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Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno pt.1 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.34

Mistica della riparazione

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno pt.1 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.34
Lunedì 9 settembre 2024

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Lc 6, 6-11)

Un sabato Gesù entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo.
Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo.
Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita.
Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.

Testo della meditazione

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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a lunedì 9 settembre 2024. 

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal sesto capitolo del Vangelo di san Luca, versetti 6-11.

Continuiamo la nostra lettura del testo di don Divo; iniziamo oggi un nuovo capitolo:

IL PECCATO DI TUTTI È IL PECCATO DI CIASCUNO

Ci si chiedeva: come osiamo e presumiamo riparare, se noi stessi siamo peccatori? Ma è proprio questo motivo invece che ci spinge di più alla riparazione ed esige da noi maggiore consapevolezza del nostro dovere. Nostro Signore si è fatto uomo per farsi solidale con noi, che eravamo peccatori. È il peccatore che ha offeso Dio e deve perciò, a causa dell’offesa arrecata, placare la divina giustizia e offrirne un riscatto.

Ora è vero che noi dobbiamo riparare prima di tutto per i nostri peccati; ma vi è un nostro peccato che non sia anche il peccato di tutti? O piuttosto non vi è un peccato di tutti che non sia anche il nostro peccato? Prima di essere solidali con tutti gli uomini per un puro movimento di amore, come Cristo, prima di essere solidali con l’uomo per un atto di libera elezione, siamo solidali col mondo peccatore perché noi stessi siamo peccatori, perché noi stessi siamo responsabili di tutto il peccato umano. Non siamo come Gesù: in Gesù la riparazione è un puro atto di misericordia, è veramente un puro, gratuito atto di amore. Egli ha voluto riparare per noi mentre poteva non riparare, perché nessuna responsabilità egli aveva del nostro peccato. Egli è disceso su questa terra, ha voluto assumere una carne mortale perché nel suo amore non ha sopportato che noi vivessimo lontani da lui, che noi dovessimo rimanere nel nostro peccato. Egli stesso lo ha assunto. Ma il nostro peccato non è in nessun modo il suo peccato; il nostro peccato potrà essere in qualche modo causa e ragione della sua pena, della sua Passione, ma solo perché Egli liberamente ha voluto farsi solidale con noi peccatori. Tuttavia la solidarietà del Cristo con noi peccatori non potrà consistere in altro che nell’assumere precisamente la pena del peccato; non potrebbe consistere mai nell’essere egli stesso veramente responsabile del peccato. L’unità fra noi e Cristo si stabilisce soltanto nella sua riparazione, mentre l’unità nostra con tutti gli uomini non si stabilisce soltanto con la nostra riparazione, ma sussiste anche senza la nostra volontà di riparare, perché questa solidarietà è nel peccato medesimo.

Il peccato di tutti è il peccato di ciascuno. È questa una delle verità che si dimenticano più facilmente. Come siamo portati dal nostro egoismo a sentirci separati dagli altri nel tendere verso la perfezione, così ci sentiamo separati dagli altri nella responsabilità del peccato umano. Chi di noi, quando si confessa, accusa i peccati degli altri come suoi propri? Chi accusa i peccati non conosciuti, i peccati che l’anima non ha avvertito di commettere, ma dei quali tuttavia in qualche modo, per qualche ragione, essa porta una responsabilità personale? «Ab occultis meis munda me, Domine; et ab alienis parce servo tuo». Perdona noi dei peccati degli altri. Se accusiamo i peccati degli altri, li accusiamo come peccati degli altri, non come peccati nostri, eppure i peccati di tutti sono veramente i nostri peccati. Noi stessi portiamo la responsabilità del peccato universale, non ne portiamo soltanto il peso e il castigo per una libera volontà di amore. Volendo pagare per i nostri fratelli, di fatto paghiamo per noi stessi. Ognuno porta il peso di una responsabilità universale. Non solo perché tutti gli uomini sono peccatori, ma perché siamo cristiani. Non si commette peccato che, in qualche modo, non abbia in noi il suo principio e la sua sorgente, il suo fondamento remoto.

