Meditazione
Pubblichiamo l’audio della meditazione: Elementi e metodi – Pedagogia del dolore innocente, beato don Carlo Gnocchi pt. 11
Venerdì 21 giugno 2024 – S. Luigi Gonzaga
Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD
Ascolta la registrazione:
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VANGELO (Mt 6, 19-23)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!».
Testo della meditazione
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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!
Eccoci giunti a venerdì 21 giugno 2024. Oggi ricordiamo san Luigi Gonzaga.
Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal sesto capitolo del Vangelo di san Matteo, versetti 19-23.
Continuiamo la nostra lettura e meditazione del libro Pedagogia del dolore innocente del beato don Carlo Gnocchi.
Quali sono gli elementi e i metodi della pedagogia del dolore innocente?
Certamente non quelli, pur largamente correnti, che fanno ricorso ad autentiche fandonie e fanfaluche per calmare, distrarre o illudere il dolore dei bimbi, e neppure soltanto quelli della pedagogia naturalistica, coi suoi appelli alla virilità, alla forza di carattere, in pratica allo stoicismo.
Fermiamoci subito. In queste pagine che verranno, Don Gnocchi si occuperà degli elementi e dei metodi della pedagogia del dolore innocente, perché ha avvertito la necessità di fare chiarezza.
Comincia col dire quali “non sono” gli elementi e i metodi della pedagogia del dolore innocente. Non sono quelli di “far ricorso a fandonie per calmare, per distrarre o per illudere il dolore”; cioè, quando un innocente soffre, che sia un bambino, che sia un adulto, quando davanti a me ho un innocente che soffre, tanto più quella sofferenza sarà atroce, tanto più evitiamo di far ricorso alle fandonie, di far ricorso a discorsi veramente banali, inutili o anche – diciamo così – pseudo religiosi, da semi-omelia, per calmare, distrarre o illudere il dolore.
Il dolore di un innocente non va né calmato, né distratto, né illuso, che, guardate, è esattamente quello che facciamo noi. Tutti noi, quando sentiamo qualcuno – soprattutto un innocente – che soffre, noi cerchiamo di distrarlo; cosa diciamo? “No, ma dai, non pensarci più” – oppure – “Dai, cerca di calmarti”; noi cerchiamo di calmare l’innocente circa il suo dolore, con l’illusione che, calmando il dolore… oppure cerchiamo di illuderlo: “Ma guarda, senti, facciamo così, andiamo fuori a bere insieme”.
Mi ricorderò sempre una situazione di una famiglia che ha vissuto un lutto terribile; mettete che il lutto è successo intorno alle tre e mezza/quattro del pomeriggio, poi questa famiglia è tornata a casa. Dopo che erano tornati a casa, degli amici sono andati lì e sapete cosa gli hanno detto? “Dai, andiamo fuori a mangiare una pizza insieme?” e questa famiglia, piagata da questo lutto, ha detto: “Va bene”; per distrarsi! Solo a sentirlo raccontare sembra di sentire una follia. Ma come, hai subito un lutto, un lutto grave, e tre ore dopo ti viene detto “andiamo fuori a mangiare una pizza”, e vai a mangiare la pizza? Ma come fai ad andare a mangiare la pizza con questo lutto? Io vi dico: lo capisco! Lo capisco alla luce di quello che scrive don Gnocchi: loro lo hanno fatto per distrarre e questi hanno acconsentito per essere distratti, per non stare sotto il giogo di questo dolore terribile.
