Scroll Top

La perfezione religiosa alla luce della SS. Eucarestia, di S. Pietro Giuliano Eymard. Parte 52

La perfezione religiosa alla luce della SS. Eucarestia, di S. Pietro Giuliano Eymard

Meditazione

Pubblichiamo l’audio di una meditazione sul testo “La perfezione religiosa alla luce della SS. Eucarestia” di S. Pietro Giuliano Eymard di sabato 23 luglio 2022

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

Per motivi di intenso traffico non ci è possibile rendere disponibile l’ascolto dei file audio direttamente dal nostro sito. Se hai dubbi su come fare, vai alle istruzioni per l’ascolto delle registrazioni.

VANGELO (Gv 15,1-8)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione

La perfezione religiosa alla luce della SS. Eucarestia, di S. Pietro Giuliano Eymard. Parte 52

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a sabato 23 luglio 2022. Oggi festeggiamo Santa Brigida di Svezia, Compatrona d’Europa.

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dal capitolo XV, versetti 1-8, di San Giovanni.

Proseguiamo la nostra meditazione del libro di San Pietro Giuliano Eymard; siamo giunti a una nuova istruzione: “Della rinuncia ad ogni proprietà”.

Quello che sentiremo adesso è particolarmente rivolto ai religiosi, a chi ha fatto il voto di povertà, però, anche se molti di noi (o meglio di voi) non lo sono, ciò nonostante, credo faccia bene a tutti riflettere per confronto su questo tema della gestione dei beni, perché con una certa facilità si rischia di usare male dei doni che Dio ci ha fatto e ci fa.

“Is t r u z i o n e .

Della rinuncia ad ogni proprietà.

Nostro Signore diceva a tutti: «Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso e prenda sopra di sé la sua croce ogni giorno, e mi segua» (Luc., 9,23).

Ed altrove: «Chi di voi che non rinunzia a quanto possiede non può essere mio discepolo» (Luc., 14,33).

I. Così Nostro Signore pose la prima condizione della vita religiosa: una rinunzia, la croce, la morte. Perché in altra circostanza Gesù promise il centuplo a quelli che hanno lasciato ogni cosa per seguirlo, taluni s’immaginano che la vita religiosa dia il benessere naturale e vengono per trovarci il riposo fin da questa vita. Povera gente! Dal punto di vista naturale in religione — si riferisce a chi entra in convento — si è molto più infelici che nel mondo.

Là non si aveva che a praticare la legge, qui vi sono inoltre i consigli: là si poteva godere della propria famiglia, crearsene una, farsi un avvenire secondo i propri gusti, prendersi i piaceri permessi; qui niente di tutto ciò, non si può nemmeno godere del bene che si fa.

La verità è che facendoci religiosi ci carichiamo di una croce che dovremo portare per tutta la vita.

No, pel religioso non vi è felicità terrena. Non darete questo nome ad una ricreazione, ad uno svago che vi si concederà di tanto in tanto; questo non sarà che un’occasione di sentire più vivamente le privazioni che ne soffrite ordinariamente.

Felicità nella vita religiosa? — Celeste sì, ma terrena, oibò! — Ond’è che taluni se ne vanno tristi e scoraggiati, dicendo che si sono ingannati, che non credevano che questa vita fosse tanto penosa: essi volevano godimento come i Turchi!…

Gesù ha promesso il centuplo; ma di quella gioia interiore che è il frutto della mortificazione e della croce, e non il centuplo della felicità naturale.

Nel mondo si può avere una felicità mista, mezza celeste e mezza umana; in religione ciò non è possibile; al contrario, non vi si può essere felici che mercè la distruzione di quanto forma la felicità naturale. Quanti si ingannano a tale riguardo!

Il religioso deve sempre strapparsi a se stesso e a quel che ama, sempre immolarsi. Volete accompagnarvi a Gesù Cristo sul suo trono? seguitelo ne’ suoi patimenti, e sappiate che andate all’immolazione di ogni giorno. È duro, ma è così; è impossibile perseverare senza stabilirsi in queste disposizioni”.

Quindi, in questa prima parte, San Pietro Giuliano Eymard ci dice che la prima condizione della vita religiosa è la rinuncia, la croce e la morte, e questo l’ha detto Gesù.

Entrare in convento vuol dire entrare in una logica nuova, che è quella per la quale la felicità non è così come tutti l’abbiamo sempre intesa, cioè quella legata e collocata nel mondo nel quale si è vissuti sempre.

