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Gesù ci insegna ad avere cura degli altri

G. Conti - La parabola del Buon Samaritano

Omelia

Pubblichiamo l’audio di un’omelia sulle letture di domenica 10 luglio 2016 (S. Messa del giorno).

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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Testo della meditazione

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Gesù ci insegna ad avere cura degli altri

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia lodato!

Nel Vangelo di questa domenica, al capitolo 10 del Vangelo di San Luca, il Signore ci insegna che cosa vuol dire avere cura del nostro prossimo. Tutte le persone che ci passano accanto sono il nostro prossimo, che non è sufficiente vedere; noi vediamo tante cose, noi vediamo tante persone, tante situazioni, ma purtroppo non ne abbiamo cura, perché non ne abbiamo compassione. Non proviamo compassione sufficiente per il dolore che ci circonda, perché abbiamo occhi solo per il nostro star male.

A questo mondo ci siamo solamente noi spesse volte, noi con la nostra sofferenza, i nostri problemi, le nostre croci, vere, ma non uniche, vere, ma non assolute, vere, ma non esclusive; ci sono tante altre sofferenze, tanti altri Calvari, tanti altri Cristi in croce, che chiedono attenzione.

Allora Gesù conia per tutti noi questa bellissima parabola del Samaritano buono.

Innanzitutto, vediamo la situazione grave di questo sventurato, di questo povero uomo, che cade nelle mani dei briganti, cioè subisce una violenza, subisce un torto gravissimo. Lo percuotono, lo pestano a sangue e lo lasciano moribondo per la strada, una cosa terribile, di una crudeltà inverosimile.

Sono stati crudeli questi briganti, ma non sono stati meno crudeli il sacerdote e il levita che passano, perché ci vuole un uomo senza cuore, neanche con un cuore duro, devi proprio essere senza cuore, per passare accanto ad una situazione del genere, vedere, ed andare oltre.

Gesù nel Vangelo lo dice bene: «Lo videro, ma passarono oltre».

Vedono, ma preferiscono fare finta di non avere visto, non si fanno carico di questa sofferenza, non pensano al fatto che potrebbero essere loro al suo posto e non avere nessuno che si accosta.

Questo samaritano era un pagano, un senza Dio, non era un uomo religioso, non aveva la pratica religiosa come il popolo ebraico; era in viaggio, non passava di là, ma proprio era in viaggio, aveva una meta, stava andando in qualche posto, lo vede, gli passa accanto, e prova compassione.

Questa compassione è l’origine di tutto ciò che verrà dopo: avere pietà.

Gli si fa vicino… crea una relazione, abbandona il suo viaggio per un momento, i suoi affari, i suoi interessi, il suo scopo; gli si fa vicino, gli fascia le ferite.

Il Signore ci insegna cosa vuol dire avere cura: avere cura non vuol dire fare tutto velocemente “frin frun fran”, avere cura non vuol dire biascicare: «Oh.. poverino… come mi dispiace… Pregherò per te».

Cosa mi interessa?

Cosa mi interessa questa retorica bigotta?

«Oh… pregherò per te».

Ma lascia stare! In questo momento, io ho bisogno di altro.

San Camillo de Lellis lo diceva molto bene: «Prima bisogna curare il corpo».

Se hai davanti un lebbroso che si sta disfacendo in mille pezzi di carne, tu non gli puoi dire: «Oh… poverino… Io pregherò per te».

Innanzitutto, devi curarlo, devi prenderti cura di lui.

Questo samaritano non gli fa le omelie: «Ecco… perché sei andato? Cosa è successo? Raccontami». Non è curioso come le scimmie, come siamo noi spesse volte, che vogliamo sapere, indagare nella vita degli altri il perché, il come e per quanto.

È per terra, moribondo, ferito, picchiato, basta; questo è tutto quello che io devo sapere.

Gli si fa accanto, fascia le ferite e gli versa sopra olio e vino.

Perché olio e vino?

Vedete, il Signore ci insegna proprio questa cura, cosa vuol dire avere cura.

L’olio serve per ammorbidire, l’olio serve per ungere.

Quando voi avete le mani screpolate, o avete le setole sulle dita e la pelle tira, adesso ci sono le creme, ma una volta non c’erano tutte le creme che ci sono adesso, una volta c’era l’olio. La pratica era di mettere sopra l’olio, una goccia di olio, perché l’olio ammorbidisce, distende, elasticizza la pelle; l’olio è come se fosse un po’ una sorta di anestetico, di conforto che viene dato alla ferita, perché la ferita si ammorbidisce.

E il vino… perché il vino?