Tutto questo io non dico che non funzioni, magari avrà funzionato ma, stando allo scritto di don Gnocchi, questi non sono né gli elementi né i metodi della pedagogia del dolore innocente. Non si fa così, non dobbiamo né calmare, né distrarre, né illudere, oppure anche banalizzare, oppure dire: “No, vabbè, non esagerare, non è proprio così, tutto questo dolore”. Ma chi siamo noi per dire a una persona: “Tu stai soffrendo in maniera ingiusta, esagerata, stai esagerando”? Come faccio io a dirlo, cosa ne so di cosa c’è in quella persona? Quella persona magari sta soffrendo come non so che cosa, perché sta perdendo i capelli – faccio un esempio, una sciocchezza – e siccome per me questa è una stupidaggine, perché sono già mezzo calvo, dico: “Ma dai, cosa vuoi che ti interessi dei capelli, oh, mamma mia!”; magari quella persona ci sta morendo! Ma io cosa ne so? Oppure uno sta malissimo perché gli è morto il gatto, e dico: “Eh vabbè, per un gatto, vai e ne compri un altro”, ma quella persona sta malissimo e risponde: “Ma che stai dicendo? Cosa ne sai tu della storia mia e del mio gatto? Come fai a dire una cosa del genere?”
Il dolore non va mai né calmato, né distratto, né illuso, né banalizzato (questo lo aggiungo io): il dolore è dolore, punto. E non bisogna neppure, come dice don Gnocchi, fare «appelli alla virilità, alla forza di carattere, in pratica allo stoicismo». “Eh, ma sarai mica una femminuccia?”; quante volte si sente questa frase; oppure, a un bambino di cinque anni, viene detto: “Adesso non piangere come fanno i bambini!”. A un bambino di cinque anni puoi dire una cosa del genere? Quindi, la categoria “bambini” a chi si applica, all’embrione?
E poi, non ho capito, che male c’è a piangere quando si soffre. Dove sta il male quando una persona, provando dolore, piange? Dove sta il male quando una persona, provando dolore, geme? Dove sta il male quando una persona, provando dolore, perde la bussola, non capisce più niente, dov’è il male? Noi non siamo tronchi di legno, noi siamo esseri umani, noi siamo esseri umani!
“Devi essere forte”; “Devi essere una vera donna”; “Devi essere un vero uomo”; “Eh, ma dov’è il tuo carattere? È tutto qui? Tutto qui, il tuo coraggio? Eh, tutta qui la tua capacità di…?”. Guardate, questi errori li abbiamo fatti tutti, io sono sicuro che li abbiamo fatti tutti, perché noi siamo tutti cresciuti con questa logica stoica terribile.
Oppure l’altra logica: che tutti devono sapere fare tutto quello che so fare io. Ma chi l’ha detto? Chi l’ha detto? Tu lo sai fare? Meglio per te! Magari un’altra persona non è capace, non perché non vuole, ma perché non è capace.
Faccio degli esempi banalissimi, ma per farvi capire: tutti devono essere capaci di cucinare, perché io so cucinare; ma dov’è scritto? Io sono capace di cucinare: bene. Tizio non è capace, pazienza, lui mangerà, io cucinerò! Dove sta scritto che tutti devono saper fare tutto? Ciò che per me è banale, ciò che per me è facilissimo, per un’altra persona è una montagna insormontabile. Per me è facilissimo studiare l’aramaico; bene, un’altra persona non riesce neanche a fare l’analisi logica in italiano. “Eh, ma è qui tutta la tua capacità di sacrificio?” – “No, ma io veramente più di questo non posso fare”.
Tutto questo, tutti questi modi di fare e dire, non appartengono alla pedagogia del dolore innocente, questi appartengono alla pedagogia naturalistica. Forse questo appartiene al mondo delle scimmie, ma non al mondo dei cristiani. Io non lo so dentro un branco di scimmie come funziona, magari neanche lì funziona così, non lo so, però posso immaginarmelo più lì che non tra cristiani, soprattutto tra cristiani che dovrebbero vivere questa pedagogia del dolore innocente e a un bambino non dovrebbero dire: “Eh, dai, ma sei così grande (è alto neanche un metro), e piangi ancora?”.
Sapete che a furia di soffocare le lacrime, noi abbiamo soffocato i sentimenti? A furia di soffocare le lacrime, noi abbiamo soffocato la capacità di dire “ti voglio bene” alle persone? Abbiamo soffocato la capacità di fare una carezza ai nostri genitori e dargli un bacio; noi che ci sentiamo tanto “grandoni”.