Non nel senso che, diventando frati o suore, uno va a vivere sulla luna, ma come “mondo” io intendo una logica di vita mondana, cioè legata alle cose di questo mondo.

Quando si entra in convento si esce da quella logica; non si diventa alieni, però non si vive più in quella logica precisa, si entra in un’altra forma di vita.

Ora, in questa nuova forma, uno deve cominciare a pensare che il primo allenamento che deve sempre fare e portare avanti è quello della rinuncia, come abbiamo visto fino ad adesso, della rinuncia a partire proprio dalla rinuncia dell’io, e quindi dalla rinuncia più radicale, e a seguire tutte le altre.

Quindi, il suo godimento non può essere in nulla di ciò che caratterizza la felicità del mondo, la felicità ordinaria.

Infatti, lui ci dice che facendoci religiosi noi ci carichiamo di una croce che dobbiamo portare tutta la vita e questa croce non consente (non dovrebbe consentire, se noi la portassimo seriamente) una felicità terrena.

La felicità dove sta per un religioso? La felicità sta nel Cielo.

Dobbiamo stare attenti perché, se noi non stiamo in questa logica, cosa facciamo? Confondiamo i piani, per cui cerchiamo all’interno di una vita di speciale consacrazione a Dio ciò che in realtà si trova in una vita diversa.

Adesso vedremo, San Pietro Giuliano Eymard farà degli esempi.

Pensate a San Francesco, a quanto è stata fondamentale, radicale e assoluta la sua scelta inerente a Madonna povertà: una vita di privazione assoluta, non fine a se stessa, ma fatta in funzione del voler seguire Gesù, povero, casto, obbediente, del voler imitare la vita di Gesù, e di fare tutto questo per amore.

Non si entra nella vita religiosa per cercare la felicità che siamo abituati a trovare nel mondo; la gioia che Gesù promette nel Vangelo è una gioia tutta interiore ed è la gioia che nasce (l’abbiamo visto) dalla mortificazione d’amore.

Il religioso deve sempre strapparsi a se stesso”.

È quello che abbiamo visto nelle volte scorse, è questo rinnegamento dell’io e della persona, quindi è una immolazione costante.

“Tutto ciò è vero specialmente nella nostra vocazione, che ci priva pure delle consolazioni dello zelo e ci crocifigge in olocausto appiè di Nostro Signore”.

Certo, perché abbiamo visto già questa vocazione eucaristica a che cosa porta.

“I missionari hanno un centuplo fin da quaggiù; godono delle loro conquiste e delle ottenute conversioni. La natura e la grazia hanno lavorato: quella ha sostenuta la fatica e questa l’ha fatta fiorire e fruttificare; ne viene in ricompensa la riconoscenza delle anime”.

La riconoscenza delle anime voi considerate che è una grande consolazione.

“Qui vi consumate e non si riconosce neppure il luogo ove siete passati”.

Chi si consuma davanti al tabernacolo non ha questa riconoscenza, perché nessuno lo sa che è grazie a lui (o lei) che ha ricevuto questo, questo e quest’altro, che la sua preghiera ha ottenuto questo, questo e quest’altro.

Quindi, vedete che povertà? Come notate, non è semplicemente (anche se è importante, come vedremo) la povertà economica, la povertà delle cose, ma è innanzitutto una povertà interiore, che è la più difficile di tutte.

“II. Tuttavia Gesù Cristo ha detto ai suoi Apostoli: «Voi, voi siete coloro, che siete rimasti sempre con me nelle mie prove; ed io in vostro favore dispongo del regno, come il Padre ne ha disposto in favor mio» (Luc., 22,28-29). È il suo regno eterno, assicurato a quelli che per ottenerlo vogliono adempire certe condizioni.

La prima è di lasciare ogni cosa e di venire alla sequela di Gesù senza nulla. Bisogna dapprima lasciare i vostri beni e l’uso di quanto possedete: tanto si fa nella professione.

Se avete una fortuna e volete farne dono alla Congregazione che con essa provvede a Nostro Signore e vive con quel che resta, fatelo, è buona cosa; ma non vi si domanda, siete liberi di darla a chi vi par bene”.

Quindi, la prima cosa è lasciare tutto.

Io mi ricordo quando sono partito per il convento, me lo ricordo proprio molto bene, accadde nel lontano 1995, il 9 marzo del 1995.

