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Omelia: L’origine della solennità di Cristo Re

Stendardo Cristero

Omelia sulle letture del giorno

Pubblichiamo l’audio di un’omelia sulle letture di domenica 22 novembre 2015 (S. Messa del giorno).

Predicatore: p. Giorgio Maria Faré, OCD

Ascolta la registrazione:

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Approfondimenti

La storia della festa può essere fatta risalire al 1899, quando papa Leone XIII stabilì l’11 maggio la consacrazione universale degli uomini al Sacro Cuore di Gesù. Nello stesso anno il gesuita italiano Sanna Solaro scrisse a tutti i vescovi italiani perché sottoscrivessero una petizione per chiedere l’istituzione di una festa liturgica. Quarantanove vescovi aderirono alla petizione.

Sotto il pontificato di S. Pio X l’Episcopato Messicano richiese il permesso di adornare l’immagine del Sacro Cuore di Gesù con i simboli della regalità: corona e scettro. Il 6 gennaio 1914, Epifania del Signore, in tutta la Repubblica messicana venivano aggiunti questi simboli alle immagini e alle statue del Sacro Cuore. Alle ore 11 undici dello stesso giorno, nel santuario di Nostra Signora di Guadalupe si cantarono a voce unanime il Credo e la Salve Regina e poi fu letta la dedica della nazione Sacro Cuore di Gesù. Un coro di 200.000 persone rispose:”Viva Cristo Re” e scoppiarono applausi e grida di giubilo.

Una nuova supplica fu presentata a papa Pio XI dopo il Congresso eucaristico internazionale di Roma, nei primi mesi del suo pontificato, sottoscritta da 69 prelati. Nel 1923 fu presentata una terza supplica, con la firma di 340 fra cardinali, arcivescovi, vescovi e superiori generali. Nella supplica si chiedeva: «Per riparare gli oltraggi fatti a Gesù Cristo dall’ateismo ufficiale, la Santa Chiesa si degni stabilire una festa liturgica che, sotto un titolo da essa definito, proclami solennemente i sovrani diritti della persona regale di Gesù Cristo, che vive nell’Eucaristia e regna, col Suo Sacro Cuore, nella società». La domanda fu sostenuta da duecento ordini e congregazioni religiose, dodici università cattoliche e da petizioni firmate da centinaia di migliaia di fedeli in tutto il mondo.

Finalmente papa Pio XI stabilì la festa con l’enciclica Quas Primas dell’11 dicembre 1925.

Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina.

Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità.

Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.” (Pio XI, Quas primas)

Madonna_di_Guadalupe__Citta_del_Messico_large_(c)_copyright_Laura_Stagno

Tra il 9 e il 12 dicembre 1531, sulla collina del Tepeyac a nord di Città del Messico, la Madonna apparse più volte a Juan Diego Cuauhtlatoatzin, un azteco convertito al cristianesimo. Il nome Guadalupe fu dettato dalla Vergine stessa a Juan Diego: alcuni hanno ipotizzato che sia la trascrizione in spagnolo dell’espressione azteca Coatlaxopeuh, “colei che schiaccia il serpente” (cfr. Genesi 3,14-15), oltre che il riferimento al Real Monasterio de Nuestra Señora de Guadalupe fondato da re Alfonso XI di Castiglia nel comune spagnolo di Guadalupe nel 1340.

Secondo il racconto delle apparizioni, espresso in náhuatl nel testo conosciuto come Nican Mopohua, Juan Diego vide per la prima volta la Madonna la mattina del 9 dicembre 1531, sulla collina del Tepeyac vicino a Città del Messico. Ella gli chiese di far erigere un tempio in suo onore ai piedi del colle: Juan Diego corse a riferire il fatto al vescovo Juan de Zumarrága, ma questi non gli credette. La sera, ripassando sul colle, Juan Diego vide per la seconda volta Maria, che gli ordinò di tornare dal vescovo l’indomani. Il vescovo lo ascoltò di nuovo e gli chiese un segno che provasse la veridicità del suo racconto.

Juan Diego tornò quindi sul Tepeyac dove vide per la terza volta Maria, la quale gli promise un segno per l’indomani. Il giorno dopo, però, Juan Diego non poté recarsi sul luogo delle apparizioni in quanto dovette assistere un suo zio, gravemente malato. La mattina dopo, 12 dicembre, lo zio appariva moribondo e Juan Diego uscì in cerca di un sacerdote che lo confessasse. Ma Maria gli apparse ugualmente, per la quarta e ultima volta, lungo la strada: gli disse che suo zio era già guarito e lo invitò a salire di nuovo sul colle a cogliere dei fiori. Qui Juan Diego trovò il segno promesso: dei bellissimi fiori di Castiglia, sbocciati fuori stagione in una desolata pietraia. Egli ne raccolse un mazzo nel proprio mantello e andò a portarli al vescovo.

