere anche che ci siano responsabilità dei genitori, va bene, ma guardate che spesse volte sono veramente famiglie normali, come questa famiglia. Cioè, famiglie come tutti le abbiamo avute, con un papà e una mamma normalissimi, con un fratellino. Peraltro, un fratellino di dodici anni, in questo caso. Scusami un momento: ma che comprensione della tua solitudine vuoi che abbia un fratellino di dodici anni, poverino? Anzi, è il tuo fratellino — io sono figlio unico, non ho avuto un fratellino — mi vien da dire: ringrazia Dio che hai avuto un fratellino; non è che eri proprio così solo! Perché, voglio dire, io allora cosa dovevo dire, che ero figlio unico? Cosa devono dire tutti quelli che sono figli unici? Con un fratellino, bene o male, ci litighi, ti prendi a botte, però, voglio dire, ci giochi insieme, ce l’hai lì vicino, c’è comunque una vicinanza.

Stiamo attenti — adesso parlo di noi, non sto parlando di lui — ad esempio, quando sentiamo la solitudine, a non essere noi la causa della nostra solitudine. Perché è facile piangerci addosso e fare le vittime. Io dico: “Mi sento solo”, bene, prendine atto e chiediti perché; comincia da lì: come mai mi sento solo? Sono solo veramente o è una mia percezione? Perché anche questo bisogna valutare: veramente sei solo, oppure ti senti solo, ma solo non lo sei? Veramente sei incompreso o tu ti senti incompreso? È diverso, eh! È molto diverso. “Non ho un vero dialogo con nessuno”; come mai? Perché non c’è nessuno che è capace di dialogare con te o perché tu hai delle fatiche, dei problemi, a dialogare con gli altri?

E allora a noi dico, a me per primo: tirati insieme, cerca di reagire, cerca di trovare dei luoghi, delle persone, per poter uscire da questa solitudine. Però voglio dire, un genitore non può vivere nel terrore. Non puoi fare un processo a tuo figlio, ogni secondo, per chiedergli: cosa c’è nella tua testa, dimmelo, perché io non so cosa può esserci dentro e magari dopo tu chissà che cosa fai. Ma non si può vivere così! È chiaro che uno vive normalmente la sua vita e se c’è un problema lo si affronta, però lo devi dire.

Quante volte succede anche a noi sacerdoti: “Ah, padre, io non mi sento guardato da lei”; ma figlio mio, ma un sacerdote ha a che fare con venti-trenta-quaranta-cinquanta-cento-cinquecento persone alla volta, ma come puoi pensare che abbia gli occhi puntati su tutti? Ma su! Se hai bisogno di più attenzioni, fatti avanti e diglielo.

Vedete quanto c’è bisogno di Dio! Noi diciamo: “Mi sento solo”. Innanzitutto vai davanti al Tabernacolo, è lì che si risolve la solitudine. Perché gli altri non te la possono risolvere, e questa è una prova. Quando manca Dio, quando manca un vero rapporto con Dio, la solitudine diventa insopportabile. Quando invece c’è un vero rapporto col Signore, allora vedete che le persone, paradossalmente, la cercano loro, la solitudine! Ed è quello che abbiamo visto nei santi.

E poi, riportando più o meno le parole degli investigatori: «La sua appare come una confessione autentica, ma è un racconto vuoto, desolante, davanti a tanto orrore». Lui non parla di bullismo, di sessualità, di problemi con le droghe. È come se tutto fosse racchiuso in quella sensazione che tanti adolescenti vivono ogni giorno: la difficoltà di sentirsi adulti, il disagio di trovare una propria strada. Ma è tutto troppo poco, infinitesimo, di fronte al massacro di un’intera famiglia.

Cioè, capite, c’è un gap: mi sento solo, non mi comprende nessuno, mi sento fuori dal mazzo, mi sento tutto quello che volete, però, capite, da qua ad ammazzare a coltellate mio fratello di dodici anni, mia madre e mio padre ne passa eh!

Capite quando abbiamo letto don Divo che parla di sale della terra e luce del mondo? E allora se mi sento solo, faccio fatica, sono fragile, sono debole, io da una parte dico: cerchiamo di tirarci insieme e di trovare una soluzione, almeno di alzare la mano e dire: “aiuto”. Dall’altra dico a noi tutti, a tutti gli altri: capite quanto bisogno c’è di punti di riferimento validi? Capite quanto bisogno c’è di cristiani autentici che siano sale della terra e luce del mondo? Capite quanto bisogno c’è di persone che siano vogliose e capaci di ascoltare l’altro? Disponibili?

Caso diverso, ma simile per certi versi, quello che è successo invece nell’altro paese, a Terno D’isola, nella bergamasca. Qui ovviamente l’assassino ha trent’anni, molto più adulto. Ma la motivazione forse è anche peggio, non so dire: prende questa ragazza a caso, per un capriccio. Ha provato prima con altri, poi ha trovato lei, era da sola e l’ha presa. E non c’è patologia psichiatrica, dicono.