Tra l’altro, adesso mi viene una curiosità, a cui, grazie a questi strumenti, è possibile dare una risposta velocemente. Adesso vi dico che curiosità è, ma l’avrete già immaginata probabilmente… ecco, il 9 marzo del 1995 era un giovedì; mi è venuta questa curiosità di vedere che giorno fosse, perché non me lo ricordavo più.

Ecco, mi ricordo molto bene di quella mia partenza da casa, dove ho tirato su la mia valigia, blu con le maniglie gialle (me lo ricordo ancora, era un borsone gigante, blu con le maniglie gialle) e io ho percepito chiaramente che, a parte quelle mie quattro cose che mi portavo dietro, tutto il resto lo lasciavo… tutto.

Lo senti che lasci tutto, cioè che stai per entrare in una realtà nuova dove cambia tutto, dove cambierà tutto… e vi assicuro che è un passo forte eh, soprattutto quando si hanno ventidue, ventitré anni, insomma, si sente eh, si sente, non è proprio come dirlo.

Certo, lo si fa con gioia, lo si fa con tutto l’entusiasmo dell’età, ma questo non toglie che si senta che stai tagliando con tutto e con tutti, perché poi, di fatto, non vedi più nessuno. È chiaro che dopo fai il tuo tempo di postulandato, poi io sono stato mandato a Trento in noviziato, quindi, immaginatevi che cambio da Milano a Trento!

Non ero mai stato a Trento prima in vita mia, quindi vai lì e cambi tutto, tutto; un anno là, poi ritorni, poi vai a Milano e inizi gli studi… capite che non è più come una volta che uscivi con i tuoi amici al sabato sera, andavi e facevi… tutta un’altra cosa.

Inevitabilmente i volti piano piano iniziano a dileguarsi… si cambia, cambia tutto, viene fatto come un azzeramento, e poi si conoscono volti nuovi, persone nuove, certo, però quel momento lì di deserto lo devi vivere tutto.

“L’importante è che voi non vi riserviate nulla e vi abbandoniate al Signore che vi darà il necessario”.

Io devo proprio dire che il necessario non mi è mai mancato… anzi, anzi… anzi.

“Ciò costa. Il sacerdote ama tanto aver i suoi affari, i suoi libri, ricevere dei piccoli doni, farsi il suo piccolo gabinetto spirituale!”

Questo, quando l’ho letto, mi ha fatto sorridere: “il suo piccolo gabinetto spirituale”.

“Qui niente vi si permette di tutto questo, non potete ricevere cosa alcuna, sola riceve e dispone la comunità; e se vi appropriate qualche cosa, prendendolo come per voi, riservandolo a vostro uso esclusivo, voi rubate, e mancate alla povertà. Quanto è a vostro uso non vi è che di passaggio, e se vi si dicesse: «Partite subito», voi dovreste farlo senz’altro, abbandonando ogni cosa, senza occuparvi di quel che lasciate”.

Vedete? La libertà… la libertà legata alla povertà.

È dura, è difficile, cioè, già è dura e difficile questa vita, poi, se si leggono queste parole e non le si conclude dicendo: «Sì, vabbè, ma è un linguaggio anacronistico, fuori dal tempo, segnato dal suo contesto storico, ha fatto il suo tempo adesso c’è altro», ecco, se non si chiude tutto e non si butta via tutto con questo bel fiocco e invece ci si lascia interpellare da queste parole, beh uno due domande se le fa, quantomeno su come gestisce le cose, su come si rapporta con le cose e sulla libertà che ha nell’essere qui o nell’essere là.

Al religioso è richiesta una vita di continua fede, perché comunque la tentazione poi di mettere radici è forte, è fortissima. È vero, noi non ci sposiamo, verissimo, però, sai, quando cominci a stare in un posto cinque, sei, sette, otto anni, un po’ di sposalizio succede, e non solo con le cose.

Noi siamo fatti di abitudini, le cose diventano un po’ nostre: la tua camera, la tua scrivania, il tuo armadio, il tuo convento, che non è tuo, però, vivendoci lì, anche psicologicamente diventa un po’ tuo, no?

Infatti, cosa dici? “Vado a casa”, e non intendi dire che vai a casa da dove sei venuto, dai tuoi genitori, ma intendi dire che vai nel tuo convento, cioè lo percepisci come una cosa tua.