Di fronte al vescovo e ad altre sette persone presenti, Juan Diego aprì il mantello per mostrare i fiori: ed ecco, all’istante sulla tilma si impresse e si rese manifesta alla vista di tutti l’immagine della S. Vergine Maria. Di fronte a tale prodigio, il vescovo cadde in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo Juan Diego accompagnò il presule al Tepeyac, per indicargli il luogo in cui la Madonna aveva chiesto Le fosse innalzato un tempio e l’immagine venne subito collocata nella cattedrale.

A causa della sua origine miracolosa, l’immagine della Madonna di Guadalupe è oggetto di devozione paragonabile a quella rivolta alla Sindone. La sua fama si sparse rapidamente anche al di fuori del Messico: nel 1571 l’ammiraglio Gianandrea Doria ne possedeva una copia, dono del re Filippo II di Spagna, che portò con sé sulla propria nave nella battaglia di Lepanto. Negli anni venti del XX secolo i Cristeros, cattolici messicani che si erano ribellati al governo anticlericale, portavano in battaglia l’immagine della Virgen morenita sulle proprie bandiere.

Il mantello è del tipo chiamato tilma: si tratta di due teli di ayate (fibra d’agave) cuciti insieme. L’immagine di Maria è di grandezza lievemente inferiore al naturale, alta 143 cm. Le sue fattezze sono quelle di una giovane meticcia: la carnagione è scura. Maria è circondata dai raggi del sole e ha la luna sotto i piedi; indossa una cintura di colore viola che, tra gli aztechi, indicava lo stato di gravidanza; sotto la luna vi è un angelo dalle ali colorate di bianco, rosso e verde (i colori dell’attuale bandiera messicana), che sorregge la Vergine.

La disposizione delle stelle sul manto non sembra casuale ma rispecchierebbe quelle che in cielo, da Città del Messico, era possibile vedere nel dicembre 1531.

Alcuni autori, che hanno eseguito degli studi scientifici sul mantello, sostengono che effettivamente l’immagine non sarebbe dipinta, ma acheropita (non realizzata da mano umana); essa presenterebbe inoltre caratteristiche particolari difficili da spiegare naturalmente.

A memoria dell’apparizione, sul luogo fu subito eretta una cappella, sostituita dapprima nel 1557 da un’altra cappella più grande, e poi da un vero e proprio santuario consacrato nel 1622. Infine nel 1976 è stata inaugurata l’attuale Basilica di Nostra Signora di Guadalupe.

Nel santuario è conservato il mantello (tilmàtli) di Juan Diego, sul quale è raffigurata l’immagine di Maria, ritratta come una giovane indiana: per la sua pelle scura ella è chiamata dai fedeli Virgen morenita (“Vergine meticcia”). Nel 1921 Luciano Pèrez, un attentatore inviato dal governo, nascose una bomba in un mazzo di fiori posti ai piedi dell’altare; l’esplosione danneggiò la basilica, ma il mantello e il vetro che lo proteggeva rimasero intatti.

L’apparizione di Guadalupe è stata riconosciuta dalla Chiesa cattolica e Juan Diego è stato proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II il 31 luglio 2002.

La Madonna di Guadalupe è venerata dai cattolici come patrona e regina di tutti i popoli di lingua spagnola e del continente americano in particolare, ridando vigore al culto di Nostra Signora del comune spagnolo di Guadalupe del XIV secolo. La sua festa si celebra il 12 dicembre, giorno dell’ultima apparizione.

di Mario Iannaccone

Nel silenzio internazionale, tra il 1925 e il 1929, il Messico visse una tragedia senza precedenti. Il governo della Repubblica, retto da un piccolo gruppo di potere chiamato gli uomini di Sonora provenienti dal nord massonico e protestante, decideva di inasprire le leggi antireligiose, che già colpivano i cattolici, con provvedimenti che resero impossibile ogni manifestazione religiosa. Era già accaduto nel 1874 e in altri momenti della storia messicana, poi il trentennale dominio di Porfirio Díaz, convertitosi dopo la morte della moglie, aveva calmato gli animi.

Caduto Díaz era scoppiata la Rivoluzione, dominata da elementi giacobini e radicali, durante la quale, nel 1917, fu approvata una costituzione ferocemente antireligiosa. L’occasione di applicarla in tutta la sua radicalità arrivò con Plutarco Elia Calles che, con la Ley Calles del 1925, ne impose l’applicazione rigorosa in tutta la Federazione. La Chiesa perse ogni autonomia giuridica, fu accusata d’essere retrograda e responsabile di tenere il popolo nell’ignoranza dei propri diritti. Mai menzogna fu più palese giacché i sindacati cattolici erano i più attivi del Paese; il vivace laicato cattolico messicano aveva elaborato ambiziosi programmi di sviluppo delle classi meno abbienti, ispirandosi a un modello economico e associativo che proveniva dal cristianesimo sociale tedesco e dalla Rerum Novarum. Associazioni di mutuo soccorso, leghe, patronati, associazioni giovanili come l’Acjm, l’Up, con milioni di aderenti, aiutati da un’attiva Conferenza episcopale, organizzavano cooperative per aiutare i più bisognosi, istituivano scuole, centri di apprendistato. I sindacati cattolici miglioravano la condizione dei lavoratori distribuendo terre e istituendo banchi di mutuo soccorso. Tutto ciò infastidiva il terribile Crom, il sindacato di estrema sinistra retto da Luis Morones. Costui fu tra i più accesi sostenitori di quella Ley Calles che impedì la vita religiosa e comportò l’espulsione del clero, la cancellazione d’ogni cerimonia o rito, la confisca di tutte le istituzioni cattoliche (chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità).

