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D. Bonhoeffer, Sequela. Parte 21

Falò sulla spiaggia

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: D. Bonhoeffer, Sequela. Parte 21
Domenica 27 agosto 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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SECONDA LETTURA (Rm 11, 33-36)

O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Testo della meditazione

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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a domenica 27 agosto 2023. Oggi festeggiamo Santa Monica, madre di Sant’Agostino.

Abbiamo ascoltato la Seconda Lettura della Santa Messa di oggi, tratta dal capitolo undicesimo della Lettera di san Paolo apostolo ai Romani, versetti 33- 36.

Proseguiamo la nostra lettura del libro Sequela di Bonhoeffer.

Oggi forse sentiremo un linguaggio, un discorso un po’ più difficile del solito, però cerchiamo di seguirlo e poi lo spiegheremo un po’.

Scrive Bonhoeffer:

Se si elimina in linea di principio la semplice ubbidienza, si introduce un principio scritturistico che non è evangelico. Presupposizione per la comprensione della Scrittura diventa allora il possesso di una chiave interpretativa. Ma quest’ultima non è qui lo stesso Cristo vivente, nel giudizio e nella grazia, così come la possibilità di usarla non dipende più solo dalla volontà dello Spirito santo vivente, ma chiave della Scrittura diventa una dottrina universale della grazia, la cui possibilità di applicazione è nelle nostre mani. Il problema della sequela mostra qui di essere anche un problema ermeneutico. — cioè, vuol dire d’interpretazione — Per un’ermeneutica evangelica deve esser chiaro che non si tratta di identificarsi senz’altro con quanti sono stati chiamati da Gesù; anzi, questi chiamati di cui parla la Scrittura appartengono anch’essi alla parola di Dio e quindi all’annuncio. Nella predicazione non ascoltiamo solo la risposta di Gesù alla domanda di un discepolo, che potrebbe essere anche la nostra, ma la domanda e la risposta insieme, come tali, sono, in quanto parola della Scrittura, oggetto dell’annuncio. Dal punto di vista ermeneutico sarebbe dunque un fraintendimento della semplice ubbidienza se noi volessimo agire e porci nella sequela come se ci trovassimo in una contemporaneità diretta con i chiamati di cui parla la Scrittura. Ma il Cristo che ci viene annunciato nella Scrittura, attraverso la sua parola, in ogni sua parte, si presenta come il Cristo che dà la fede solo a chi ubbidisce e solo a chi ubbidisce dà la fede. Non possiamo né dobbiamo risalire al di là della parola della Scrittura fino ai fatti reali, ma siamo chiamati alla sequela nella sottomissione ad essa nel suo complesso, proprio perché non vogliamo far violenza in modo legalistico alla Scrittura stessa attraverso l’applicazione di un principio, si trattasse pure di una dottrina della grazia. 

Resta dunque confermato che l’interpretazione paradossale del comandamento di Gesù include l’interpretazione semplice, proprio perché il nostro obiettivo non è istituire una legge, ma annunciare Cristo. Diventa dunque praticamente superfluo aggiungere parole circa il sospetto che con questa semplice ubbidienza si intenda parlare di un qualche merito dell’uomo, di un facere quod in se est, di una precondizione da adempiere per la fede. L’ubbidienza alla chiamata di Gesù non è mai un agire dell’uomo deciso per propria iniziativa. Neppure la rinuncia ai beni, ad esempio, rappresenta dunque, presa in sé, l’ubbidienza richiesta; addirittura potrebbe darsi che proprio compiendo questo passo non si ubbidisca a Gesù, ma si affermi liberamente un proprio stile di vita, un ideale cristiano, un ideale di povertà francescano. Potrebbe darsi dunque che un uomo, proprio nella rinuncia ai propri beni, voglia affermare sé stesso e un proprio ideale, ma non il comandamento di Gesù; potrebbe darsi che non si liberi da sé, ma diventi ancora più profondamente schiavo di sé stesso. Il passo che porta alla situazione non è certo un’offerta che l’uomo fa a Gesù — alla situazione intesa come la situazione nella quale, decidendo perché obbedisco, poi posso trovare la fede, posso vivere la fede — ma sempre l’offerta di grazia che Gesù fa all’uomo. Solo dove viene compiuto in questo modo, questo passo è legittimo, ma allora non si tratta più affatto di una libera possibilità umana.