Riuscire a mantenere sempre questo distacco interiore… eh beh, insomma… se poi a questo ci aggiungi i volti, hai fatto l’en plein.

È vero, non ci sposiamo, ma i volti sono i volti: quando molte persone incominci a vederle un giorno, due giorni, tre giorni, quattro volte, cinque volte, sei volte, sette volte, otto volte, cominci a vedere i ragazzi che crescono sotto i tuoi occhi, li vedi bambini e diventano ragazzi, e da ragazzi diventano giovanotti, cioè… Sì, non hai figli, però, insomma, ti cominci ad affezionare, ad abituare a vedere quei volti, ad avere un rapporto con loro, loro con te… eh…

Tu prova ad andare a spiegare ad un ragazzo di quindici anni, di dodici anni, di sedici anni: «Bene, è stato bello. Io adesso devo partire per andare a trecento chilometri di distanza», non è proprio così facile eh…

Sapete, un ragazzo di dieci anni, di quindici anni, ti guarda e ti dice: «Perché? Perché tu? Non puoi restare qui? Hai fatto tanto bene… Ci troviamo tanto bene…»

Cominciano queste frasi eh, e poi: «Dove andremo? Da chi andremo? Ma no, non andare».

Capite?

Cominciano tutte queste cose, e questi sono legami, sono legami che tu senti. Ecco perché dico che è importante lasciare che le parole di questi Santi dicano qualcosa.

Voi direte: «Vabbè, per noi che siamo sposati?»

Guardate, è la stessa cosa, in un certo senso. Tu metti al mondo dei figli… quanti anni ti vuoi dare, venti?

Adesso i tempi sono un po’ più lunghi, dattene pure venticinque, trenta nei casi più eccezionali, sì, ma tutti a trent’anni sono andati eh… ti ritrovi in casa da sola, sperando che il marito o la moglie non siano morti, se no sei pure vedova o vedovo, se no sei proprio solo, solo, solo… è dura eh…

Se poi i nipoti non arrivano o arrivano ma tu li vedi poco, se poi la salute fa un po’ cilecca, ragazzi… eeh non è facile… non è facile.

Non è facile vivere in questa logica liberante, in questa logica relativizzante, che ti fa dire: «Sì, ma niente di tutto ciò che c’è qui è mio, neanche i figli, neanche mio marito, perché oggi c’è e domani non c’è più».

Senza poi neanche sfiorare il tema della morte dei figli, che purtroppo succede anche questo, altro dramma nel dramma.

Quindi, vedete, ho voluto trattare questo tema della povertà perché, anche se è scritta per i Frati, per i Consacrati, comunque sia, tutti, tutti siamo investiti dal doverci confrontare con questa libertà interiore, perché povertà vuol dire libertà, cioè saper dire: «Questo è un dono che mi viene dato, io ringrazio Dio che oggi c’è, ma le mani restano aperte; io so che dopodomani potrebbe non esserci più».

Bisogna prepararsi, da subito, da sempre, a questa separazione e bisogna essere molto chiari e dire: «Io sono qui per un tempo».

Il Consacrato, cioè il Sacerdote, lo dice proprio chiaro: «Io sono qua, ma non per sempre, parliamoci chiaro». E questo è abbastanza chiaro un po’ per tutti.

Per un papà, per una mamma, per i figli è un po’ meno chiaro, perché sembra che quella famiglia sia per sempre; in realtà, non è così, non è per sempre, perché prima o poi, o uno se ne va o uno muore…

“Bisogna essere poveri riguardo al cibo. È bensì vero che ora avete quanto vi fa d’uopo; ma, per una o per altra causa, può accadere che manchiate di quest’ordinario. E se allora vi lamentaste io vi direi: «Avete dunque fatto voto di mangiar sempre due piatti nei vostri pasti? Andate, ritornate nel mondo a mangiare le vostre ghiande!»”

Eh… è così. Quanto spreco che c’è! Quanto cibo buttato nella pattumiera! Quando vedo il pane buttato nella pattumiera a me si stringe il cuore. Il pane buttato nell’umido… terribile.

Perché succede? C’è una ragione: perché, piuttosto che avvenga il caso che qualcuno resti senza perché lo vuole, ne compriamo di più; se avanza, si butta.

Se, per disgrazia, quello che non mangia mai il pane decide quel giorno di mangiarlo, e nel sacco del pane non c’è il pane, viene giù il mondo!