Dal 1° agosto 1925 la Chiesa sparì dalla vita del religiosissimo popolo messicano. A quel punto si verificò ciò che nessuno aveva previsto: centinaia di migliaia di persone, appartenenti a tutti gli strati popolari, male armati, si diedero alla macchia in un’insurrezione spontanea. La gran parte dei vescovi, temendo un bagno di sangue, gridò alla moderazione. Ma cinque fra loro, provenienti dalle zone più colpite dai provvedimenti di Calles, non s’opposero: se Cesare diventa un tiranno, il popolo ha diritto di difendere la propria libertà, la propria anima. I generali dell’Esercito Federale pensavano di sconfiggere in breve tempo quegli insorti inesperti e male organizzati. Tuttavia, l’organizzazione si consolidò in pochi mesi, anche perché sostenuta da gran parte della società civile. Così nacque la «Cristiada», l’insurrezione di Cristo Re che coinvolse milioni di persone, costrinse i papi ad intervenire con tre encicliche, preoccupò le cancellerie di mezzo mondo. Interi Stati della zona centrale della Federazione caddero sotto il controllo di un esercito Cristero sempre più potente, organizzato e favorito dalla popolazione. La reazione dello Stato fu rabbiosa: massacri indiscriminati, campi di concentramento, impiccagioni di massa. I Cristeros erano in gran parte contadini ma vi erano anche cittadini: impiegati, funzionari, avvocati, studenti. La loro rete era sostenuta, talvolta affiancata, anche da una resistenza pacifica cittadina (il cui martire fu san Miguel Pro) che ricorreva ai boicottaggi, all’informazione, e cercava di far continuare la vita sacramentale nel nascondimento, come nell’Inghilterra anglicana o nella Russia sovietica. Migliaia di donne inquadrate nelle Brigate di Santa Giovanna d’Arco, sfidando ogni pericolo, procuravano le munizioni ai Cristeros, i quali arrivarono ad essere, agli inizi del 1929, quasi 50.000, in gran parte sottoposti alla disciplina di un esercito regolare. Pregavano, organizzavano messe da campo, non trascuravano il lavoro della terra o l’educazione dei figli. Intere comunità vissero per tre anni sulle falde dei vulcani di Colima, a Jalisco e Michoacán, dove si creò un contro-Stato perfettamente organizzato, grazie a personalità come il beato Miguel Gomez Loza.

Due generali spiccarono fra tutti: Gorostieta e Degollado. I soldati erano eroici, pronti al martirio per «conquistarsi il Paradiso» – come dicevano – se il prezzo della sconfitta era l’estirpazione del cristianesimo dal Messico. Nonostante l’appoggio logistico degli Usa che consentiva ai federali di non cedere, i Cristeros restarono saldi, e ad ogni sconfitta si moltiplicavano tenendo in scacco il nemico. Per anni il Messico restò diviso fra zone Cristero e zone controllate dai Federali; l’economia collassò, i morti furono decine di migliaia: 300.000 contando le vittime di malattie, fame, campi di concentramento. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros ma la diplomazia internazionale con gli Arreglos del 1929. La «Cristiada» stava procurando troppi lutti, la guerra rischiava di durare, occorreva un cessate il fuoco. Il vescovo Pascual Díaz, che avrebbe pagato con l’incomprensione la sua posizione moderata, riuscì a far firmare gli accordi senza immaginare che per 10 anni il governo li avrebbe traditi. Quando deposero le armi, i Cristeros furono uccisi a migliaia dai nemici, per vendetta. Il primo a raccontare con equilibrio questa storia dopo decenni d’oblio è stato lo storico francese Jean Meyer. Partito da posizioni ostili, egli ha cambiato il suo giudizio sui Cristeros sino ad arrivare, addirittura, alla conversione. L’epopea della «Cristiada», così poco conosciuta, con le sue decine di martiri canonizzati, innumerevoli eroi sconosciuti, e un esercito vincente che depose le armi su richiesta dei propri vescovi, è rubricata nei libri, incredibilmente, come un “episodio minore” della storia.

