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A Vittoria Maria…

Pesca

Meditazione

Pubblichiamo l’audio della meditazione: A Vittoria Maria…
Martedì 17 ottobre 2023

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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VANGELO (Lc 11, 37-41)

In quel tempo, mentre Gesù stava parlando, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo.
Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro».

Testo della meditazione

Scarica il testo della meditazione in formato PDF

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia lodato!

Eccoci giunti a martedì 17 ottobre 2023. Oggi festeggiamo sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire.

Abbiamo ascoltato il Vangelo della Santa Messa di oggi, tratto dall’undicesimo capitolo del Vangelo di san Luca, versetti 37-41.

Oggi, come avrete visto dal titolo di questa meditazione, faccio una brevissima pausa nel ciclo di meditazioni che sto tenendo sul libro Sequela di Bonhoeffer, per fare una meditazione diversa. In tutti questi anni ho sempre fatto meditazioni partendo dalla parola di Dio, oppure ho fatto meditazioni partendo dagli scritti dei santi, oppure da qualche teologo particolarmente importante e famoso, oppure prendendo qualche dottore della Chiesa… Insomma: ho sempre cercato di portarvi a riflettere — voi e me per primo — su questi testi così importanti, autorevoli, come quelli che vi ho citato.

Oggi, credo per la prima volta in questi quasi dieci anni di meditazioni che tengo attraverso il web, non mi concentrerò su un testo di quelli che vi ho citato poc’anzi, ma quest’oggi la meditazione — che ho intitolato “A Vittoria”, cioè dedicata a Vittoria e a tutte le Vittorie che ci sono a questo mondo — la faccio a partire da un’e-mail che ho ricevuto qualche settimana fa. Questa e-mail mi è arrivata da una mamma, della quale non farò il nome, dove lei mi parla della sua bambina, che si chiama Vittoria. Il nome lo faccio, perché innanzitutto è un nome bellissimo: Vittoria; è un nome che porta in sé un programma. E poi perché questa storia di vita vera, reale, vissuta, non poteva avere un nome migliore, cioè se avessi dovuto inventare un nome di fantasia, non avrei potuto inventare un nome più bello di Vittoria. E quindi io credo che Vittoria non ne abbia male se la citerò direttamente in questa meditazione.

E io vi leggo il testo, come faccio con tutti gli scritti, le fonti che io vi porto e che commento. A parte che è una e-mail veramente bellissima, un po’ lunga, ma è una lunghezza giusta, doverosa. Non so se riuscirò a leggerla tutta, comunque sicuramente mi impegnerò, e cercherò di commentarla, anche se forse non ha bisogno di tanti commenti, perché è scritta molto bene, con grande delicatezza, grande leggerezza, e anche grande fede. E spero di riuscire ad adempiere al compito che questa mamma mi chiede di svolgere; comunque posso dire che ce la metterò tutta.

Lei scrive così:

Carissimo padre Giorgio, 

mi scuso già subito per il messaggio un po’ lungo, ma credo che l’argomento necessiti di qualche informazione sommaria su questo mondo così — ahimè — sconosciuto alla moltitudine e spesso non considerato. 

Ci sarebbero fiumi di parole da dire ma, con l’aiuto del Signore, mi limito a scrivere proprio lo stretto essenziale per cercare di dare, spero, una pallida idea. 

Mia figlia Vittoria Maria — pensate che bello, Santa Maria delle Vittorie, bellissimo — di 11 anni, è affetta da una sindrome genetica rara grave, che non le permette lo svolgimento autonomo di nessuna delle sue funzioni primarie. Vittoria non parla, non indica, è appena autosufficiente nella deambulazione, deve essere imboccata, lavata, cambiata, vestita, insomma, assistita costantemente, ma capisce tutto.

Apre una parentesi subito: io non vi leggo questa e-mail con uno scopo sentimentale, non è una meditazione motivazionale questa, assolutamente, io sto un po’ lontano da queste cose, non è che mi entusiasmino molto; io ve la leggo non per smuovere i nostri sentimenti, ma ve la leggo perché è bella, perché è vera, perché serve a tutti noi, “sani e normali”, per farci due conti in tasca. E poi perché vorrei dire — davanti a tutti — qualcosa alla mamma di Vittoria Maria e anche a Vittoria Maria.

Questa mia ispirazione a scrivere nasce un giorno in cui, per una curiosa Dio-incidenza, ascoltai una sua omelia su San Luigi Orione, proprio perché è un Santo che è vissuto nella zona in cui abito. Mi colpì una frase in cui lei diceva che in cinquant’anni della sua vita, non ha mai sentito una predicazione sulla realtà dei disabili. Pensai: “È proprio così: nessuno ci pensa! Ci dicono poche parole classiche di circostanza agli inizi, e poi basta. Tutto sembra diventare — per gli altri — la nostra scontata, quotidiana normalità. Non ci si abitua mai, invece, a questo dolore”.