A me, quello che ha colpito, è questa frase che lui dice: “Purtroppo è capitato, è passato un mese. Piangere non posso piangere, non ti puoi buttare giù, altrimenti non ti rialzi più”; ha detto rispondendo alle domande e sottolineando che in quello che ha fatto c’era anche una zona di comfort. E in più dice: “Ho voluto tenere il coltello per avere memoria di quello che avevo fatto, come un ricordo”.

E io qui dico, parlando di noi — parlo sempre di noi, tutte queste cose mi servono per noi, non sto facendo il processo a nessuno, perché non li conosco, e poi perché non tocca a me farlo; uso queste parole per riferirle a noi — purtroppo è capitato: quante volte noi diciamo (senza andarci a confessare o, peggio ancora, andiamo a confessarci e lo diciamo): “Eh, vabbè, è capitato, è successo. Piangere non posso. Cosa faccio, piango tutto il giorno? E poi non mi devo buttare giù, perché sennò non mi rialzo più”. Vi ricordate quando vi parlavo dei santi e vi dicevo che piangevano per i loro peccati? Vi ricordate quando vi parlavo di S. Luigi Gonzaga e vi dicevo che ha pianto tutta la vita, e sveniva ai piedi del confessore, quando ricordava quell’imperfezione che fece da bambino sulla polvere da sparo che andò a prendere ai soldati? Ma non ha fatto nessun peccato, ha fatto un gioco. Quando lui lo raccontava al confessore — che l’avrà confessato milioni di volte — dicono le cronache che S. Luigi Gonzaga sveniva! Si fustigava e piangeva per quel presunto peccato, che per lui era non so che cosa. E se pensiamo a S. Agostino? Quando uno va a leggere nelle Confessioni di S. Agostino questo peccato gravissimo che lui lamenta — così terribile che uno dice: adesso aspetta, vado a vedere che peccato ha fatto — e legge che S. Agostino ha mangiato i fichi, ha preso dei fichi da una pianta (cosa che noi facciamo sempre, passando per la strada, ci mangiamo i fichi senza chiedere il permesso a nessuno)… S. Agostino, ha preso tre fichi e ha scritto pagine su questo peccato gravissimo.

“È capitato, padre, è successo. Succede, siamo feriti, noi siamo fragili. Chi è che non è fragile? Siamo tutti peccatori. Chi è che è senza peccato? Ma poi, esiste ancora il peccato? I comandamenti di Dio esistono ancora? Piangere?! Non è che devo piangere, io mi devo rialzare!” — Uno dice: no, ma scusa, hai ammazzato una persona! — “Eh, vabbè, però, cioè, voglio dire, la vita va avanti. Anzi, c’è anche una zona di comfort, in tutto questo”. Ecco, non diciamo: “Ah, ecco: follie!”, perché poi ho letto tutto il resto dell’articolo dove parlano di follie, di fragilità della persona.

Guardate che queste frasi che vi ho letto, in confessionale o nell’incontro con le persone, a me e a qualunque sacerdote, capita di sentirle un giorno sì e l’altro pure; questa banalizzazione del male, il “Ma sì, vabbè, ma che peccati ho fatto? Ma che peccato vuole che sia? Non esageriamo, non dobbiamo stare lì a torturare le persone con chissà quale cosa. Vabbè, avrà fatto i suoi peccati, e quindi…”. Capite che padre Pio mandava via le persone? Vi ricordate quando vi dissi di quel pullman di trenta persone, mi sembra, che andò in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo da padre Pio a confessarsi? Di quei trenta, padre Pio ne assolse uno, tutti gli altri ventinove li mandò via senza assoluzione. Fate voi, oggi, una cosa del genere, vedete che cosa succede!

Dopo, però, quando succedono queste cose efferate, tutti che ci chiediamo: “Come mai? Perché? Uh, ma che scandalo! Eh, ma che cosa gravissima! Da dove viene? Da dove nasce? Eh, ma com’è possibile? Allora cosa dobbiamo fare?”. Sempre a piangere sul latte versato. Sì, ma ciò che sta prima? Come stiamo costruendo le persone, i giovani, affinché non vadano a fare delle cose del genere? Banalizzando il male, banalizzando il peccato. Ma guardate, oggi è anche difficile trovare un genitore che sgrida un figlio; non bisogna sgridare i figli. Andate a parlare con i professori a scuola o con le maestre: guai a sgridare un alunno, ti arriva una denuncia! Quando ero ragazzo io, ci sgridavano i professori, ci rimproveravano, ci mettevano anche dietro la lavagna. Un mio professore, a lezione, quando qualcuno si comportava male, gli faceva fare trenta flessioni. Falla tu adesso, una cosa del genere!

Anche perché, capite, oggi è sparito il castigo. Guai a parlare del castigo che può fare Dio. Dio che castiga? Assolutamente no! Guai a dire oggi che Dio possa castigare! Nonostante la Sacra Scrittura sia piena — Antico e Nuovo testamento — di questa opera, di questa modalità di Dio, che usa anche castighi. Senza parlare poi di quello che dice la Madonna a Fatima, eccetera eccetera eccetera, di quello che dicono i santi.