(Fonte: Avvenire, 25 giugno 2013)

Bibliografia essenziale sulla vicenda dei “Cristeros”

Autore: Luigi Ziliani

Titolo: CRISTIADA – MESSICO MARTIRE

Editore: Amicizia Cristiana

ISBN-978-88-89757-45-1

Pagg. 216 – € 15,00

“La storia della Chiesa in Messico rappresenta un esempio di coraggio e resistenza, sottomessa a una violenta ostilità dal 1911 al 1940. Fu così aspra che Pio XI la paragonò a quella dei primi secoli cristiani.
Le forze liberali e massoniche trionfatrici nel 1917, erano nelle mani di uomini visceralmente nemici della Chiesa, che operarono nel tentativo di cancellare per sempre l’uomo cattolico messicano. Una così forte intolleranza era dovuta al carattere popolare del Cattolicesimo messicano, la cui diffusione fra la gente era così incomoda da dover essere soppressa con la forza. All’inizio, poiché era impossibile realizzarlo con le armi, si cercò di farlo con le leggi. Ma quando si dimostrarono inefficaci, si tornò ai plotoni di esecuzione.
Nessuno dei Martiri fu sottomesso a un processo legale; nessuno fu condannato per crimini accertati dalla legge. Come in ogni persecuzione, il motivo della condanna fu la semplice appartenenza esplicitamente professata a Gesù Cristo, confessato senza ambiguità con quel grido ripetuto mille volte da quei martiri prima di morire: Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe!
Il “basso popolo cristiano”, secondo l’espressione usata dai massoni e dai liberali riformisti di allora, rimase fedele alla sua fede nonostante le ostilità della massoneria infiltrata nella borghesia economica e intellettuale.
Molti sacerdoti morirono mentre si recavano a celebrare la messa (nonostante la proibizione di farlo), alcuni con le specie consacrate in bocca, per difenderle dalla profanazione.”

(dalla quarta di copertina del libro)

Autore: Pio XI

Titolo: ENCICLICHE SULLE PERSECUZIONI IN MESSICO 1926-1937

Editore: Amicizia Cristiana

ISBN-978-88-89757-46-8
Pag. 80 – € 7,00

“Dopo la promulgazione della Costituzione di Querétaro del 6 gennaio 1926 — che conteneva disposizioni miranti al totale annullamento della presenza della Chiesa nella società messicana — Pio XI intervenne ufficialmente con l’epistola apostolica Paterna sane (2 febbraio 1926) rivolta all’episcopato messicano. Esprimendo una crescente preoccupazione, cercava di indicare alla Chiesa locale direttive concrete di resistenza.
Ma una nuova legge del 14 giugno dello stesso anno (legge Calles), veniva proibita ogni manifestazione religiosa e ogni abito ecclesiastico fuori dalle chiese, si concedeva il permesso di svolgere funzioni di culto solo a un ristretto numero di sacerdoti indicati dallo Stato. A questa ennesima provocazione la Chiesa rispose sfidando apertamente il governo con lo sciopero del culto pubblico. Il Papa approvò la decisione dei vescovi, confermando l’appoggio alla Chiesa messicana con un solenne atto ufficiale: l’enciclica del 18 novembre, Iniquis afflictisque, ora rivolta a tutta la Chiesa. Il documento ripercorre la storia della persecuzione e addita al mondo l’esempio di fedeltà del popolo messicano, in modo particolare dei sacerdoti e dei laici.
Nel settembre del 1932 Pio XI intervenne nuovamente sulla questione messicana con l’enciclica Acerba animi magnitudo, con la quale ripercorre le tappe della storia di quegli anni, invitando i cattolici a una nuova resistenza.
Nel 1937, con l’ultima enciclica dedicata al Messico, Firmissimam constantiam, Pio XI riconosceva addirittura, in particolari circostanze, la legittimità di una resistenza armata contro un potere dispotico e oppressivo.”

(dalla quarta di copertina del libro)

Film: CRISTIADA

Titolo originale: For Greater Glory – The true story of Cristiada
Paese di produzione: Messico
Anno: 2012
Durata: 143 min
Regia: Dean Wright
Distribuzione (Italia) Dominus Production s.r.l.

Trama

Il film è aperto dai titoli che descrivono gli articoli anticlericali presenti nella Costituzione del Messico del 1917. Quando il neoeletto presidente messicano, Plutarco Elías Calles (Rubén Blades), avvia una violenta e implacabile repressione contro la fede cattolica, nel paese scoppia una guerra civile (indicata successivamente come guerra Cristera). Le chiese sono date alle fiamme, si verificano omicidi di preti e contadini, i cui corpi vengono poi appesi ai pali del telegrafo quale monito.

La storia si sposta allora su Padre Christopher (Peter O’Toole), prete cattolico spietatamente ucciso dai Federales. Il tredicenne José Luis Sanchez (Mauricio Kuri), testimone del delitto, si unisce ai ribelli, i Cristeros, guidati dal generale in pensione Enrique Gorostieta Velarde (Andy Garcia), ateo, che prende il ragazzo come suo protetto. Catturato durante uno scontro con i Federales, José è sottoposto a tortura. Il ragazzo, però, non rinuncia alla sua fede e per questo è messo a morte. L’anno seguente anche il generale Gorostieta muore in battaglia, nello stato di Jalisco.

Nel 1929, accordi tra le due fazioni pongono fine ai combattimenti e viene ristabilita la libertà religiosa. Papa Benedetto XVI ha beatificato José nel 2005, con altri dodici martiri tra i Cristeros.

“Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, – signor curato, – cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso lungo e serio:
– signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
«Hanno votato il sacco stamattina coloro», pensò don Abbondio; e rispose borbottando: – monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.
– Domando, – riprese il cardinale, – se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.
– Veramente… se vossignoria illustrissima sapesse… che intimazioni… che comandi terribili ho avuti di non parlare… – E restò lì senza concludere, in un cert’atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
– Ma! – disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: – è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.
– Monsignore, – disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, – non ho già voluto dire… Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare… Però, per, dico… so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto… Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
– Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
– E non avete avuto altro motivo? – domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
– Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, – rispose questo: – sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio.
– E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?
– Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita…
– E quando vi siete presentato alla Chiesa, – disse, con accento ancor più grave, Federigo, – per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata:
– monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla.
– E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.
«Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote». E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma.
– Torno a dire, monsignore, – rispose dunque, – che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare.
– E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piùttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta.
A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
– Voi non rispondete? – riprese il cardinale. – Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva. L’avete ubbidita puntualmente: s’era fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell’agio i suoi disegni d’insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati de’ pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo -. E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta.
«Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone», pensava don Abbondio; ma non dava segno d’aver nulla da dire; onde il cardinale riprese:
– se è vero, che abbiate detto a que’ poverini ciò che non era, per tenerli nell’ignoranza, nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva… Dunque lo devo credere; dunque non mi resta che d’arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che v’ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V’ha condotto… ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono… v’ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.
«Ecco come vanno le cose, – diceva ancora tra sé don Abbondio: – a quel satanasso, – e pensava all’innominato, – le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi». E ad alta voce, disse:
– ho mancato; capisco che ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
– E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de’ colpi da dare, ma non de’ comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegl’innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe andati per la sua strada: avendone presa un’altra, ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che non era aperta alcuna via di scampo, quand’aveste voluto guardarvi d’intorno, pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que’ vostri poverini, quando fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a fuggire dalla faccia del potente, s’eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di riprendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo d’aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro ministero?
«I pareri di Perpetua!» pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a que’ discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi.
– Come non avete pensato, – proseguiva questo, – che, se a quegli innocenti insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c’ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
«Proprio le ragioni di Perpetua», pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
– Ma voi, – proseguì e concluse il cardinale, – non avete visto, non avete voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
– Gli è perché le ho viste io quelle facce, – scappò detto a don Abbondio; – le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto.
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: «ora vien la grandine». Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
– Pur troppo! – disse Federigo, – tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l’esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov’è mancato l’esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono.
«Oh che sant’uomo! ma che tormento! – pensava don Abbondio: – anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé». Disse poi ad alta voce:
– oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? – E tra sé soggiunse: «anche troppo».
– Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, – disse Federigo, – perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io, basta a confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
– Tutto casca addosso a me, – disse don Abbondio: – ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
– Me l’hanno detto, figliuolo: ma questo m’accora, questo m’atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d’accusa da ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v’avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d’un perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro preghiera.
Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
– Ora, – proseguì questo, – uno fuggitivo da casa sua, l’altra in procinto d’abbandonarla, tutt’e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia nascere.
– Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, – rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
– Ah sì, figliuolo, sì! – esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse: – lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutt’e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto, in quel giorno, d’avervi mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.”

(da “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, Capitoli 25 e 26 )

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Omelia: L’origine della solennità di Cristo Re

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia lodato!

Quest’oggi, la Chiesa ci invita a celebrare solennemente Cristo, Re dell’Universo, e da questa domenica si aprirà poi, con la prossima domenica, la prima domenica di Avvento, il tempo che ci prepara al Natale; si conclude l’anno liturgico e siamo invitati a riflettere sulla regalità di Cristo.

È opportuno che ci chiediamo dove nasce la festa di Cristo Re, da dove è saltata fuori questa solennità e in che modo è saltata fuori.

Avrà una sua storia, una sua origine, questa festa… ovviamente la risposta è: «Sì », e, per comprenderne il senso, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, in particolar modo tutto avviene il 6 gennaio 1914 e tutto nasce in Messico.

Purtroppo, i nostri ragazzi a scuola non studiano quello che stamattina vi dirò, ma a dire la verità non lo abbiamo studiato neanche noi, non l’ho studiato neanche io, che sono diventato prete.

Nonostante i settantadue esami e la licenza in Teologia fondamentale, nonostante questo, non ho mai studiato questa cosa; un motivo ci sarà ovviamente, non è importante quest’oggi analizzare i motivi, sta di fatto che sui libri di storia questa cosa non è citata.

Non è citato che nei primi anni del ‘900, in Messico, si è consumata una delle stragi più terribili dei Cristiani, si è consumata una violenza terrificante sotto la dittatura di Calles, nei confronti del popolo messicano e dei Cristiani messicani.

Decine, migliaia di Cristiani, di sacerdoti, di papà e di mamme, di famiglie, di bambini, sono stati sterminati a motivo della loro fede, e se oggi in Messico ci sono ancora Cristiani, lo si deve solo a questi martiri della fede, che hanno resistito fino al sangue.