Padre, faccia lei questa predicazione.

E quindi eccomi qua a rispondere.

E ora sono qui a scriverglielo direttamente: faccia lei questa predicazione e la faccia per me, per tutti quei genitori che ogni mattina, quando si svegliano, non possono dire: “Oggi per un giorno vorrei scendere dalla croce e non occuparmi di mio figlio, solo per far riposare un pochino la mia schiena”. 

Se il fisioterapista non capisce un disagio di Vittoria, chiama la mamma. Se l’insegnante di sostegno ha paura, perché non riesce a capire la motivazione del malessere di Vittoria, chiama la mamma. Quando terminano le ore in cui Vittoria è affidata a loro, chiamano la mamma, e via dicendo.

Ma la mamma, quando ha paura anche lei o è particolarmente provata, chi chiama? E ce ne sono state di circostanze in cui ho perso dieci anni di vita, ogni volta in cui Vittoria ha vomitato coricata, ha avuto crisi epilettiche o mi è sfuggita dalle mani cadendo per terra. 

Siamo tutti genitori che il dolore ha invecchiato, non siamo degli eroi, nessuno di noi è preparato e nessuno ci ha insegnato come si affronta questa realtà. 

Ogni giorno dobbiamo fare i conti con le nostre paure, con il pesante impegno quotidiano che richiede l’accudimento dei nostri figli, ma dobbiamo anche affrontare il rifiuto del mondo, perché non è vero che l’inclusione è un traguardo raggiunto, a partire dalla scuola, da quegli ambienti che dovrebbero proteggere ed accogliere i nostri figli. 

E vogliamo parlare del fardello che la burocrazia ci carica sulle spalle? Ogni giorno in combattimento per elemosinare i diritti che lo Stato stesso ha già riconosciuto loro, ma che non vengono sempre rispettati a causa della superficialità e dell’indifferenza con cui purtroppo molti operatori svolgono il loro lavoro. 

Le conseguenze ricadono sui nostri figli in primis e su noi genitori, lasciati sempre più soli. Questo è quello che pesa di più, la mancanza di solidarietà, di sensibilità, la risposta data con tono arrogante, quando siamo costretti a chiedere quello che necessita ai nostri figli, anche se — grazie a Dio — Vittoria ha incontrato tantissime anime buone e disponibili.

Allora: “Per un giorno vorrei scendere dalla croce e non occuparmi di mio figlio, solo per riposare un pochino la schiena”. Ecco, è bella questa vera realtà, questa schietta semplicità: non è per mancanza di amore che questa mamma scrive questa frase, non è perché vuole disfarsi, liberarsi di Vittoria, ma perché uno è stanco, è stanco, semplicemente stanco. Ma la malattia non si stanca mai di essere malattia, la malattia non conosce sosta, la malattia non va a riposare. Non c’è istante, non c’è minuto in cui la malattia dica: “Adesso mi prendo una pausa”: la malattia è sempre in attività.

Ma i papà e le mamme sono esseri umani e hanno bisogno di riposare, e quando la schiena, le braccia, le gambe, la testa fanno male, quando avresti voglia di una vita come tutti — dove tu ti svegli e vedi la tua bambina che corre giocando, saltando, cantando nel lettone a salutarti al mattino, o ti porta il suo pupazzo preferito, o ti chiama a scendere dal letto perché bisogna aprire i regali di Natale — quando tutto questo sai che a te non succederà mai, perché tu sei chiamato ogni giorno ad andare ai piedi della croce, ai piedi di quella persona crocifissa che è tuo figlio, diciamo che…. è dura. E la voglia di scendere dalla croce e dire: “No. Oggi no. Oggi questa croce no. Oggi anch’io come gli altri; non voglio fare cose speciali, cose strane, non voglio andare a buttarmi da un aeroplano. Non voglio rischiare la vita buttandomi giù da un ponte con una corda attaccata ai piedi” — come tanti ormai hanno imparato a fare stupidamente — “no, oggi voglio essere una mamma normale. E fare la mamma come fanno tutti. Ma per me non è possibile”.

E poi tutti chiamano la mamma, è vero. Quando non si capisce che cosa un bambino ha, che cosa un ragazzo ha, e non si sa come rispondere, non è che uno ci mette la fatica di capire… Oppure, poveretto, uno non ce la fa proprio: che cosa fa? Chiama la mamma! Che uno dice: “Sì, vabbè, e io chi chiamo? E quando sono io che non riesco a capire, che non riesco a gestire, che non riesco a corrispondere, che non so cosa fare, chi chiamo?”. 