Fa niente se dopo peso 140 chili per 70 centimetri di altezza, fa niente… fa niente.

Fa niente se uno, quando mi guarda, dice: «Scusa, ma dove sono il naso, la bocca e gli occhi, perché non si capisce bene?», fa niente.

Fa niente se, quando faccio le scale, arrivo su che ho sudato cinque camicie e ho il cuore che va a duecento per aver fatto quattro gradini, questo è relativo; quello che conta è che io sia esaudito in tutti i miei bisogni, poi se il pane si deve buttare, si butta.

Se faccio cibo in sopravanzo che poi si deve buttare, si butta, fa niente… ma che a nessuno manchi!

E invece la logica dovrebbe essere un’altra, la logica dovrebbe essere: a qualcuno mancherà, non sappiamo a chi, a qualcuno mancherà, e a quel qualcuno a cui mancherà sarà data l’occasione di fare una penitenza, punto; ma piuttosto che buttarlo (e non piuttosto che tu rimanga senza), ma piuttosto che sprecare, a qualcuno di noi che abbiamo fatto il voto di povertà mancherà, pazienza… pace, succede.

 Del resto, abbiamo rinunciato alle ghiande del mondo, come dice San Pietro Giuliano Eymard, per entrare al servizio di questo Signore Gesù, che non è che avesse chissà quale quantità e scorta di cibo da mangiare, tant’è che i Suoi discepoli spigolano nel grano, prendono le spighe e tirano su una manciata di granaglie da mangiare… immaginatevi che pasti succulenti!

“Forsechè il povero non è esposto a dover aspettare il suo pane, che non sempre viene? Ebbene, voi avete fatto professione di essere poveri, siatelo in realtà almeno in tali occasioni.

Ahimè, io son sicuro che se ciò vi accadesse mormorereste: tuttavia, abbiatelo per certo, questo vi accadrà!”

Certo, perché noi ci lamenteremmo. Se non ho quello che voglio avere, viene giù una tragedia.

Sentite adesso cosa scrive San Pietro Giuliano Eymard:

“Se siete in viaggio, per esempio, un venerdì, malgrado l’uso che permette al viaggiatore i cibi grassi quando non trova altro…”

C’era questa legge, diciamo così, che anche il Frate che era in viaggio, se non ci fosse stato altro, avrebbe potuto mangiare di venerdì il cibo grasso.

“… voi, in omaggio alla povertà, non mangerete carne, intendetelo bene, e vi contenterete di quel che troverete, anche di solo pane.

Come povero del Signore, il religioso non ha diritto che al pane e all’acqua”.

A me fa riflettere, vi dico la verità, sono cose che fan pensare… tanto.

Qui qualcuno sbaglia, o San Pietro Giuliano Eymard o San Francesco d’Assisi o Santa Chiara o Santa Teresa, o noi, ma qualcuno sbaglia.

Io non so chi sbaglia, o meglio, la mia coscienza mi dice chi sbaglia, ma non sta a me tirare le somme per la vita degli altri, non è mio compito.

Certamente sta a me tirare le somme per la mia vita, questo sì.

E questo non vuol dire essere rigoristi, questo vuol dire essere onesti.

Uno dice: «Eh ha fatto la pasta alla carbonara il giorno di Venerdì Santo, ma dai, c’è stato un errore, si è confusa, vabbè, pazienza… non vorrai mica buttarla via? Che cosa è peggio?»

Con questa frase “Che cosa è peggio?” si ingoiano i cammelli.

Siccome, grazie al Cielo, esistono i frigoriferi, anche i freezer, niente ci vieta, per esempio, di prendere quel cibo, metterlo in frigo e mangiarlo il giorno dopo, piuttosto che porzionarlo e congelarlo.

Non è scritto nella Parola di Dio che il cibo va consumato tutto entro tre ore…

Vedete, alla fine, che cosa è importante?

Qual è il messaggio che vogliamo lanciare?

Che cosa diventa testimonianza forte per questo mondo?

Proprio questo: sarebbe una testimonianza forte, com’è stato al tempo di San Francesco, vedere degli uomini, delle donne, che vivono dell’essenziale, che hanno la loro gioia altrove, che ringraziano Dio che sanno mangiare anche il caviale e il salmone, ma sono capaci anche di mangiare pane duro, perché quello è ciò che in quel momento c’è.

Riflettiamoci.

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.

Amen.

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

 

Post Correlati