Allora, mi rendo conto che, per chi non è addetto ai lavori, questo passo che vi ho letto presenta delle difficoltà. Non potrò affrontare tutte le possibili difficoltà, mi concentrerò su qualcosina.

Il principio della semplice obbedienza va sempre mantenuto, l’abbiamo già visto anche ieri, e Bonhoeffer dice che noi non siamo chiamati a identificarci con i “personaggi” del Vangelo — abbiamo visto il giovane ricco, per esempio, ma non solo — perché anche loro appartengono alla parola di Dio, quindi, fanno parte dell’annuncio anche loro. E noi nella predicazione non ascoltiamo solo la risposta di Gesù alla domanda, che uno dice: “Quella è anche la mia domanda”, sì, però nella predicazione di fatto noi ascoltiamo la domanda e la risposta insieme, sono sempre insieme. E sempre insieme fanno parte dell’annuncio: domanda e risposta. E quindi noi dobbiamo uscire da questa idea di una sorta di contemporaneità diretta con coloro che sono chiamati di cui parla la Scrittura.

Quindi, il Cristo che viene annunciato nella Scrittura attraverso la sua parola, si presenta come colui che dà la fede solo a chi obbedisce, solo a chi fa quel passo. Ricordate Pietro? “Vieni”: ecco che lui fa il passo, esce dalla barca, comincia a camminare sull’acqua; “vieni”, e infatti cammina; poi la fede comincia a vacillare e lui comincia ad affondare.

L’interpretazione paradossale resta sempre unita all’interpretazione semplice (che cosa sia l’interpretazione paradossale lo potete risentire e capire ancora meglio se andate ad ascoltare la meditazione di ieri) e l’obbedienza non è mai una prima iniziativa dell’uomo, altrimenti non sarebbe obbedienza. Obbedienza a chi, a cosa? 

Neppure la rinuncia ai beni, per esempio, oppure la scelta della povertà, di per sé, rappresenta l’obbedienza. Uno potrebbe dire: “Ho rinunciato a tutto, quindi sto obbedendo”. No! Dipende, perché potrebbe essere invece semplicemente l’affermazione di un proprio stile di vita, di un’ideale, di un affermare sé stesso, ma non per forza il comandamento di Gesù. E quindi, invece di liberarmi da me stesso attraverso la povertà, divento ancora più schiavo. Ci sono situazioni di una sorta di ideale pauperistico dove si fa un assoluto di alcuni passi, per esempio, del Vangelo: uno di questi è quello della povertà.

Ma Bonhoeffer dice: stai attento — stiamo attenti — perché potresti liberarti di tutti i tuoi beni ed essere l’uomo più ricco del mondo, perché stai semplicemente affermando te stesso, il tuo ideale, e sei schiavo di te. 

Una caratteristica che fa capire subito quando ci troviamo in questo grave fraintendimento è il perdere la carità. Quando ciò che stiamo facendo è risposta al proprio ideale, è affermazione di sé, del proprio stile di vita e della propria idea, del proprio gusto, la prima cosa che si vede è che si perde la carità, cioè non si è più capaci di ascolto, di accoglienza, di comprensione verso l’altro, ma si vuole imporre in modo ideologico questo ideale, questo stile di vita, questa sensibilità e si inizia la guerra: si iniziano vere e proprie polemiche, vere e proprie guerre, vere e proprie opposizioni. 