Solo al pensiero di dover andare a fare una visita medica e portarla giù dal letto, caricarla sulla carrozzina, prendere la carrozzina, metterla in ascensore, scendere dall’ascensore, poi prenderla, andare, caricare nella macchina, spostare la carrozzina, piegare la carrozzina, metterla nel baule… quando usciamo, uno già è distrutto, deve ancora uscire dal cancello, è già morto! Figurati poi, devi arrivare là e fare tutto al contrario: prendere la carrozzina, aprire la carrozzina, prendere la persona, tirarla giù dalla macchina, metterla sulla carrozzina, sistemare la macchina, prendere la carrozzina, spostare la carrozzina, poi tutte le barriere architettoniche che ci sono, poi l’ascensore non funziona, quell’altro non va bene, quell’altro c’è la coda… Uno dice: “Guarda… Forse non mi muovo”. 

E lei giustamente dice: “E io chi chiamo?”

Questa non è una domanda peregrina, perché “io chi chiamo?” è una domanda giusta, in quanto… sono tutti impegnati. E questa è la cosa incredibile: che non hanno magari una croce così terrificante, perché — parliamoci chiaro — non è che mica tutti abbiamo delle croci così pesanti, abbiamo le nostre piccole quisquilie, suvvia! Eh, ma quando ce l’abbiamo in bocca noi, ragazzi, uno quando le ascolta dice: “Oh, vabbè, siamo arrivati alla fine del mondo!” — “No, io non ce la faccio, ma che peso questa vita, ah, ma c’ho lo stress, ah, ma chiamano tutti me, ah ma devo correre di qua e di là, di su e di giù, ma devo pensare a questo, a quello, a quell’altro, ma che roba, ma mi sento soffocare…”. Vai a fare la mamma sotto la croce come questa mamma per mezza giornata, poi vediamo che cosa dici, se non corri indietro velocemente a riprenderti la tua vita sciatta, vuota, banale. Vita banale! Non siamo capaci neanche ad andare a comprare il latte con un minimo di criterio.

Si è da soli. Il problema è che si è da soli a vivere questi drammi. Sì, a parte — giustamente, come scrive lei — qualche parola di circostanza, poi per il resto sei solo. Sei solo. Non è proprio così facile che degli amici — sì, che poi, appunto, se fossero veri amici, si comporterebbero in un altro modo — dicano: “Bah, guarda, non so. Al posto di uscire a mangiare insieme la pizza, stasera facciamo così: ci facciamo tutti un po’ una pizza, la facciamo chi più chi meno bene, poi qualcun altro prepara il dolce, qualcun altro il gelato, qualcun altro non lo so che cosa e andiamo tutti a casa di Vittoria Maria, della sua mamma e del suo papà, a fare una serata insieme, a mangiare la pizza insieme”, per esempio. 

Eh no! Voglio dire: non è che mi posso rintanare in quella casa a fare il Capodanno. Ma loro non è che possono uscire: queste famiglie con queste situazioni, non possono uscire e andare a mangiare una pizza, banalmente: quanto è difficile già solo mangiare una pizza.

Ma noi non abbiamo tempo, capite? Noi abbiamo tante cose da fare. Che uno dice: “Cos’è che c’hai da fare?” — “Eh, devo stendere i panni!” — “Ah beh, certo! Certo, scusami, che sciocco non averci pensato, è una cosa importante” — “Cos’è che hai da fare?” — “No, sai, devo stirare, devo lavare i pavimenti”. Giusto, certo, stai scherzando? Voglio dire, l’equilibrio del mondo dipende dalle mollette, cioè, non è che stiamo qui a fare discorsi sui massimi sistemi: l’equilibrio del mondo — per certe persone con un cervello un po’ stile bipede piumato — dipende dalle mollette: a posto quello, a posto tutto.

E poi è interessante quando lei scrive: “Dobbiamo affrontare il rifiuto del mondo. Perché non è vero — e se lo scrive questa mamma ci possiamo tutti credere che non è frutto di ideologia — che l’inclusione è un traguardo raggiunto”. Io l’ho sempre detto, io l’ho sempre detto: queste sono parole vuote, parole vuote, bla bla bla bla bla bla… E “inclusione” è una di queste parole vuote: si parla in continuazione di inclusione — come di altre, in genere si usano altri termini — poi vai a vedere bene, tiri su un po’ il tappeto e trovi sotto il mondo. Inclusione di chi? Inclusione di quelli che fanno piacere a te, inclusione di quelli che rispettano il tuo pensiero, di quelli che corrispondono ai tuoi criteri. Ho già fatto il discorso di quelle diversità che io accetto, alle quali dò “diritto di cittadinanza”, perché le riconosco come diversità possibili dentro l’omologazione comune; ma se solo un tantino mi sposto da queste diversità e mi muovo verso le singolarità, è finita, è finita: l’inclusione si conclude, l’inclusione non c’è più. Io ti includo o se tu la pensi come me, oppure se tu corrispondi ai canoni della diversità che ho in testa io, allora ti includo. Ma se non sei uno dei due, sei fuori.