Questo non dobbiamo dimenticarlo, perché vuol dire dimenticare il sacrificio che loro hanno fatto, e lo hanno fatto anche per noi.

Ancora oggi in Messico si patisce una forte persecuzione, ma almeno il germe cristiano cattolico non è stato completamente estinto ed estirpato.

Tutti sapete quanto accadde il 9 dicembre 1531, perché è famosissimo ed è ciò che sta ancora prima della festa di Cristo Re, cioè l’apparizione della Madonna a Guadalupe.

Tutti noi conosciamo la Madonna di Guadalupe e tutti sappiamo che cosa accadde a Juan Diego, quando lui, vedendo la Madonna, venne invitato ad andare dal Vescovo, a raccogliere dei fiori che stavano sulla cima del monte, anche se era dicembre, e a metterli nel suo mantello grezzo, brutto, da pastore, per portarli al Vescovo.

La cosa stupefacente fu che, quando gli aprirono di forza il mantello, per vedere cosa portava dentro perché lui voleva andare dal Vescovo, uscì un profumo fortissimo, caddero queste rose bellissime ai piedi del Vescovo, in dicembre, cosa impossibile, e sul mantello si vide impressa l’immagine della Madonna di Guadalupe, una immagine stupenda, che non è dipinta da mano d’uomo, non è mai venuta meno e che è sempre rimasta fresca.

Fu costruito un santuario, una cattedrale, dedicata a Lei, divenne la protettrice del Messico e da allora tutto il popolo messicano fece riferimento alla Madonna di Guadalupe.

Ebbene, intorno al 1920 ci fu questa terribile persecuzione del popolo messicano sotto il dittatore Plutarco Elias Calles, i Cristiani si allearono, diventando quelli che poi conosciamo essere “i Cristeros”, e si opposero al tiranno, giustamente seguendo quanto diceva San Tommaso, cioè che è più che doveroso opporsi al tiranno, dopo aver cercato in ogni modo di parlare.

Accadde questo fatto veramente singolare che, innanzitutto, il Papa Benedetto XIV, riferendosi all’apparizione della Madonna di Guadalupe, disse: “Non fecit Deus taliter

omni nationi”, per nessuna nazione Dio fece così tanto come avvenne a Guadalupe, perché Guadalupe e il movimento dei Cristeros sono strettamente collegati.

Fu proprio l’amore per la Madonna di Guadalupe che mosse questi Cristiani a reagire, a voler salvare la loro identità cristiana, infatti in nessuna nazione accadde un fatto così singolare.

Poi, il 6 gennaio del 1914, accadde questo: l’Episcopato messicano richiese al Pontefice San Pio X il permesso di adornare l’immagine del Sacro Cuore di Gesù coi simboli della regalità, corona e scettro, e in questa data, Epifania del Signore, in tutta la Repubblica, venivano aggiunti questi simboli alle immagini e alle statue del Sacro Cuore, venivano messi sotto le bandiere e su di esse veniva scritto: “Viva Cristo Re”.

I Cristeros morirono gridando: «Viva Cristo Re!», andavano a combattere inneggiando: «Viva Cristo Re!».

Infatti Calles, che disse: «Ma no, sono solamente trenta esaltati, li stermineremo in un quarto d’ora», non si trovò davanti trenta esaltati e non riuscì a sterminarli in un quarto d’ora, anzi, morì lui ma non i Cristiani.

Allora dobbiamo sentire dentro di noi l’importanza della devozione nei confronti di Cristo, Re e Sacerdote dell’Universo, sapendo che questa festa nasce fondata sul sangue dei martiri, di un popolo che ha voluto affermate in tutti i modi la regalità di Cristo.

Non posso questa mattina concludere questa omelia senza leggere la preghiera di giuramento, che questi Cristiani facevano prima di andare a combattere.

È una cosa incredibile, che noi, nella nostra mediocrità, neanche possiamo immaginare!

Innanzitutto lo stendardo con l’immagine di Cristo Re era sempre protetto da due guardie d’onore e, davanti a questa immagine, questi Cristiani, quando decidevano di arruolarsi, cioè di dare la loro disponibilità per difendere la fede, erano chiamati a fare un giuramento che li legava tra di loro e li legava a Dio.

Sentite che bello: “Io giuro solennemente per Cristo Re, per la Santissima Vergine di Guadalupe, Regina del Messico, e per la salvezza della mia anima: 1) mantenere assoluto segreto su tutto quello che può compromettere la santa causa che abbraccio; 2) difendere con le armi in mano la completa libertà religiosa del Messico. Se osserverò questo giuramento, che Dio mi premi, se mancherò, che Dio mi punisca.”

Spesse volte i Cristeros morivano dicendo: «Arrivederci in Paradiso!»

Siamo lontani noi da questa logica, da questa mentalità, possiamo anche dire da questa fede, perché a noi oggi, vivendo in questo relativismo, va bene tutto, non ha importanza che sia Gesù o un altro, non ha importanza neanche la nostra identità religiosa, vanno bene tutte.

