Meditazione
Pubblichiamo l’audio della meditazione: Perfetto cristiano è il martire pt.2 – La mistica della riparazione, di don Divo Barsotti pt.42
Martedì 17 settembre 2024
Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD
Ascolta la registrazione:
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VANGELO (Lc 7, 11-17)
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
Testo della meditazione
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Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!
Eccoci giunti a martedì 17 settembre 2024.
Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal settimo capitolo del Vangelo di san Luca, versetti 11-17.
Continuiamo la nostra lettura del libro di don Divo Barsotti.
Mai l’umanità è associata più intimamente a Dio nella redenzione dell’universo, come nella Morte sulla Croce. Fin dall’inizio, nel mistero dell’unione ipostatica, l’umanità e la divinità sono inseparabilmente unite; ma l’umanità non è mai stata associata alle opere di Dio in modo più intimo, più efficace, come nell’atto della Morte sulla Croce. Il cristiano non può non desiderare la morte. È vero che essa ci fa anche paura, eppure la vita quaggiù vale solo se porta alla morte. La morte sola dà al nostro cammino il suo vero termine e il suo compimento. Se noi temiamo la morte, è perché non sappiamo riconoscere la bellezza della morte cristiana; vediamo in essa soltanto la fine della vita, un’oscura minaccia che grava sul nostro destino. La nostra natura umana insorge davanti alla morte perché si sente minacciata. Non è questa la morte che dobbiamo desiderare, ma quella che ci fa simili a Cristo, che ci assimila a lui. Non si può dire di essere uniti a Gesù altro che nell’atto del nostro morire.
Un grande Vescovo del I secolo, che secondo la tradizione era stato il bambino che Gesù aveva portato ad esempio ai discepoli — Ignazio d’Antiochia — raccomandava ai cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, aggiungendo che proprio da questo avrebbe riconosciuto il loro amore. Essi gli avrebbero permesso così di raggiungere il suo termine: «Ora soltanto comincio ad essere vero discepolo». Tutta la sua vita egli la vedeva come una preparazione al martirio.
La morte infatti è il compimento della vita cristiana, purché sia una morte intesa come atto d’amore, offerta al Padre per la salvezza del mondo, per la gloria di Dio.
Sono espressioni forti, queste di don Divo, vanno capite bene: lui non sta parlando della morte intesa come oscura minaccia; non sta parlando di quella morte di fronte alla quale la natura umana insorge, come fine della vita, ma sta parlando per dei cristiani — quindi dei credenti — della morte come vero termine, vero compimento del nostro cammino di vita. La morte che ci fa simili a Cristo e ci assimila a Lui, ci rende uniti a Gesù nell’atto del morire e cita sant’Ignazio di Antiochia. Non so se lo sapete, la tradizione vuole che sia stato il bambino che Gesù aveva portato ad esempio ai discepoli quando dice: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. La tradizione dice che il bambino che Gesù pone lì, nel mezzo, che prende ad esempio, fosse il piccolo Ignazio di Antiochia.
S. Ignazio, il giorno in cui va a morire, chiede ai suoi discepoli di non intervenire, di non liberarlo, di farlo diventare frumento che, nei denti delle fiere, sarebbe stato tritato per diventare ostia gradita.
Quindi, la morte come «compimento della vita cristiana, purché sia una morte intesa come atto d’amore offerta al Padre per la salvezza del mondo, per la gloria di Dio»; di questa morte sta parlando. E dice:
E noi sentiremo di vivere cristianamente solo nella misura in cui vivremo la nostra morte; non solo con il martirio, che è la vera pienezza della vita cristiana, ma anche con il sacrificio, giorno per giorno, di noi stessi, in un atto d’amore che sia l’offerta di noi stessi per i fratelli.
Quindi: il sacrificio quotidiano; ci sono tanti modi di vivere i nostri sacrifici. Innanzitutto, il sacrificio di noi stessi — non pensiamo subito a non mangiare questa o quell’altra cosa — proprio il sacrificio della nostra volontà, il sacrificio del nostro orgoglio, il sacrificio della nostra superbia, della voglia di vendicarci, in un atto d’amore.
«Quotidie morior», dice S. Paolo di sé e traccia in queste parole il programma per ogni cristiano. Se non ci fossero anime che soffrono, e non potessero offrire la loro sofferenza, il mondo andrebbe male. Il mondo non ha tanto bisogno di uomini che lavorino e abbiano delle capacità, quanto soprattutto di vittime che offrano il loro dolore, perché è il loro sacrificio che salva.
Questo già ve l’ho detto: se noi siamo ancora qui, siamo vivi, e se questo mondo, nonostante tutto, va avanti, è per le anime vittime.
Solo se il comunismo o qualche altra dottrina potesse eliminare la sofferenza, potrebbe anche spazzare Dio dal mondo. Ma attraverso il dolore il cuore dell’uomo si apre a Dio e, nella stessa misura in cui il dolore lo svuota, Dio lo riempie del suo amore.