Questa mamma parla di questa situazione, ma ce ne sono tante altre di situazioni dove l’inclusione non è minimamente vissuta e si vive solo di esclusione e dove uno si ritrova escluso, esiliato, emarginato, messo fuori, perché non corrisponde. Eh, certo, tutto questo — lei dice — dalla scuola e da tanti altri ambienti, non solo la scuola. E poi, certo, questo elemosinare i diritti che sono già riconosciuti e che però, non si capisce perché, non vengono dati. È così, è così: quanta arroganza, è vero, quanta arroganza si incontra, quanta arroganza. 

Scrive:

L’altra paura dei genitori è quella di pensare a cosa succederà al proprio figlio quando noi non ci saremo più. Questo è l’incubo più atroce. 

E poi l’angoscia di cercare di interpretare quello che i nostri figli vorrebbero dirci, quello che provano, ma anche veder la compassione in senso negativo con cui vengono considerati da alcuni, è tutto dolore che ingoiamo: loro sono vivi, non sono morti, non sono difetti di fabbricazione. Dio ci avrebbe messo meno di un picosecondo a donare loro quello che ha donato a noi, che ci reputiamo normali secondo gli standard che noi stessi ci siamo creati, ma ciò che è perfetto per noi non è perfetto per Dio, e ciò che per Dio è perfetto, per noi è spesso incomprensibile e quindi inaccettabile.

Dieci e lode, che cosa dobbiamo dire, qui? È verissimo, una sintesi perfetta. Sì, anche questa paura è comprensibile, e dopo? E dopo… a me qui viene da dire alla mamma di Vittoria Maria, come a tutte le altre persone che vivono queste croci, che sotto la croce, c’è una sola cosa che non bisogna fare mai: pensare al futuro. Questa è la tentazione peggiore, non cedete mai a questa tentazione. Perché è il nemico che ci mette addosso questo pensiero, non viene da Dio, assolutamente! Comprensibile, ma dobbiamo starci lontano. La fede ci chiede di pensare al presente. Noi del futuro non sappiamo niente ed è assolutamente inutile angosciarci, è invece più utile mettere questo futuro così complesso interamente nelle mani di Dio. E questo non è un “fervorino” da catechismo della domenica pomeriggio alle cinque. È così, non c’è un’altra via, non c’è un’altra via. 

Ed è vero che ciò che per noi è perfetto, per Dio è imperfetto, e viceversa. È vero. Dio guarda la realtà da un’altra prospettiva. Dal cielo le cose appaiono diversamente.

Non posso fare a meno di vedere negli occhi di quei bambini gli occhi della mia Vittoria, gli occhi di quei genitori sono i miei occhi, le lacrime di quei genitori sono le mie lacrime. 

Fino a qui ho descritto il nostro comune denominatore, ma per la grande misericordia di Dio, gradatamente in me è successo quel miracolo che mi ha permesso e mi permette di vedere Vittoria oggi con occhi diversi. Se oggi sono la persona che Gesù ha plasmato, esclusivamente per sua grazia, lo devo al sacrificio di mia figlia, che ha detto il suo sì incondizionato al progetto d’amore di Dio, ha detto il suo sì alla sofferenza, ha detto il suo sì alla vita anche in questa forma che Dio ha scelto per lei; ora le spiego…

Questa è una cosa sulla quale anch’io non avevo mai riflettuto. Il sì che queste persone, questi ragazzi, questi giovani, queste persone malate, sofferenti, il sì che anche loro dicono a Dio… È bello vedere come questa mamma sia riuscita a leggere nel volto, nella vita di questa sua figlia, un sì: Vittoria Maria per questa mamma è un sì detto a Dio; ma non un sì detto a Dio dalla mamma, è un sì detto a Dio dalla figlia. Lì vive un sì. Nella carne di vittoria Maria, vive un sì. Molto bella questa intuizione materna che ha avuto. E che mi sembra che andrebbe approfondita, sarebbe molto bello approfondire questa intuizione del “sì” nella persona sofferente. 

Per anni ho chiesto la grazia della sua guarigione, ho girato santuari, incontrato sacerdoti, laici, carismatici, esorcisti. Ho portato Vittoria a diverse preghiere di guarigione e liberazione, seguite dalla Santa Messa, convinta che il Signore mi avrebbe concesso quella grazie. Ero io che, pur amando immensamente Vittoria, non accettavo la sua malattia e la sua diversità. Soffrivo quando la gente la fissava per la strada…

Sì, anche questa è una roba che… Bah! Ma cosa c’è da fissare? Cosa c’è da guardare?”. Non so, veramente, in questo mondo dove la diversità è una legge — e guai a non essere diversi in qualcosa, perché sennò sembra che non abbia diritto di vivere — appena tu ti comporti, ti vesti o sei in un modo diverso dal comune sentire di cui sopra vi ho parlato, ti si piantano gli occhi addosso come se fossi un alieno. 