Non ha importanza più pensare alla regalità di Gesù, a quando Gesù ha detto: «Io sono Re e sono venuto ad annunciare la verità, a dare testimonianza alla verità».

La verità è una, non ce ne sono mille di verità, e allora dovremo chiederci quanto la nostra anima grida: «Viva Cristo Re!»

Il primo nemico da abbattere è il peccato, è tutto ciò che ci lega al peccato, tutto ciò che ci tiene lontano da Gesù, tutto ciò che ci fa infangare i dieci Comandamenti, sono questi i primi nemici di Cristo che noi dobbiamo scacciare!

Loro ovviamente hanno avuto dei nemici anche fisici, di fronte ai quali, prima, hanno fatto di tutto per potere evitare di doversi difendere addirittura con le armi, hanno fatto di tutto, hanno tentato qualsiasi strada.

Già San Tommaso D’Aquino diceva che, se dopo averle tentate tutte, se dopo tutto, non si riesce, allora è lecito e doveroso opporsi con la forza.

Loro hanno avuto questa strada, noi abbiamo innanzitutto la strada di affermare la regalità di Cristo nella nostra vita, perseguitando, combattendo e sconfiggendo i peccati, tutto ciò che ci separa da Cristo.

Quindi dobbiamo imparare da loro questa fedeltà assoluta a Gesù, questa lotta alla mediocrità, questo rigore interiore, che ci spinge a morire, come diceva San Domenico Savio, piuttosto che cedere anche di un passo al peccato.

“La morte ma non il peccato!”, questo era il motto di San Domenico Savio.

La nostra vita ha bisogno di essere rivista, certamente ciò che dobbiamo rifuggire, ascoltando il Libro dell’Apocalisse, è il peccato, certo, questo in tutta la Scrittura, ma non dimentichiamo la mediocrità.

Dice l’Apocalisse: “Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.

Parole forti, parole vere, Parole di Dio!

Una vita mediocre che cos’è?

È una vita compromessa col mondo, è una vita che non vuole disturbare nessuno, è una vita che pensa a sé stessa, che pensa a salvare sé stessa, che non vuole rischiare niente per il Signore, a cui va bene tutto, che accetta tutto, che ingoia tutto, è la vita degli scribi e dei farisei, è la vita degli ipocriti.

È la vita di Don Abbondio, che, pur di non perdere la sua pelle, rinnega la verità, rinnega la giustizia e perseguita gli innocenti, quali erano Renzo e Lucia, costringendo entrambi a delle esperienze terribili, perché quello che accade a loro è dovuto solo all’inettitudine di Don Abbondio.

Quanti Don Abbondio ci sono nella nostra vita e nella storia, vestiti sotto mille panni!

Quanti Don Abbondio! Gente che cerca solo di salvare sé stessa, di pascere sé stessa, di difendere sé stessa, di pensare a sé stessa, ma «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà», dice Gesù.

Andate a leggere nel Manzoni, nei Promessi sposi, che cosa dirà il Cardinale Federico a Don Abbondio.

Mamma mia! Gli fa una reprimenda! Poi, dopo, da santo qual era, ammorbidisce, ma le parole che usa… gli dice: «Ma a lei, quando ha accettato di diventare prete, chi ha fatto sicurtà della vita? Chi le ha detto che lei avrebbe avuto salva la vita? Non era suo compito difendere la verità e difendere questi due poveri uomini, anche a costo della vita?»

Ma che parole tremende ascolteremo noi da Gesù?

Gesù a Santa Brigida di Svezia, prima di oggi, qualche centinaio di anni fa, disse proprio questo: «Mi vogliono far passare come un Dio iniquo, perché tutti parlano della mia Misericordia e nessuno parla della mia Giustizia», e aggiunse: «Come potrei essere un Dio iniquo? Come posso ammettere nello stesso modo il giusto e l’ingiusto? Come posso non guardare ciò che di empio fa l’uomo? Questo vorrebbe dire che io sono un Dio iniquo. Io sono misericordioso e giusto, e fa parte della Misericordia essere giusto, e fa parte della Giustizia essere misericordioso, ma sono tutte e due, non si può togliere una a vantaggio dell’altra».

Se poi andate a leggere il Trattato di Santa Caterina da Genova sul Purgatorio, c’è un paragrafo proprio dedicato a questa stessa questione, quasi a dire: «Non dimentichiamoci che noi siamo chiamati con la nostra vita a rendere conto a Dio, ogni giorno, di quanto Lui è veramente il Re, di quanto Lui è veramente il Signore, il Sovrano della nostra esistenza».

Ovviamente, il luogo nel quale maggiormente noi vediamo la presenza di Cristo sono i Sacramenti, tutti i Sacramenti; dal Battesimo, da quanto noi ci ripensiamo e riflettiamo su questo Sacramento, a tutti gli altri, non ultimo il Sacramento della Confessione, non ultimo il Sacramento dell’Eucarestia.

Quanto poco tempo noi diamo a Gesù, per esempio, nell’Eucarestia… ma Lui è il Re o no?