Ma Bonhoeffer dice che il passo che porta alla situazione, cioè a dove poi io vivrò il momento della fede, non viene dall’uomo: non è l’uomo che lo decide, mai! È sempre la risposta a un comando di Gesù; è sempre l’offerta di grazia che fa Gesù. Non si tratta mai di una libera possibilità umana: se la decidi tu è il segno che non viene da Dio, quindi c’è l’affermazione di te. 

Allora, perché San Francesco fa la scelta della povertà? Non perché vuole realizzare un suo stile di vita, un suo ideale, ma perché sta rispondendo a un comandamento di Gesù, a una chiamata. Fare quindi della povertà un assoluto vuol dire fraintendere il Vangelo; anche se la povertà fa parte del messaggio evangelico, ma non è di per sé stessa il messaggio evangelico. Perché il messaggio evangelico chi è? È Gesù. Quindi il centro è sempre Gesù. La ragione che porta a vivere una certa situazione — dentro la quale poi, facendo il passo io, se lo faccio, sperimenterò la fede — viene da Gesù, è sempre opera di Gesù.

Ecco, vorrei proprio che oggi ciascuno di noi si soffermasse su questo a riflettere. Oggi farò una meditazione breve perché questo passaggio è un po’ delicato. Mi rendo conto che è molto denso. Dobbiamo stare molto attenti soprattutto per quello che riguarda noi, come le cose nelle quali crediamo di più, che ci sembrano le cose più importanti, le cose più indiscutibili, quelle che proprio uno dice: “No, vabbè, ma queste…”

Ecco: ciò che tu vivi, ciò che tu fai, è la risposta a un comandamento? Viene da un invito del Signore? Quanto di ciò che noi diciamo e facciamo è risposta obbediente a un comandamento di Gesù e quanto è affermazione di noi stessi? Quanto è affermazione delle proprie idee, del proprio gusto, del proprio stile spirituale e umano? Questo, guardate credetelo, è veramente molto importante. Sul tema della povertà nella storia della Chiesa ci sono stati tanti problemi, tanti fraintendimenti. E infatti San Francesco quando va dal papa a chiedere l’approvazione della regola, il papa si aspettava che San Francesco lo criticasse, per la ricchezza, per qualcosa di costume che non andava bene. San Francesco, invece, cade in ginocchio e dice: “Io sono venuto qua solo per chiedere il permesso, la benedizione di vivere il Vangelo, basta, il resto non mi interessa”. Vedete? Quando è risposta a un comandamento di Gesù, tutta l’attenzione è rivolta a Gesù, non al giudizio sugli altri, non a fare degli altri quello che io voglio che facciano, non è mai un obbligo che riguarda la vita degli altri. Tutta l’attenzione è su di me perché la chiamata è a me, è per me. E ripeto: il comandamento non è mai fine a sé stesso: non è mai la povertà per la povertà, non è mai la mortificazione per la mortificazione, non è mai la preghiera per la preghiera, neanche quello. E non è mai la carità per la carità perché sennò si finisce nella filantropia. La storia di Madre Teresa di Calcutta ce lo insegna chiaramente.

Madre Teresa di Calcutta va ad aiutare i lebbrosi, ma questi in realtà arrivano come secondo momento della sua vita, non è il primo momento di questa sua presa di consapevolezza del comando di Gesù. Il comando di Gesù a Madre Teresa con i lebbrosi non c’entrava niente e si riassume in una parola: “sitio”. Lei sente interiormente questo imperativo: “sitio” — “ho sete”, che è la sete delle anime. Quello che sentirà successivamente è: “Sii la mia luce nei buchi bui di Calcutta”, di quelle zone di povertà terribile — andate a leggere la sua autobiografia — ma soprattutto parte come salvezza delle anime dei bambini che si perdevano. Tutto quello che verrà poi come “manifestazione famosa” della vita di Madre Teresa di Calcutta, che sarà il servizio ai lebbrosi, verrà dopo, in un secondo momento. È diventata famosa per quello, ma non sarà concentrata solo su quello. 