Se io vado in giro vestito da frate, quando arrivo a casa mi devo togliere tutti gli occhi che mi si sono appiccicati all’abito. Uno dice: “Ma cos’è che guardano? Cioè, sono un essere umano che cammina, non hai mai visto un essere umano con gli occhi, la bocca, il naso e le orecchie, le gambe, le braccia? Cosa guardi?”. Ti guardano come se… “Aaah” – “Ma aaah che cosa?” — “Ma è un frate?” — Che cos’è che stai vedendo? Non sono venuto da Marte, sto camminando, sono un frate che parlo, che mangio, che bevo, che respiro come tutti gli altri. 

Appena vedo una diversità — o meglio, scusate — appena vedo una singolarità, che non è una diversità come la intendono loro, subito sono lì che strabuzzano gli occhi. Che povera umanità! Che povera umanità. Siamo talmente omologati, talmente uniformati a un unico pensiero, che appena incontriamo una singolarità che non rientra dentro quelle variabili che ci hanno messo nella testa, subito andiamo in tilt. Cioè, noi siamo uno-zero, andiamo per un linguaggio binario: 01110011000111100, se viene 1.1, tilt! Andiamo in tilt, non capiamo più niente. Sì, ma la vita non può essere 01110011, per favore, per favore!

Un giorno, però, un sacerdote presso il quale ero andata a sfogarmi, a sfogare la mia inconsolabile sofferenza, mi disse una frase che aprì lentamente tutti i canali dei miei sensi, mi disse: “Vittoria è un dono, se fosse nata 5 minuti prima o 5 minuti dopo, non sarebbe stata questa bambina”. Non so come spiegarlo, è come se fino a quel momento della mia vita fossi vissuta in un mondo ovattato tutto mio; dopo quelle parole, era come se le mie orecchie cominciassero poco per volta a sentire, gli occhi a vedere, il cuore a battere, la mente ad accettare; oh, eccome se lavorano le parole giuste in un’anima.

Verissimo! Così come le parole sbagliate, eh.

Il Signore si era servito di quel sacerdote per bussare alla porta della mia anima. Con la parola “dono” aveva ribaltato tutte le mie prospettive; se Vittoria è un dono, allora è speciale: e Gesù ha scelto me come mamma per questo dono speciale, dicevo. 

Da allora cominciai a “vivere Vittoria” — bella questa espressione: Cominciai a vivere Vittoria. Non a vivere “con Vittoria”, ma a vivere Vittoria — non solo con amore naturale di madre, ma con il desiderio di conoscerla sempre di più, di mostrarla agli altri. Ero felice e riconoscente verso il Signore per quel dono. Se prima la sua diversità era per me motivo di sofferenza, ora era divenuto un privilegio. 

Gesù non ha guarito Vittoria, ma tramite lei ha guarito me, è lei il vero miracolo. Me ne accorgo specialmente durante la Santa Messa, quando si sforza di produrre quei quasi monosillabi a noi incomprensibili per cantare l’alleluia, il santus; il suo volto si illumina, gli occhi, la bocca esprimono gioia, a volte ride. Una volta mi sono detta: “Forse siamo noi i veri disabili, non loro”. Vittoria sa perfettamente come si loda Dio, io no. Vittoria capisce perfettamente cosa succede durante la messa, quando riceve la comunione.

È un dono, vedete? Il cammino di fede ci porta a vedere la croce — quella che abbiamo visto fino a oggi come croce — come un dono; la croce, da luogo di dolori, di sofferenza, di morte, diventa il luogo del totale abbandono in Dio, diventa il luogo della salvezza. La croce, da strumento di maledizione, Gesù l’ha trasformata — in virtù del suo amore, con cui è morto — in luogo, in strumento di salvezza. E così questa mamma ha fatto questa esperienza: è riuscita a vedere Vittoria Maria “Croce” in Vittoria Maria “Dono”. E a vedere come anche lei, in un modo suo, singolare, partecipa alla messa. Non c’è un modo solo di partecipare.

Mi sono anche chiesta: “Perché i bambini come lei non partecipano alla messa? Perché i genitori dovrebbero portarli in Chiesa? In cosa dovrebbero credere, se nessuno mostra loro testimonianze di fede? Nessuno dice loro quelle parole nuove di consolazione, di speranza e di vita eterna, che solo Dio può trasmettere, che il mondo non conosce. Tantissimi genitori amano e si prendono cura di questi figli in modo ammirevole, ma il loro amore è solo ed esclusivamente umano. Quelli che vivono alla luce di Dio, rarissimi, vanno a cercare la fonte e il fine di quella sofferenza nella croce di Gesù. Ed ecco che quell’amore per il figlio viene come trasformato, fino a diventare un tutt’uno con l’amore di Dio e si vede, Dio splende in loro.