Perché il vino disinfetta la ferita e noi abbiamo bisogno che le nostre ferite vengano disinfettate. Fa male disinfettare le ferite.

Allora possiamo dire che versa l’olio della cura, della carità, si prende cura di lui, lo ama, ma usa anche il vino della verità.

Abbiamo bisogno di verità per curare le nostre ferite, abbiamo bisogno di avere accanto persone vere.

Poi, lo affida ad un albergatore e paga lui, di tasca sua, non fa pagare agli altri; non si mette a fare le crociate della carità e poi le mette sulla schiena degli altri, fa lui, intesse lui anche la relazione con l’albergatore, pensa lui a tutto, e lo lascia lì e va.

Voler bene a qualcuno, prendersi cura di qualcuno, vuol dire fare in modo che questa cura sia fatta dalla a alla zeta, fino in fondo, vuol dire prendersi a carico la situazione grave di quella persona e di quello che sta vivendo quella persona. È difficile eh…

Capite che è molto più facile prendere un panino, tagliarlo a metà e metterci dentro la bologna, darlo da mangiare e dire “arrivederci”, o dare il soldino e poi dire “ti saluto”, che non conoscere il nome, che non intessere una relazione con questa persona, che non chiedersi che cosa sta nel cuore di questa persona.

Quando ero un po’ più giovane di adesso, mi era capitato di conoscere un ragazzo che veniva da un paese estero e che chiedeva ospitalità. Era agosto.

Aveva fame, aveva bisogno, allora avevo preparato un po’ di pane e qualcos’altro.

Nel farlo entrare, non so perché, gli ho messo una mano sulla spalla e gli ho detto: «Forza!»

Come l’ho toccato sulla spalla, ha fatto un sussulto, e io ho detto: «Come mai?»

Lui: «No, no, niente, niente, niente».

«Ma perché? Hai male alla schiena?»

«No, no, non ho niente, non ho niente, non ho niente».

Io gli dico: «Allora te la rimetto ancora».

Lui: «No, no, non ho niente, non ho niente».

Allora gli ho detto: «Senti, vieni con me, andiamo un attimo in saletta, intanto ti preparano i panini»

Siamo andati in saletta e io gli ho detto: «Per favore, tira via la maglia, tirala su».

«No, no, non voglio tirarla su».

«No, no, tira su quella maglia, fammi vedere cosa sta sotto la maglia».

Dopo un po’, finalmente si convince… ho dovuto aiutarlo a togliere la maglia, perché non riusciva neanche a togliersi la maglia.

Aveva la schiena piena di frustate… piena di frustate…

Io non avevo mai visto un uomo fustigato, mai, non mi era mai successo, era la prima volta che vedevo un uomo fustigato.

Mi sono detto: «Ma come fa questo a camminare?»

Infatti, aveva la febbre, stava male, abbiamo dovuto chiamare il medico.

Io mi sono detto: «Ma tu, quando l’hai incontrato, chi hai incontrato?»

Se io non avessi messo la mano sulla schiena, io non mi sarei mai accorto che era stato fustigato. Io ho incontrato un bisogno, non ho incontrato una persona.

Ognuno di noi porta dentro di sé un mondo, ma a noi non interessa, a noi non interessa cosa sta dentro a quel mondo.

Ecco perché Papa Francesco costantemente, tante volte, ci richiama sulla gravità delle mormorazioni, dello spettegolare, del parlare alle spalle, dell’andare da Tizio, da Caio e da Sempronio.

Oggi ne abbiamo 10, è il 10 di luglio, ricordatevi questa data, perché potrebbe essere che tra un po’ di tempo vi richiamerò a questa omelia, magari tra un po’ vi dirò: «Vi ricordate quell’omelia che vi feci il 10 luglio?»

Noi dobbiamo stare attenti, dobbiamo stare molto attenti a come ci comportiamo, perché questo sacerdote e questo levita, che passano e vanno oltre, non lasciano la loro anima così come era prima.

Quando io passo accanto alla vita delle persone, all’esperienza delle persone, e non mi curo di questa vita, mi metto a giudicare questa vita, mi metto a mormorare o calunniare o spettegolare dietro alla vita di una persona, poi io divento responsabile di quello che succederà, divento responsabile delle conseguenze di quel fatto.

Ecco perché il Papa dice che queste sono tutte opere del diavolo, perché il primo atto di cura che noi dobbiamo avere uno con l’altro, il primo gesto da buon samaritano che dobbiamo fare, è la schiettezza, è l’amore per la verità, che vuol dire l’amore per Gesù; è il dire con chiarezza quello che pensiamo, nella carità, ma con chiarezza.

Invece noi cosa facciamo?