È strano che sia il Re e sia sempre solo, è strano che sia il Re e venga preferito altro a Lui: si preferisce chiacchierare con le persone, si preferisce la compagnia delle persone, si preferisce il correre di qua e di là, si preferisce il fare e fare, perché noi sempre dobbiamo fare, dobbiamo essere lì che corriamo e che facciamo, che brighiamo…

Il Papa parla dei luoghi di potere… appunto, fare per potere, fare per essere, fare per apparire…

Noi dovremmo avere un desiderio solo: stare ai piedi del Maestro, stare alla presenza dell’Eucarestia!

Lasciamo correre chi vuole correre, tanto alla fine dovremo fermarci tutti perché la morte arriverà per tutti, e poi, cosa corriamo a fare?

Lui, Gesù, che è Colui che ci tiene in vita ogni minuto, che basterebbe solo che, battendo le ciglia, distogliesse lo sguardo un secondo e noi saremmo morti, Lui, è quello per cui non c’è mai tempo.

«Ciao Gesù, devo andare! Scusa Gesù, ma sono di fretta!»

Poi, quando andiamo a pregare, ci addormentiamo…

È proprio un Re… ma neanche davanti alla sguattera ti comporti così, neanche davanti a uno schiavo ti puoi comportare così!

Invece, davanti a Gesù Cristo va bene tutto: andiamo di corsa, ci distraiamo…

Santa Teresa di Gesù diceva: «Quando vai a pregare, pensa a quello che dici e a chi lo stai dicendo!» Non dimenticatelo mai, pensate a quello che dite e a chi lo dite!

Tra noi, tante volte, anche alla Messa, non sembra che emerga questa cosa, non sembra che si senta questa percezione di essere alla presenza di Cristo, Sommo Re e Sacerdote, di Colui davanti al quale tutti gli Angeli tremano.

Non si vede questa regalità, non si sente in bocca questa regalità di Cristo!

Troppa fretta abbiamo di trattare col Signore e poi ci lamentiamo perché la nostra vita fa acqua da tutte le parti.

La frase tipica che si sente è: «Sono freddo, non sento il Signore», oppure: «Non cambio mai, faccio sempre gli stessi peccati, non riesco a correggermi, non riesco a pregare, non riesco ad amare, non riesco a perdonare».

Certo! Ma certo! Quante ore passi davanti al tabernacolo? Zero? Bene, allora, la tua vita spirituale è morta! Morta! Non c’è! Non c’è nulla della vita di grazia! Nulla!

Invece passiamo tante ore a fare altre cose: al telefono, al computer, davanti alla televisione, a fare lo sport… tutte cose bellissime e sanissime, ma se Cristo è Re, allora deve essere il primo in tutto!

Se noi Lo trattassimo da Re, Lui ci tratterebbe da Suoi Cavalieri, e allora la nostra vita germinerebbe diversamente, avremmo in mano una vita saporosa, bella, piena, gioiosa, anche sotto la croce più terribile, una vita ordinata a Cristo, che è il nostro unico fine.

Sarebbe bello che questo Avvento portasse con sé un proposito, uno, un proposito vero!

Permettetemi di suggerirvene uno e mezzo: la Santa Messa tutti i giorni e la confessione frequente.

Non sto bestemmiando, non guardatemi con quell’occhio sbarrato come se avessi detto una bestemmia!

Padre Pio diceva che il mondo può stare senza il sole, ma non senza la Messa. Un’anima può stare senza mangiare e senza bere, ma non senza la Messa!

Ecco, fate queste due cose per il tempo di Avvento, non state a pensare ai dolci, alla marmellata, al panettone… mangiate tutti i panettoni che volete, sbaffate due chili di marmellata al giorno, non ha importanza, mangiate tutto il cioccolato della terra, con quelle cose lì fate tutto quello che volete, riempitevi la pancia fino a scoppiare, ma Messa tutti i giorni e confessione frequente.

Voi fatelo per il tempo di Avvento… arriverà Natale che voi vi troverete cambiati da così a così, provate e vedete!

Se non è vero, me lo dite e io dirò qui all’altare: «Ho sbagliato», ma se voi lo fate a partire da domani fino al 25 dicembre, voi, alla notte di Natale, toccherete il cielo, toccherete la volta di questa chiesa con un dito!

Voi direte: «Mamma, che miracolo!» Certo! Hai messo Gesù al centro? Nel momento in cui tu godi della compagnia di Gesù, Lui ti prende e ti eleva fino al Paradiso.

Sia lodato Gesù Cristo!

Sempre sia Lodato!

 

Prima lettura

Dn 7,13-14 – Il suo potere è un potere eterno.

Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.

Salmo responsoriale

Sal 92

Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.

È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre,
dall’eternità tu sei.

Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.

Seconda lettura

Ap 1,5-8 – Il sovrano dei re della terra ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio.

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà,
anche quelli che lo trafissero,
e per lui tutte le tribù della terra
si batteranno il petto.
Sì, Amen!
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

Canto al Vangelo

Mc 11,9.10

Alleluia, alleluia.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Alleluia.

Vangelo

Gv 18,33-37 – Tu lo dici: io sono re.

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

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