Infatti, quando parlava, Madre Teresa di Calcutta parlava continuamente in sostegno e difesa dell’importanza della centralità di Cristo e di Cristo Eucarestia nella vita del credente, quindi dell’importanza della preghiera. Uno si immagina che una santa della carità parli della carità, solo della carità, meramente della carità. Ma se così fosse avremmo davanti una filantropa, una persona ideologizzata! E invece Madre Teresa non è niente di tutto questo.

Ve l’ho già raccontato, credo: ebbi la grazia, credo veramente più unica che rara, di incontrare Madre Teresa di Calcutta a Roma insieme a tantissimi altri giovani. Ero ragazzo ed era intorno all’otto di dicembre di quell’anno. Le persone che mi ospitavano mi dissero: “Guarda, se vuoi possiamo andare all’università di — non mi ricordo più — perché arriva Madre Teresa di Calcutta. Bisogna partire presto…”. Infatti eravamo nell’aula magna grandissima, enorme, stracolma, piena di ragazzi, tutti giovanissimi, seduti ovunque — se avessimo potuto ci saremmo seduti anche sui muri. Poi c’erano ragazzi fuori chiusi dai cancelli che cercavano di scavalcare, si buttavano dall’altra parte. Delle scene incredibili: polizia, carabinieri, vigili del fuoco, ambulanze! Non vi dico cosa non è arrivato, perché eravamo oltre la capienza massima.

Mi ricorderò sempre che i vigili del fuoco sono entrati e hanno detto: “Ragazzi, vi preghiamo, non fate un verso, non muovetevi, non alzatevi, non applaudite, non fate niente”, perché l’aula magna non era a piano terra, era al primo o al secondo piano, ed era talmente stracolma che ci hanno detto: “Non vi muovete, perché abbiamo paura che cada tutto, ed è un miracolo che già siate qui; adesso siete qui, state fermi, quando arriverà Madre Teresa non fate niente, perché sennò tirate giù tutto, perché non è stata progettata per sostenere un peso così enorme di persone”. 

Poi mi ricordo che sentivo le persone da fuori che urlavano, i ragazzi fuori che urlavano, perché hanno chiuso i cancelli, hanno sbarrato tutto, fatto venire i carabinieri, la polizia, perché non si poteva più, perché continuavano a entrare persone. Io mi ricordo che li avevo seduti in braccio, addosso… insomma, non vi dico, un’esperienza bellissima. 

Questo lo dico perché, ovviamente, quando è arrivata Madre Teresa di Calcutta — io ancora adesso la vedo — si è fatto un silenzio di tomba per un secondo ma quando è arrivata al microfono si è scatenato il mondo: applausi, gente in piedi… se non è venuto giù tutto è stato un miracolo! Io ho visto il volto dei vigili del fuoco che è diventato quello di un cadavere, bianchi come cadaveri sono diventati veramente. Poi lei ha calmato tutti, perché era stata anche avvisata di questa cosa, e ci ha fatto sedere. 

La prima cosa che ha detto Madre Teresa al microfono, con quel suo Rosario in mano — non lo dimenticherò mai — è stata questa: ha preso la mano destra, l’ha alzata — non posso farvi il gesto perché non mi vedete: aprite il palmo con tutte le cinque dita belle distese — e lei, toccando la punta di ogni dito: pollice, indice, medio, anulare, mignolo, ha detto “Lo” — pollice — “avete” — indice — “fatto” — medio — “a” — anulare — “me” — mignolo. “Lo avete fatto a me” e lei ha detto: “Voi avete tutto il Vangelo su una mano”. 

Vabbè, non vi dico cosa non è venuto fuori, eh, bellissimo, io ho ancora la pelle d’oca adesso. Vedete? Lei ha riportato ancora tutto sempre a Gesù. Non ai poveri in quanto poveri, ma a Gesù. Questa è una donna di vera carità. Perché? Perché lei non ha fatto altro nella sua vita che obbedire alla chiamata, al comandamento di Gesù.

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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