Ma oggi assolutamente parlare di castigo, no! E questo si riflette poi anche all’interno dello stile pedagogico. Quindi l’educatore non può castigare, guai a castigare, perché il metodo è sbagliato. E invece no, e invece no. Il castigo aiuta la persona a prendere in mano le responsabilità e quindi le conseguenze dei suoi atti. Funziona così. È funzionato così per tutti. Il castigo è parte dell’atto di amore di un papà, di una mamma, di un educatore verso l’educando, è parte dell’atto di amore di Dio verso la sua creatura. È sempre stato insegnato così, trovate pieni i libri dei santi, dei padri della Chiesa, e la Scrittura, di queste cose. Oggi no, oggi invece non è più così. Oggi, guai a parlare di castigo.

E allora io dico, vabbè, però allora non ci scandalizziamo se succedono certe cose e soprattutto se sentiamo certe espressioni! Poi certo, uno dice: sì, ma è tutto qua? La ricetta è solamente questa? No, ci sarà molto altro, per l’amor del cielo! Io vi ho dato alcuni spunti e soprattutto va sempre fatta salva la responsabilità del soggetto, “io che voglio”, perché alla fine sono io che compio quell’atto. “Ho bestemmiato perché mia moglie mi ha fatto arrabbiare”; no, hai bestemmiato perché tu hai voluto bestemmiare, non c’entra niente tua moglie. Attenzione! Stiamo attenti, perché sennò è come quello che dice: “Ho stuprato quella ragazza perché aveva la minigonna”; eh, no! No, la colpa non è nella ragazza, la colpa è in me, sono io responsabile dei miei atti. Perché, su cento persone che hanno visto quella ragazza, solo tu hai fatto quell’atto; quindi, vuol dire che c’è qualcosa in te che non funziona, non nella ragazza. Perché la colpa è sempre negli altri, sempre fuori di noi. E invece la responsabilità è di ciascuno di noi.

Quindi, un po’ con quello che ha detto don Divo, che di indicazioni ne ha date tante, un po’ con le quattro parole che vi ho detto, spero di poter avere dato qualche suggerimento, qualche indicazione, qualche pensiero, poi, se non è utile, lo buttate, non ha nessuna pretesa, sono delle suggestioni. Anch’io sto riflettendo su queste cose, anch’io ci sto pensando, non ho la soluzione in tasca, non ho la bacchetta magica. Di sicuro quello che colpisce sono queste frasi che vengono riportate, postume all’evento, all’accadimento dell’omicidio, che fanno pensare, che fanno riflettere molto; ma non sul colui che ha commesso l’atto, perché ormai l’atto è fatto, ma su di noi. Stiamo attenti, perché ciascuno di noi è esposto a qualunque tipo di male. Non banalizziamo mai il male e cerchiamo di essere responsabili di ogni atto.

Perdonatemi la lunghezza, oggi, ma data la serietà della questione e la delicatezza, ho dovuto cercare di spiegare il più possibile. E mi raccomando: una preghiera fervente al cielo per le vittime, per i familiari delle vittime, per coloro che sono rimasti qui. Preghiamo per loro. Preghiamo anche per le istituzioni, perché, anche per chi dovrà giudicare queste cose, non è semplice. E nel caso di questa ragazza di Terno D’isola, i familiari del colpevole dicevano che avevano segnalato più volte alle autorità la situazione grave di quest’uomo ma, dicono nell’articolo, che non sono state ascoltate. Vedete che c’è proprio una corresponsabilità nel male. Preghiamo per tutte queste famiglie, preghiamo per tutte queste persone implicate che, sicuramente, hanno una sofferenza enorme, in questo momento. Gli amici di queste famiglie… pensate agli amici, ai compagni di classe di questo bambino di dodici anni, gli amici della famiglia, i fratelli, le sorelle di queste persone. Un dolore senza confine, veramente, inconsolabile. E poi preghiamo anche per queste due persone che hanno commesso questi due terrificanti omicidi. Cioè, uno ne ha commessi tre: papà, mamma e fratello, l’altro ne ha commesso uno. Preghiamo, preghiamo per queste persone, perché anche per loro è doveroso pregare, perché si ravvedano, perché capiscano il loro male, perché riparino, perché espiino questo male, per quanto è possibile.

Credo che questo debba essere proprio il tempo di un grande silenzio, di una grande vicinanza; a chi conosce le famiglie delle persone coinvolte, stia loro vicino nel modo più discreto possibile. Non facciamo pettegolezzi; non mettiamoci a fare giudizi da bar, stupidi; non mettiamoci a fare i giudici, perché non tocca a noi fare i giudici. Tocca a noi invece leggere queste cose e dire: e io? E la mia vita? E la mia testimonianza? E il mio essere sale e il mio essere luce?

Impegniamoci perché, alle volte, basta la parola al momento giusto, la presenza al momento giusto, la testimonianza al momento giusto e, senza saperlo, potremmo evitare tragedie del genere. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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