Fermiamoci qua. Alcune cose già le abbiamo dette; don Divo dice: «non vi è un peccato di tutti che non sia anche il nostro peccato … siamo solidali col mondo peccatore perché noi stessi siamo peccatori … Non siamo come Gesù: in Gesù la riparazione è un puro atto di misericordia, è veramente un puro, gratuito atto di amore», che lui poteva non fare, perché Gesù non condivide il nostro stato di peccatori. 

L’unità fra noi e Gesù si stabilisce soltanto nella sua riparazione, mentre l’unità nostra con tutti gli uomini non si stabilisce soltanto con la nostra riparazione, ma si stabilisce anche nell’essere peccatori; capite? E sussiste anche senza che ci sia la nostra volontà perché questa solidarietà è nel peccato stesso, quindi: «il peccato di tutti è il peccato di ciascuno». E don Divo dice che questa è una verità tra le più dimenticate.

Poi don Divo mette lì una frase che rischia di passare un po’ inosservata; io, su questo, mi vorrei fermare. 

Don Divo dice che siamo portati, dal nostro egoismo, a sentirci separati dagli altri nel tendere verso la perfezione. 

Guardate, questa cosa, che don Divo lancia lì con una frase, così, come se fosse ovvia a tutti, in realtà non so per quanti è ovvia. Nel nostro cammino di perfezione stiamo attenti al nostro egoismo, perché c’è un egoismo anche nel cammino della perfezione, che è un tranello terribile del nemico. Come facciamo a capire se noi siamo egoisti nel nostro cammino di perfezione? Noi lo capiamo dal fatto che ci separiamo dagli altri, cioè: ognuno fa a modo suo, ognuno va per la sua strada, ognuno si sente l’autore di sé stesso, non sente il bisogno degli altri. Noi dobbiamo sentire la responsabilità degli altri, è una responsabilità grave!

Vi faccio un esempio: ero giovane sacerdote e, quando andavo confessarmi dal mio padre spirituale, mi colpiva un fatto: vedevo sempre arrivare un ragazzo, tutti i giorni, con un sacchettino. Siccome ero un po’ curioso, mi chiedevo: ma chissà cosa porta in quel sacchettino, questo ragazzo (poi lo ho conosciuto). Tutti i giorni arrivava con questo sacchettino in mano e si capiva che poi andava a lavorare o a studiare. E, quando usciva dal confessionale, il sacchettino non c’era più; e dicevo tra me: ma dove va a finire questo sacchettino? Allora un giorno ho preso coraggio e l’ho chiesto al confessore, ho detto: “Senti, ma toglimi una curiosità, se è possibile, se non è una domanda indiscreta, ma sono troppo curioso; ma cos’ha nel sacchettino questo ragazzo tutte le volte che entra in confessionale? Perché viene sempre con un sacchettino?”. Io non credo che voi possiate immaginare cosa c’era dentro questo sacchettino, o almeno magari qualcuno sì. Questo ragazzo tutti i giorni che andava a trovare questo sacerdote — andava tutti i giorni perché io lo trovavo nei giorni in cui andavo a confessarmi però, se cambiavo giorno, lo trovavo anche in quel giorno lì, quindi mi è venuto il sospetto che andasse tutti i giorni. Non andava a confessarsi tutti i giorni, però passava, entrava, faceva quel che doveva fare e poi andava per la sua strada. Ebbene, questo ragazzo gli portava la colazione, gli portava da mangiare. Non è che gli portasse chissà che cosa, ma gli portava quelle due o tre cose che lui assumeva. Era un sacerdote anziano, e il tipo di ritmo che lui aveva, praticamente lo faceva scendere in chiesa al mattino prestissimo, poi c’era la preghiera corale, poi c’era la Messa; quindi, lui arrivava poi al confessionale alle nove, però si era alzato tipo alle sei del mattino e non faceva colazione; quindi, arrivava alle nove che era a digiuno e doveva stare lì fino a mezzogiorno. Questo ragazzo l’aveva capito e da solo ha avuto questa intuizione di fargli questa carità. Mi ha colpito questa cosa, perché ho detto: a chi di noi è venuto in mente che dall’altra parte c’è un essere umano che, come te, ha dei bisogni?