Sì, c’è bisogno di queste testimonianze di fede. C’è bisogno di cristiani che sappiano dare parole di consolazione, di speranza, che sappiano parlare di vita eterna, anche e insieme a questi genitori. C’è bisogno. Non si può concludere tutto in un amore puramente umano, che è altissimo e bellissimo, ma non è sufficiente. Non è sufficiente; e quindi andrebbero aiutati a capire l’importanza di portare questi ragazzi alla Santa Messa, a frequentare i sacramenti, a ricevere, per quanto possibile, l’Eucarestia. 

Scrive:

È Vittoria che evangelizza, anche se non con le parole, ma con sorrisi, baci, gesti, sguardi colmi di dolcezza e tenerezza, distribuisce carezze d’amore. La cosa più grande è il suo esempio di assoluta obbedienza. Vittoria non può dire o indicare se vuole o non vuole fare quella cosa, andare o non andare in quel posto, lo fa e basta. Ecco, mi dico sempre anch’io, da Vittoria devo imparare l’obbedienza e l’abbandono a Gesù. 

Vi rendete conto quante cose questa mamma ha imparato da questa ragazza? Ha imparato proprio l’essenziale. Estraendo da queste parole il succo distillato, siamo arrivati all’obbedienza. Quello che stiamo vedendo con Bonhoeffer: l’obbedienza della fede. L’obbedienza e l’abbandono, non solo l’obbedienza, l’obbedienza e l’abbandono in Gesù. 

Imparare da Vittoria a essere portati dove il Signore vuole, senza scegliere e decidere niente. È lui che ci porta e di lui ci fidiamo e a lui ci abbandoniamo. Questo potremmo dire che è Sequela — il libro di Bonhoeffer che stiamo commentando — tradotto in vita concreta. Ecco perché mi è sembrato bello fare questa sospensione, che in realtà, come vedete, non è una sospensione, ma è un’applicazione pratica del libro che stiamo meditando. E conclude:

Mi ha consolato tanto leggere la storia della disabilità di frate Ave Maria, servo di Dio, eremita cieco, vissuto a pochi chilometri da dove abito, appartenente all’opera della Divina Provvidenza di San Luigi Orione. Frate Ave Maria mi ha così tanto aperto il cuore che, appena posso, colgo la chiamata di recarmi da sola o con Vittoria presso quell’eremo. Più di una volta mi è capitato di entrare nella sua camera piangendo ed uscirne con una pace indescrivibile.

E dopo ci sono i saluti. 

Ecco, vedete, anche nei consacrati, come frate Ave Maria, ci sono esperienze di sofferenza enorme, grandissima. In conclusione: Vittoria è un dono per la sua mamma, però, lasciatemelo dire, la sua mamma è un grandissimo dono per Vittoria. Ce ne fossero di mamme così! Io sono sicuro che ce ne sono tante di mamme così, di mamme belle, di mamme che sono veramente mamme. Di mamme che non si sono preoccupate, in un giorno preciso della loro vita, di mettere al mondo una vita e basta; ma che hanno una cura e una vicinanza umana e spirituale con i loro figli meravigliosa; ce ne sono di mamme così. E Vittoria è una bambina graziata. Noi abbiamo bambini assolutamente sani che purtroppo non hanno questa grazia. E sono soli, soli, abbandonati.

Mi permetto di dire una parola proprio a questo proposito, su quella pubblicità della pesca; non faccio pubblicità, non voglio fare pubblicità al supermercato, ovviamente, ma quella è una bella pubblicità, diciamocelo. Sarebbe anche da fare una catechesi su quella pubblicità della pesca. E mi ha colpito, mentre ero in sala di attesa in uno studio medico, che era accesa la radio, e ho sentito delle battute proprio brutte, ma veramente che mi hanno disturbato in un modo incredibile contro questa pubblicità della pesca. E ho detto: “Ma pensa te, come si fa a essere così ignoranti? Bisogna essere proprio ignoranti. Ma che tristezza! Ma cosa stan dicendo?”. Che poi non puoi neanche ribattere perché ti viene addosso così… Vabbè. E questi criticavano la pubblicità della pesca, dicendo: “E non se ne può più di ‘sta pesca, non se ne può più di tutto quello che…” Insomma, erano ribelli alla pesca, alla pubblicità della pesca. Eh, certo che sono ribelli. Perché, capito? Tu ti vedi quella bambina con quegli occhi che, in mezzo alla frenesia di un supermercato, del fare la spesa, lei pensa costantemente alla sua mamma e al suo papà da riportare insieme, capite? E mentre la sua mamma dalla casa guarda di sotto col cuore straziato e distrutto, con quello sguardo proprio che ti spacca il cuore in due, la sua bambina che va dal papà per andare col suo zainetto a fare i soliti giorni dei figli dei separati, i soliti weekend, lei, bambina, ha tentato di fare qualcosa, partendo da una pesca.