È vero, eh! Il dolore conduce il cuore dell’uomo a Dio, il dolore svuota il cuore dell’uomo; da cosa? Mi verrebbe da dire da tutto e anche da tutti; perché il dolore, se è accolto in modo cristiano, ha questo potere essenzializzante. Il dolore ti fa vedere ciò che conta veramente nella vita, ti fa capire quali sono le relazioni importanti della vita. E, quindi, se il dolore riesce a svuotare il cuore, Dio lo riesce a riempire del suo amore.
Il mondo può forse fare a meno di tutto il resto, ma non di anime che facciano presente il sacrificio di Cristo nella loro sofferenza. — È importantissimo tutto questo — Tutta la vita, tutti i miracoli, tutta la predicazione di Gesù non acquistano inefficacia che dalla sua Morte in Croce — è da lì che tutto prende senso. All’umanità mancherebbe tutto se le mancasse il sacrificio di Cristo, ma il sacrificio del Cristo non sarebbe presente realmente se gli uomini non potessero parteciparvi. Certo, abbiamo bisogno di medici, abbiamo bisogno di apostoli, ma se ci mancassero le anime vittime, le anime riparatrici, sarebbe come se il mistero della Croce non fosse più realmente presente e operante nel mondo. — Vedete quanto è importante avere queste anime riparatrici! — Non è un paradosso. Lo diceva Origene nel II secolo: «Temo che la Chiesa non abbia più il potere di rimettere i peccati, dal momento che non ha più martiri».
È la presenza della Passione di Cristo nel dolore dei cristiani e della Chiesa, che dimostra come nella Chiesa continui l’opera della Redenzione, come sia presente questo mistero. La Passione di Gesù si fa presente sugli altari, per una sua reale partecipazione in ogni cristiano che soffre e offre la sua sofferenza a Dio.
È necessario che la Croce sia piantata per sempre nel mondo, che la Chiesa sia associata sino alla fine alla Passione di Gesù. Il mondo deve scaricare su di lei i suoi pesi, e la Chiesa deve accoglierli in una sofferenza accettata liberamente nell’amore. Ecco il martirio: il martirio è quel che deve distinguere sempre la Chiesa, perché è proprio il martirio quel che distingue colui che più ama. Il martirio può essere esterno, visibile, più spesso è interno, invisibile. — Vi ricordate quando ieri vi ho parlato del martirio bianco e del martirio rosso? È importantissimo, il martirio — Si pensi ad una S. Teresa del Bambin Gesù, anima così pura, che negli ultimi due anni di vita sprofonda nelle tenebre di una fede nuda. Chi potrà dire che cosa debba la Chiesa al suo martirio interiore? — questo è il martirio bianco — Si pensi a un S. Paolo della Croce. Egli giunge all’unione trasformante a 29 anni. L’unione trasformante comporta che l’anima sia giunta alla sua purezza totale, anche se non indica per tutte le anime un uguale grado di carità. In ognuno di noi Gesù fa presente sé stesso, ma in ognuno egli vive in modo diverso; nella misura tuttavia in cui egli vive in ciascuno, Gesù si fa presente nella sua Morte. S. Paolo della Croce è giunto all’unione trasformante a ventinove anni. Egli non deve più soffrire per i suoi peccati! Ma è proprio allora che si inizia per lui il vero martirio. Da 29 a 82 anni egli soffre un martirio dei più spaventosi: crede di essere già condannato. — Pensate un po’, da 29 a 82 anni, lui crede di essere condannato, nonostante avesse vissuto questa unione trasformante — Lo sentono gemere tra le foreste del monte Argentario tutti i suoi confratelli, e hanno compassione di questo povero vecchio che si crede abbandonato da Dio.
Stessa cosa che ha vissuto santa Teresina, che non sente più niente, stessa cosa che ha vissuto madre Teresa di Calcutta, stessa cosa che ha vissuto S. Francesco d’Assisi, e anche il santo Curato d’Ars, ma lui poco tempo prima di morire.
Soltanto pochi mesi prima della morte cessa questo martirio. Egli vive in un’angoscia, in una desolazione intima e spaventosa, conosce tentazioni contro la fede, tentazioni contro la speranza. Proprio perché è trasformato nel Cristo, egli partecipa così alla sua Passione, alla sua agonia, riparando per gli uomini. Fa presente in sé Gesù Crocifisso per cooperare alla salvezza del mondo: porta sopra di sé il peccato degli uomini per dare loro Dio. Associato intimamente alla Passione del Cristo, all’agonia di Gesù nel Getsemani, egli vive nel suo martirio una riparazione divinamente efficace, che fa di lui l’Apostolo più grande di tutto il suo tempo.
L’unione trasformante con Gesù, l’intimità profonda con Gesù, non è cuore e batticuore, come abbiamo in testa noi! Non è l’effervescenza, non è questa cosa, è tutto il contrario. E qui abbiamo gli esempi nei santi: pensate a madre Teresa, pensate a questo santo che ci ha appena detto don Divo, san Paolo della Croce, da 29 a 82 anni crede di essere abbandonato da Dio. Terribile, è un martirio terribile; ma questa è la nostra vita! Quindi non dovremmo lamentarci tanto di tutte le nostre sofferenze, ma dovremmo, invece, accoglierle e offrirle a Dio, offrirle proprio al Signore, per unirle alla morte in Croce di Gesù. E così espiare e riparare.
Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.