Prosegue don Gnocchi, attenti bene:
La pedagogia cristiana del dolore tende anzitutto ad insegnare praticamente ai bimbi – guardate, don Carlo qui è geniale – che il dolore non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri e che il dolore ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti.
Ora vi spiego cosa dice don Carlo e vi aggiungo che dirò anche quello che penso io, che non sono venerabile, né beato, né santo, né niente, sono semplicemente un sacerdote con la mia età e la mia piccola esperienza, e vi dico il mio pensiero.
Quello che dice lui è: il dolore non va tenuto per sé (nel senso di tesoro, di dono), di questo dolore bisogna fare dono agli altri e bisogna usarlo – come abbiamo detto già precedentemente – sul cuore di Dio, a vantaggio delle persone, a vantaggio delle anime, per la conversione dei peccatori, tutto quello che già sapete meglio di me; questo è quello che dice don Carlo.
L’aggiunta che faccio io (che potete prendere e buttare nel cestino): quando don Carlo dice che il dolore non si deve tenerlo per sé, io mi fermerei qui e direi: impara a condividere il tuo dolore con qualcuno di fidato e di certo. Per questo, mi verrebbe da dire, esistono i sacerdoti. Chi meglio di un sacerdote è dedicato all’ascolto del dolore altrui e ad aiutare la persona a vedere in questo dolore una possibilità di dono, una possibilità di potere sul cuore di Dio a vantaggio degli altri?
Il dolore va sempre condiviso con qualcuno, altrimenti ti fa diventare matto, il dolore ti inaridisce, ti spegne. Il dolore può portarti al suicidio, di questo stiamo parlando! Il dolore può portarti all’esaurimento nervoso, ti può portare alla depressione; che sono cose terribili.
Non diciamo: “Ah no, no, io non dico niente, perché offro tutto al Signore”. Noi non dobbiamo essere presuntuosi: a questi livelli di altitudine di vita cristiana, si arriva dopo anni e anni e anni, a meno che Dio non intervenga prima con una grazia speciale. Non facciamo i supereroi, stiamo con i piedi per terra e siamo persone semplici e umili. Sto male? Cerco qualcuno con cui parlarne; ripeto, qualcuno di fidato e di certo. Magari non mi dirà chissà che cosa, ma già il fatto che mi ascolti, spegne il potere mortifero del dolore, ti toglie dall’isolamento, e, raccontandolo, ti aiuta a ridimensionarlo. Nel momento in cui io racconto il mio dolore, lo rimetto al suo posto, gli ridò un confine.
Quando si soffre, e si soffre tanto, è molto importante non restare da soli. Perché poi non c’è da stupirsi se uno, per il troppo dolore, va a finire nell’alcol, va a finire nella droga, va a finire in ogni sorta di dipendenza. Quante volte – io credo che vi sia capitato – a causa di un forte dolore, noi ci attacchiamo al cibo? Non abbiamo fame, magari abbiamo appena mangiato, ma quel dolore così forte ci spinge ad attaccarci al cibo; chi è goloso di dolci, mangerà i dolci, chi è goloso del salato, mangerà il salato, chi è goloso di tutto, mangerà un po’ di tutto; però mi attacco al cibo come forma di compensazione. Se voi ci pensate, il cibo è una forma immediata, apparentemente innocua, di possibile compensazione, per cui: io ho bisogno di mangiare quattro maccheroni e invece ne mangio dieci, perché? Perché mi illudo – come abbiamo detto prima – che, in questa maniera, sano, calmo, placo il mio dolore. No! Anzi, peggiora.
Devi invece imparare a non tenerlo per te: parlarne.
(E ciò in ossequio ai princìpi più sopra affermati, che il dolore non è dato al bimbo come conseguenza della sua responsabilità personale e che il suo valore impetratorio è assai grande agli occhi di Dio).
Ha un valore impetratorio; quindi, noi dobbiamo insegnare, ma con calma, senza fare i maestrini, senza metterci lì a pontificare, con calma dobbiamo insegnare questo valore impetratorio del dolore e dobbiamo metterci accanto a queste persone, per far vedere quanto il dolore abbia un potere fortissimo sul cuore di Dio.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.