Vedete, quando si vuole fare bene, quando si vuole amare, non serve un brillante. “Ah, devo fare il regalo alla mia fidanzata e devo comprarle un anello di smeraldi, e devo comprarle l’anello col diamante, e devo comprarle…”. 

Voi direte: “Ma è una pubblicità, padre!”. Fossero tutti così, le pubblicità. Comincerei a guardare la televisione dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina, H24 e senza neanche spegnerla di notte. Questa bambina ci ha insegnato che una pesca vale cento volte di più di un anello pieno di diamanti, di rubini, e di smeraldi. Una pesca. Quella pesca lì che poi il papà prende e mette lì a lato, sulla macchina, sul sedile a fianco. In quella pesca lì c’è dentro tutto, in quella pesca lì c’è dentro il cuore, il presente, il passato, il futuro di quella bambina. In quella pesca! In quella pesca c’è dentro il grido, le lacrime, il sangue, di quella bambina che ti sta dicendo: “Per favore! Ma dove mi stai portando? Ma cosa stiamo facendo? Ma dove stiamo andando, cosa avete fatto? E perché lo state facendo? State distruggendo la nostra famiglia per che cosa? Questa pesca è qui a dirti che non ne vale la pena. Niente è più importante di questa pesca”. Papà la guarda: “Ah, ma veramente te l’ha data la mamma?”. Ma che importanza ha chi me l’ha data. Che importanza ha chi me l’ha data, davanti a quegli occhi, davanti a quella frase, ma che domanda è: “Veramente te l’ha data la mamma?”. No, te la sto dando io. Perché tu, guardandomi, dovresti capire che stai sbagliando tutto: tu e lei insieme. Voi tanto adulti, tanto intelligenti, tanto sapienti, che sapete fare la spesa meravigliosa — e lei guardava solo la pesca mentre passava sul rullo — dovreste capire che dovreste fermarvi, smontare tutto e ritornare indietro. E invece no, questo prende la pesca, e la sbatte lì, sul sedile. Perché cosa volete, è solo una bambina.

E tanti bambini, tanti bambini, veramente darebbero la vita. Sapete che io conosco dei bambini — quando lo sentii, nei miei primi anni di sacerdozio, veramente, guardate mi si è fermato il mondo — che mi dissero: “Sai, Padre Giorgio, io ho fatto una preghiera a Gesù” — “Ah sì? E cosa gli hai chiesto a Gesù?” — “No, no. Non gli ho chiesto niente” — “E allora che preghiera hai fatto?” — “Ho detto questo a Gesù: Gesù, se tu fai ritornare insieme la mia mamma e il mio papà, io sono pronto a morire”.

Saranno passati quindici anni da quelle confessioni, ma io tutte le volte che ridico questa frase mi si ferma il fiato in gola: “Sono pronto a morire”. Ho detto: “Gesù, aiutami, perché adesso qui crollo”. Ma si può arrivare a spingere un bambino a fare una preghiera del genere? Incredibile! Ecco, allora comprate una pesca. Compratela dal fruttivendolo, da chi volete voi, sceglietevi un frutto che sia un segno, che sia un simbolo, dentro a quel simbolo, che non dovrete mai consumare né mangiare, voi chiudete tutto, tutto, perché l’amore è semplicità, l’amore è capace di superare qualunque complessità. Per amore la mamma di Vittoria, tutti i giorni, resta accanto a Vittoria, nella fatica e nella gioia: è lì, accanto a lei, presente. Così dovremmo fare noi e non aspettare che nostro figlio ci regali una pesca. Del resto, cosa poteva regalare questa bambina? Cosa poteva far comprare alla sua mamma per il suo papà? Una pesca, perché nessuno avrebbe mai sospettato che quella pesca potesse racchiudere quel messaggio. 

Cosa avrebbe dovuto fare quel papà? Purtroppo, la storia non è finita bene in quella pubblicità. Potevano farla finire bene, però purtroppo la vita non sempre finisce bene. Forse è stato giusto così, però sarebbe stato bello se l’avessero fatta finire bene, perché abbiamo bisogno alle volte di storie che finiscono bene. Sono un incoraggiamento grande. Come sarebbe stata la fine bella di questa pubblicità, di questa mini-storia? La bambina consegna la pesca, il papà guarda di sopra, vede la mamma che guarda di sotto, che si guardano, ma non si parlano. Prende la bambina, la sgancia dal seggiolino, prende la pesca, chiude la macchina, corre in casa e comincia una nuova vita. Quella pesca ha compiuto il miracolo, quella bambina ha riunito quei genitori.

Ecco, oggi è un giorno dove siamo chiamati non solo a pregare per tutto questo, ma a ringraziare Dio perché ci sono persone così, come questa mamma, come Vittoria Maria, e come tante altre mamme e tante altre Vittorie Maria. E poi dobbiamo pregare Dio perché ci dia la grazia di renderci conto di chi abbiamo accanto. 