Mi ha veramente molto colpito questa cosa, che qualcuno si è accorto e ha avuto la delicatezza, l’attenzione “di”. Ed effettivamente il sacerdote aveva bisogno, perché mi diceva: “Guarda, padre Giorgio, mi fa veramente un grande atto di carità, perché capita delle volte che io esco quasi a mezzogiorno e un po’ mi gira la testa, faccio fatica”. Insomma, era un uomo di settanta e rotti anni, si può anche comprendere, no? Poi magari ci sono i soliti puritani che dicono: “Ah, ma quel ragazzo gli portava qualcosa mangiare in confessionale…”

Quindi, questo sentirci separati dagli altri ci fa vivere un po’ come delle noci cadute da un albero; ognuno cade dove cade, ma così, sganciati, quando tra noi, invece, dovremmo sentire l’unità, sentire il peso dell’altro. Io ho la sensazione che invece noi, di pesi, non ne vogliamo e, appena possiamo, scarichiamo. Veramente io ho un po’ questa sensazione qua, e questo perché ci dà fastidio. 

E poi, non ci immedesimiamo nell’altro, facciamo fatica a immedesimarci nell’altra persona. 

Per spiegarvi: quando andavo in carcere — avevo appena iniziato il mio servizio, avevo, mi sembra, sui ventuno-ventidue anni — mi ricordo che mi facevano entrare sotto sorveglianza, accompagnato dagli altri assistenti, perché ero troppo giovane, giovanissimo — la prima cosa che mi dissero è stata: “Mi raccomando, mi raccomando, Giorgio (perché ero un laico), ricordati bene: non devi farti coinvolgere, rimani sempre staccato e quando esci dal carcere togliti i panni dell’assistente che viene qui, vai a casa e lascia i carcerati qui in carcere e tu vai avanti per la tua strada della tua vita. Non farti coinvolgere, non portare fuori le cose di dentro”. Io ho detto: “Sì”.

Ho sempre detto sì a queste cose, ma poi non ci sono mai riuscito; mai! Non ce l’ho mai fatta, non so cosa dirvi, non ce l’ho fatta. E, col passare degli anni, peggio era. Cioè, all’inizio magari un pochino, col passare del tempo … con l’aumento delle responsabilità, col fatto che poi non avevo più compiti piccoli, ma tornato da frate poi mi sono ritrovato a dover gestire, da solo, tutto il centro clinico del carcere — immaginatevi! — più dover gestire tutta la parte religiosa, perché dovevo farla tutta io, da solo, perché il cappellano con i seminaristi erano da tutt’altra parte, facevano tutt’altra cosa. Io, per sei anni, ho avuto il compito di dedicarmi al centro clinico, ai malati psichiatrici e poi al sesto raggio, secondo piano, dove, a quel tempo, c’erano “gli infami”. Questo era il mio compito: il sabato dall’una e mezza alle sette e mezza, e la domenica dall’una e mezza alle sette e mezza. Quindi: fare la catechesi, preparare la confessione, incontrarli, fare i colloqui, tutte queste cose.

Ma io me li portavo a casa, poi! Come facevo a dire: ah sì, va bene, okay, adesso io vado, arrivederci, saluti e baci, lascio il mio quaderno dentro nello zaino e lo riapro tra una settimana; ma come si fa? Ma sono esseri umani, sono persone! “Eh sì, però hanno sbagliato”; ma cosa importa! Cosa mi interessa se hanno sbagliato? Ma cosa vuoi che ne sappia io del perché, del per come, del per quando, e io cosa avrei fatto al loro posto? Ma non mi interessa che abbiano sbagliato. Va bene, han sbagliato, anche io sbaglio, anche io faccio le mie stupidaggini. Però non è che uno deve essere scaricato sul ciglio di una strada perché…