Noi aspettiamo che Tizio vada, poi nei crocicchi angusti, bui e segreti, inoculiamo e spargiamo veleno. Dopo, non lamentiamoci se questo veleno produce delle conseguenze; dopo, non facciamo le vergini piangenti che dicono: «Ah.. ma io non sapevo. Ah… ma io non volevo. Ah… ma io non credevo, ma io qui, ma io lì…»

Dopo, chi semina vento, raccoglie tempesta. Questo accade sempre nella vita, perché, chi si comporta così, non solo manifesta di non avere cura delle persone, manifesta di essere vigliacco, perché, come Giuda, vende il prossimo per un compenso.

Se le nostre idee fossero vere, noi dovremmo portarle avanti fino al sangue, non dovremmo avere nessun timore di dire la verità, di dire quello che ci sembra essere vero, con tanta umiltà, ma nello stesso tempo con tanta schiettezza.

Ecco perché il Signore nel Vangelo dice che, la prima cosa di caritatevole che possiamo fare verso qualcuno, è andare dal fratello a dire la nostra fatica o il nostro dissenso.

Lo dice anche San Tommaso D’Aquino: «È peccato se io non mi rivolgo direttamente al fratello a dire il pensiero mio, che mi sta nel cuore, e vado a dirlo ad altri (lui parlava dei chierici) e vado a riferirlo al suo Superiore».

È sbagliato, perché prima devi dirlo a lui, prima devi andare dalla persona a dire quella cosa.

Io questa cosa di San Tommaso non l’avevo mai studiata, l’ho scoperta perché una volta mi è successo di andare da un confratello a dire: «Guarda, a me questa cosa qui non convince mica troppo, non la capisco bene… perché fai così?»

E lui mi ha risposto: «Grazie, Giorgio, che me lo hai detto, perché forse non lo sai (era vero che io non lo sapevo) che San Tommaso dice proprio così. Se tu avessi fatto in un altro modo, avresti fatto peccato».

Io ho detto: «Guarda, ho imparato una cosa nuova».

Sempre, prima così. Perché?

Perché questo dice la cura, questo dice che io mi assumo la mia responsabilità delle mie idee, che le porto avanti fino in fondo e che accetto anche il confronto con le persone. Questo è fondamentale.

Se noi non siamo così, noi non potremo mai accorgerci di chi abbiamo accanto ed avere compassione, perché abbiamo a cuore solamente noi stessi, solamente il nostro quieto vivere, solamente non avere problemi, solamente lo stare quieti in modo tale che non succeda niente, solamente la falsa pace, e solamente la vigliaccheria.

Anche in famiglia, impariamo a dire le cose chiare, non parliamo male di chi è assente, non parliamo male del figlio, del papà, della mamma, che non ci sono.

Perché dobbiamo fare queste cose?

Aspettiamo quando c’è e diciamo il nostro pensiero. Tutti vorremmo essere trattati così, tutti vorremmo che le persone ci dicessero e ci chiedessero le cose in faccia.

Perché dobbiamo andare a dirle di schiena?

Questo non è il comportamento di un samaritano buono, questo non è il comportamento di un Cristiano buono!

Certo, è difficile, di sicuro.

Innanzitutto, perché devi pregarci sopra; poi, perché devi misurare le parole, perché ogni cosa che dici deve essere almeno un po’ comprovata, non puoi parlare a vanvera; e poi si deve sentire che tu gli vuoi bene.

Perché ci diciamo le cose?

Le diciamo per testimoniare l’amore che abbiamo nel cuore o le diciamo per fare del male?

Allora capite che il quorum, di coloro che coraggiosamente vivono come il buon samaritano, diminuisce sempre di più.

Facciamo finta di essere Chiesa, facciamo finta di volerci bene, ma in realtà non è vero, perché poi non dimostriamo cura.

Che il Signore, in questa Santa Messa, ci conceda la grazia di avere nel cuore un vero desiderio di essere come il buon samaritano e di voler fare come ha fatto lui.

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia Lodato!

Letture del giorno

Prima lettura

Dt 30,10-14
Questa parola è molto vicina a te, perché tu la metta in pratica.

Mosè parlò al popolo dicendo:
«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

Salmo responsoriale

Sal 18

I precetti del Signore fanno gioire il cuore.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

Seconda lettura

Col 1,15-20
Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.

Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose
e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,
primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio
che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.

Canto al Vangelo (Gv 6,63.68)

Alleluia, alleluia.
Le tue parole, Signore, sono spirito e vita;
tu hai parole di vita eterna.
Alleluia.

Vangelo

Lc 10,25-37
Chi è il mio prossimo?

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

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