E se dovesse arrivarci una pesca, per favore non buttiamola sul sedile della macchina. Non stiamo a guardare i nostri diritti, le nostre offese, “Eh, ma io, ma lei, ma noi, tocca a lei fare il primo passo, tocca a me fare il secondo. E però io ho fatto, però io ho detto, ma basta, ma qui, ma là, mi ha tradito, non mi ha tradito e non ha fatto, non ha…”. Prendi ‘sta pesca! Prendi ‘sta benedetta pesca e torna indietro, torna indietro, torna sui tuoi passi. Ma cosa importa dei diritti, del: “Mi ha fatto male, mi ha fatto qui, mi ha fatto là, ma io ho sofferto, ma io ho già fatto tanto, adesso…”. Ma chi se ne importa, buttate tutto sul legno della Croce. Buttate tutto nel cuore di Gesù Cristo. Tornate indietro con la vostra pesca in mano, ridate a quella bambina, a quel bambino, la gioia di essere al mondo felice, unito dai suoi genitori, dall’amore dei suoi genitori. 

E se vedete qualcuno che vive la situazione di Vittoria Maria e della sua mamma, includete! Ma cosa costa aprire queste benedette case e cosa costa invadere queste altre? “Siamo qua, ci siamo invitati per il pranzo della domenica” – “Ah, ma non ho preparato niente” – “Non ti preoccupare. Non ti preoccupare, abbiamo preparato tutto noi. Hai le forchette? Due forchette di plastica, ce le hai? Hai il piatto? Abbiamo portato noi i tovaglioli, l’acqua e i bicchieri. Non ti preoccupare di niente, abbiamo fatto tutto noi, abbiamo fatto il coniglio con la polenta, con i funghi, abbiamo fatto i pizzoccheri, abbiamo fatto la polenta taragna, abbiamo fatto il pranzo di Babette, mangeremo per tre giorni e tre notti. Siamo qui insieme, a fare un pomeriggio insieme, fare un mezzogiorno insieme, un pomeriggio insieme e anche la cena di stasera”. Regaliamo consolazione, regaliamo speranza, regaliamo presenza, regaliamo umanità, regaliamo inclusione.

Questa mamma mi dice alla fine:

Affido l’intenzione di questo scritto a Maria, a Frate Ave Maria.

E poi dice:

La ringrazio dell’ascolto e l’accompagno con la mia preghiera, affinché lei possa accogliere questa mia richiesta, a Dio piacendo.

Cara mamma di Vittoria Maria, io non so se ho accolto la sua richiesta, se ho esaudito i suoi desideri. Spero di sì, almeno in parte. E guardi, mi creda, spero con tutto il cuore, ma proprio con tutto il cuore, che almeno una persona, una persona, ascoltando queste parole, torni indietro con la pesca, ascoltando queste parole “includa” nella sua vita, in modo serio e radicale, chi è sulla croce, si comporti come Santa Veronica, si faccia carico della sofferenza della persona crocifissa e ci sia: non una volta, non un giorno in un anno, non a Natale perché siamo più buoni, no no, sempre. Lo prenda proprio come suo compito, suo compito d’amore: includere. 

Insieme, aprite queste case, aprite queste case, per l’amor di Dio, aprite queste case! Fatevi invadere le case. Smettiamola di vedere delle case che sono dei sepolcri di vampiri, delle bare! Apriamo le case, apriamo le nostre porte. Facciamo i passi di umiltà di invitare. E non stiamo lì a contare: “Ma dopo devo pulire, ma dopo devo sistemare, ma dopo devo preparare, ma dopo devo fare, ma è un impegno, eh ma poi dopo non sono più libero, eh ma poi dopo se io voglio andare di qua e poi dopo se voglio andare di là, e poi dopo come si fa? E poi dopo diventa una cosa troppo costante, e ma poi dopo…”. Ma che ragionamenti da beduini del deserto, con tutto il rispetto per i beduini del deserto! Per favore, cerchiamo di vivere una vita cristiana, seria, seria! E smettiamo di stare a continuare ad ascoltare meditazioni e meditazioni e omelie, se la nostra vita non cambia. Ma se la nostra vita non cambia, spegniamo tutto e andiamo ad ascoltare le partite di calcio. Fine! Siamo più onesti! Stiamo lì ad ascoltare ore e ore di meditazioni e di omelie e poi non cambia mai un fico di un bel niente! Allora basta, basta: mettiamoci davanti alla televisione e guardiamoci tutte le soap opera del mondo, almeno siamo onesti. Perdonatemi un attimo la lunghezza; ma come diceva la mia amata nonna Anna: “Quando ce vo’, ce vo’!

Benedicat vos omnipotens Deus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus.
Amen
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Sia lodato Gesù Cristo sempre sia lodato.

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