E poi mi dicevo: ma questo dolore chi è che lo raccoglie? Ma sapete cosa vuol dire vedere uomini di sessant’anni, di settant’anni, piangere davanti a un ragazzo di venti — che sono lì col biberon in bocca che mi ciuccio ancora il latte? — Sì, va bene, ero frate, avevo l’abito, avevo un ruolo, un’autorevolezza, tutto quello che volete, va bene, però, voglio dire, avevo sempre vent’anni! Questi ne avevano sessanta. Persone malate, sofferenti, col catetere, appena operate. Perché in carcere, almeno a quel tempo, si operava; non interventi di cardiochirurgia, però interventi al setto nasale, alle tonsille, interventi di ortopedia, interventi addominali… facevano interventi di chirurgia anche importanti. Quindi, come faccio io andare a casa e dire: chi se ne importa; oppure dire: sì, vabbè, io devo essere distaccato e lascio tutto lì. Io non ci sono mai riuscito.

Quindi, andavo a casa e mi portavo il lavoro anche a casa; che voleva dire: contattare le famiglie, contattare i centri educativi, contattare gli assistenti sociali, contattare gli educatori, contattare gli psicologi, contattare il cappellano, parlare di questo, di quello, di quell’altro. Era un lavoro in presa diretta il sabato e la domenica, poi, a casa, nei ritagli di tempo dell’università, facevo questa cosa; perché non puoi dire: no, non mi interessa, quando qualcuno ti chiede: “Può chiamare la mia famiglia? Può avvisarli e dirgli che vengo operato?” — “Può farmi questa cortesia…”. Non dovevo riferire chissà quali messaggi, ma dire: “Guardi, suo marito sta bene, l’ho visto. Mi sembra che sia sereno”. Per una famiglia questo cosa vuol dire? Tu hai un figlio in carcere, in galera, non sai niente, sai poco; avere un frate, un sacerdote che ti chiama, che ti dice: guardi, signora, stia tranquilla, l’ho visto bene, mi sembra che si stia adattando, sta facendo un buon cammino.

Ecco, io credo che dobbiamo interpellarci. Su questa frase di don Divo io mi sento molto chiamato in causa e ho veramente paura di questo egoismo. Mi fa paura, perché è una tentazione potente: pensare ognuno a sé stesso, andare avanti per la propria strada e sentirci separati; non solo separati dal peccato degli altri che, di fatto, è anche il nostro peccato, ma sentirmi separato anche nel cammino di verità, nel cammino della bontà, nel cammino dell’amore per il Signore, e quindi, se c’è, c’è, se non c’è, che cosa mi interessa?

E poi, se quella persona sta male… come faccio ad andare a letto la sera sereno, se quella persona sta male e io lo so, e non mi interesso per aiutare quella persona. E facciamocele, queste domande, santa pazienza! Come se le è fatte quel ragazzo con il sacerdote! “Se quello arriva a pregare che sono le sette, e arriva in confessionale poi alle nove e resta qua fino a mezzogiorno, quand’è che beve?”. Banalmente gli portava da bere! Che poi uno dice: mah, chissà che colazione gli portava, le brioches! Ma no, gli portava quattro noci, ma cosa credete, ma per favore! Gli portava quattro noci, gli portava un arancio, come in carcere. Gli portava quattro noci, un arancio o un pochino di acqua da bere, non è che gli portasse ricchi premi e cotillon! Cosa volete che mangiasse? Veramente, mangiava due noci; era magrissimo.

Quindi, questa responsabilità personale nel bene e nel male; non solo nel male, anche nel bene. E imparare anche a farci presenti agli altri, sentire proprio questa cosa qua. Io sento che, tante volte, mi sfuggono proprio queste delicatezze, queste attenzioni; magari mi vengono in mente dopo, durante la preghiera, che dico: ma, santa pace, quella persona là ti aveva detto che non stava bene, ma perché non l’hai chiamata? Perché non ti sei fatto vivo? Perché ti sei dimenticato? E va bene, allora mettiamoci un promemoria, ripariamo, facciamolo dopo, rifacciamoci vivi in un altro momento! Non lo so…

Ecco, a me sembra che questa cosa qui abbia proprio bisogno, da parte nostra, di essere segnata e tenuta molto presente. 

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

 

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